Vocabolario del dialetto napolitano (Rocco 1882)/Prefazione

Da Wikisource.
../L'editore

../A IncludiIntestazione 05 settembre 2020 75% Linguistica

L'editore A


[p. I modifica]

PREFAZIONE



Quando venne alla luce il Vocabolario Napoletano del mio amico Raffaele d’Ambra, fui sollecito a farne un annunzio bibliografico: troppo sollecito, perchè di un vocabolario non si può giudicare a prima vista, e bisogna o leggerlo da capo a fondo o almeno farne lungo uso. Io dunque ne feci molte lodi, feci alcune osservazioni, presi in queste osservazioni qualche granchio, e poi quasi per divertimento mi diedi a studiare per entro agli scrittori napoletani coll’idea di fare delle aggiunte e correzioni al lavoro del d’Ambra. Ma la materia mi cresceva talmente fra le mani, gli errori che vi scopriva erano tanti, che vidi doversi fare il lavoro da capo. Non me ne sgomentai, sebbene in età in cui più si trova vero quel di Orazio: Vitae summa brevis Spem nos vetat inchoare longam. Ed ecco il disegno che mi proposi d’incarnare.

1. Porre per fondamento dell’opera il Galiani1, il de Ritis, il d’Ambra, e poi tutti quei lavori in cui si è cercato d’illustrare il patrio dialetto, come a dire l’indice dello Stigliola, le note dello Zito, del Fasano, del Mormile, del Quattromani. Non si dovevano poi trascurare gli altri lavori lessigraficì e le così dette nomenclature sebbene assai poco ci sia da spigolare, e sebbene siano lavoro di gente che non sa nè l’italiano nè il napolitano, salva qualche rarissima eccezione.

2. Spogliare tutti gli scrittori del dialetto, compresi i comici che in tutto in parte ne fanno fare uso ai loro personaggi.

3. Raccogliere dalla viva voce della plebe parole e frasi per riempire i vuoti che ancor rimanessero.

Tutto ciò è assai facile a dire. Messomi all’opera, trovai tutto difficile. Lasciatemene dire qualche cosa.

Il Galiani è un guazzabuglio. L’ordine alfabetico non è per nulla serbato, e sotto ad una voce sono date per sinonimo molte altre che poi mancano ai loro luoghi. I varii significati vi si affastellano senza distinzione alcuna. I pochissimi esempii che vi si adducono, talvolta non hanno neppure l’indicazione dell’autore, spesso non hanno l’indicazione del luogo. I pochi articoli scritti proprio dal Galiani sono graziosi, ma per lo più erronei e lavorati di fantasia. Quello del de Ritis è certo miglior lavoro, ma non va oltre la v. magnare. L’ordine alfabetico non è serbato con esattezza, e spesso [p. II modifica]confuso con l’ordine per radici. Il modo di citare gli esempii è orribile; sicchè oltre all’essere quasi sempre guasti o per errore di stampa o per falsa lezione o per capriccio, spessissimo sono attribuiti a chi non n’è l’autore. Il de Ritis poi non facea spogli totali di nessun autore, ma li spogliava lettera per lettera secondo il bisogno: sicché le prime lettere sono ricchissime, le altre a mano a mano si vanno impoverendo. E per la smania delle etimologie e per le illustrazioni erudite e scientifiche prese a pigione, piglia granchi di libbra. Sicché quando fui giunto al vocabolo dov’egli lasciò il lavoro interrotto, misi fuori un sospiro della più profonda sodisfazione.

Il d’Ambra finché ha potuto ha seguito il de Ritis, conservando gli stessi errori del suo antecessore (che non son pochi), scegliendo a caso uno o due fra gli esempii, ommettendo moltissime cose senza una ragione al mondo. Dove poi gli è mancato l’ajuto del de Ritis, gli esempii si van facendo sempre più rari, dando chiara prova di avere spogliato pochissimi scrittori, e questi assai superficialmente. Nulla dico delle etimologie, delle parole di altre lingue, soprattutto delle spagnuole, inventate di pianta.

Con tutto ciò ho condotto a termine la fusione di questi tre vocabolarii, correggendo tutto ciò che era o mi pareva evidente errore, lasciando il resto sulla coscienza dei rispettivi autori. In quanto agli annotatori e ai vocabolaristi minorum gentium il mio lavoro non è stato cosi compiuto, lo confesso, come avrei desiderato; ma credo che la perdita non sarà molto grave.

Quanto allo spogliare gli scrittori, io mi era prefisso di prendere per fondamento Basile, Cortese, gli autori della Tiorba e della Violeide, Lombardi, Capasso, Stigliola, Perruccio, Pagano, Sarnelli, Serio, Zozza, Genoino, Quattromani, parecchi dei comici; e poi non tralasciare tutti gli altri. Come si vede, c’era da lavorare per anni ed anni. Ma la mancanza di buone stampe per molti di costoro era insuperabile difficoltà. La raccolta del Porcelli, che basta a chi legge per semplice diletto, non è sufficiente pel vocabolarista che va cercando la vera lezione. Le stampe originali sono divenute di estrema rarità. Nessuno si è occupato di fare per quegli scrittori quelle che oggi si chiamano edizioni critiche tenendo a riscontro tutte le precedenti. Io ho fatto quello che ho potuto, e più avrei fatto se il tempo e i mezzi non mi avessero fatto difetto. Soprattutto pei comici, avendo il Collegio di musica e il d’Ambra fatto raccolte copiosissime, il poco che ho potuto raggranellare io, specialmente coll’ajuto dell’amico Vincenzo Livigni, ò cosa ben meschina.

Quanto alla viva voce del popolo, che bisogna sorprendere nel suo parlare, poiché interrogato o non sa rispondere o risponde male, la cosa non ha altra difficoltà che la mancanza di tempo per mescolarsi con quella buona gente.

Vinte a questo modo in tutto e in parte le difficoltà che si attraversavano alle tre cose propostemi, e venuto quindi all’esecuzione del lavoro, eccoti presentarsi altre difficoltà di altro genere, che chiamerò lessigrafìche, perchè riguardano il modo di fare i vocabolarii in generale e quello del [p. III modifica]dialetto napoletano in particolare.

Non parlo di quelle quistioni su cui i buoni lessicisti son di accordo: come a dire di non trar fuori se non parole isolate e non frasi e modi di dire e modi avverbiali, di porre i participii sotto i verbi rispettivi, i superlativi sotto gli aggettivi da cui nascono, ec. Queste omai son cose giudicate, e per chi fa un vocabolario è vergogna ignorarle.

La prima vera difficoltà che si è presentata è quella dell’ortografia. Nel registrare le voci e nell’allegare gli esempii bisognerà seguire l’ortografia di ciascuno autore o adottare una sola ortografia per tutti?

Benchè l’uno e l’altro metodo possa mettere innanzi i suoi vantaggi, io mi sono attenuto al secondo. Se si trattasse di una raccolta degli scrittori del dialetto, forse si potrebbe discutere l’utilità di seguire l’ortografia che ognuno di loro volle adottare nelle edizioni da essi curate, il che non fece neppure il Porcelli. Si parla, p. e., dell’ortografia del Capasso, quando è risaputo ch’egli nulla pubblicò, e che l’ortografia che a lui si attribuisce è quella che piacque ai suoi editori. Ma qui trattandosi di un lavoro ove gli autori sono citati, ho creduto che l’uniformità fosse da preferire.

Or quale sarà questa ortografia uniforme? Qui ricominciano le difficoltà.

Vi sono delle varietà ortografiche che non ledono nè mutano la pronunzia: in altri termini, gli stessi suoni sono espressi da elementi diversi. In questo caso la scelta non può essere dubbia quando si preferisca la scrittura che ha maggiore semplicità e più si avvicina a quella della lingua comune. Così io non registrerò shiore, shiummo, ec, ma si sciore, sciummo, ec.; nè ommra, mmrejana, ma si ombra, mbrejana e simili.

Ma dove la pronunzia varia, il modo di scrivere non può essere un solo, e però la varietà di scrittura nel corpo della parola dev’essere accolta.

Quindi la vera, la grande quistione sta nel raddoppiamento delle consonanti iniziali. Discorriamone un poco.

Vi sono parole che di loro natura hanno questo raddoppiamento, e per queste non v’ha dubbio che debba essere conservato. Se non che la cosa è facile per un napoletano quanto alle voci tuttora viventi ed usate; non cosi per quelle andate in disuso. Più, vi sono parole che trovansi negli scrittori or col raddoppiamento (senza potersi attribuire alla parola che precede) or colla consonante semplice; ed in questo caso bisogna registrarle nell’uno e nell’altro modo, o lasciare al vocabolarista una discreta libertà di scelta. È però quando trattisi di voci tali che hanno quel raddoppiamento di consonanti iniziali che io chiamerò naturale, bisogna che chi fa uso di questo vocabolario non trovandole scritte nell’un modo abbia la pazienza di cercarle nell’altro. Queste consonanti che si possono raddoppiare in principio di parola si restringono a poche.

Ma oltre a questo raddoppiamento iniziale naturale, ve n’ha uno accidentale che accade cioè in forza della voce che precede a quella in cui ha luogo. Or questo raddoppiamento accidentale è stato da me affatto eliminato per le seguenti ragioni. [p. IV modifica] 1. Quando si sa dopo quali parole quel raddoppiamento dee aver luogo (e questo dev’essere compito della grammatica), mi sembra che sia inutile l’esprimerlo colle lettere sulla carta. È appunto lo stesso caso degli accenti greci, che non possono essere altri che quelli che sono, che la grammatica insegna quali debbano essere, e che quindi sono assolutamente inutili.

2. Anche in italiano accade qualche cosa di simile. La Crusca avverte che a ciascuno, a lei, a me, si pronunziano acciascuno, allei, ammè, e che cosi si trova scritto dagli antichi; ma nessuno oggidì pensa a raddoppiare nella scrittura quelle consonanti. In ispagnuolo le consonanti semplici poste fra due vocali sulla prima delle quali cada racconto tonico, si pronunziano come doppie, ed intanto nella scrittura non si raddoppiano.

3. Le più antiche edizioni non hanno questi raddoppiamenti, nè molte delle moderne. Ricorderò quelle del Cortese, dell’Agnano zeffonnato, della Tiorba, del Fedro del Mormile, dei sonetti del Capasso. È vero che talvolta se ne vede in esse spuntare qualcuno, come pure nelle edizioni che gli ammettono non vengono talvolta osservati. Ma a me piacciono i metodi generali e per quanto è possibile senza eccezioni. Per la stessa ragione non seguo il Serio, che nella prefazione alla raccolta del Porcelli disse di voler conservare i raddoppiamenti pei soli plurali femminili. Per me, o tutti o nessuno.

4. Si dice che tali raddoppiamenti facilitano la lettura ai non Napoletani. Il Serio afferma il contrario. «La nostra pronunzia accenna spesso a raddoppiamento di consonanti: il voler seguir ciò che praticò il Fasano nella sua magnifica edizione della Gerusalemme Liberata, avrebbe gittati in maggior confusione i forestieri». Ed in vero, se questa considerazione dovesse aver valore, quante altre varietà ortografiche si dovrebbero inventare in servizio degli stranieri per far loro pronunziar bene il nostro dialetto! E dopo tutto ciò, per quanti segni s’inventino, chi non è napoletano e vissuto in Napoli per lunghi anni e in contatto del popolo, non riuscirà mai a ben pronunziare il dialetto nostro. Se non volete credere a me, uditelo dalla voce autorevole di Pompeo Sarnelli. Costui si addossò l’incarico di procurare una buona edizione del Pentamerone, e gli fu rimproverato appunto di avere trascurato quei raddoppiamenti. Egli si difende col dire che si è attenuto alla prima stampa (oggi non reperibile), dove in luogo del raddoppiamento, in quelle voci che non l’hanno per natura, trovasi messo innanzi alla consonante un apostrofo; e conchiude col dire, che senza cotesti raddoppiamenti be lo, sa lejere chi è napoletano; ca chi è forestiere, miettece chelle lettere che buoje, ca maje lo lejarrà buono se no lo sente lejere a quacche napoletano o ad autro che sia pratteco a sto parlare. Tanto più che per questo particolare basta apprendere quella breve lista di parole che portan con se il raddoppiamento della consonante iniziale nella parola seguente.

Vero è che oltre a questo, accadono alcuni altri cambiamenti nel cominciar delle parole, i quali se poche volte sono una difilcoltà pel vocabolarista, molte volte son tale [p. V modifica] per coloro che si servono del vocabolario.

E primamente nei plurali femminili e in tutti i casi di raddoppiamenti accidentali, nelle voci che cominciano per j o per v queste lettere si cambiano in ghi e in b. Quindi il vocabolarista le dee registrare nella loro sede naturale. Anzi per le voci comincianti per v spesso accade che si possano scrivere anche per b; e sebbene io abbia usato di registrarle sotto l’una e l’altra lettera, pure debbo avvertire che chi non trova una parola sotto l’una la cerchi sotto l’altra, essendomi potuto qualcuna sfuggire.

Secondariamente, poichè nei femminili e nei plurali hanno luogo delle alterazioni nelle vocali della sillaba dove cade l’accento tonico, accade sovente che tali mutamenti avvengono nelle vocali della prima sillaba, e non di rado proprio nelle vocali iniziali. Quindi invano cerchereste, p. e., i plurali ossa, ova, corna, torza, ponia ec. e i femminili penta, nera ec. se non li cercaste sotto le voci Uosso, Uovo, Cuorno, Turzo, Punto, Pinto, Niro ec.

In terzo luogo, accade chela preposizione Ne o Nne (che raramente trovasi intera) corrispondente all’italiana In, gitta via la vocale e si premette e s’incorpora alla parola a cui va preposta; e se questa comincia con vocale, diviene nn (nnaria vale in aria); se comincia per consonante, generalmente rimane n (ncasa vale in casa); ma se questa consonante è b o p o m, diviene m (mbraccio, mpietto, mmano per in braccio, in petto, in mano); se è s, per lo più questa si cambia in z; se è v, le due lettere nv spesso divengono mm (mmeretà per in verità); se ò d, le due lettere nd si possono mutare in nn; se ò una s impura, si cerca di evitare un tale incontro.

Non spesso cede la sua n finale alla voce seguente che cominci per consonante, e allora hanno luogo cambiamenti simili a quelli qui accennati per ’N preposizione. Quindi no mmoglio per non voglio ec. Ogne molte volte fa prendere un n iniziale alla parola seguente che cominci per consonanf te. Ogne ntrillo, ogne nsera, ec. si dicono per ogne trillo, ogne sera ec. Così avviene anche per .

Or chi ignora queste alterazioni iniziali cercherebbe invano nel dizionario le voci se prima non le riducesse alla loro naturale schiettozza primitiva. In quarto luogo si presenta la difficoltà dei verbi pei mutamenti a cui va soggetta anche in essi la sillaba ch’è sede dell’accento tonico, e che per brevità chiamerò sillaba tonica. E la difficoltà è tanto maggiore, in quanto che neppur l’autorità degli scrittori la può risolvere, non essendo concordi in taluni principii. Nè è da maravigliarsene, quando vediamo anche in italiano pregevoli scrittori contravvenire alla regola del dittongo mobile, su cui ormai tutti i buoni grammatici sono d’accordo.

Or dunque in napoletano la sillaba tonica va soggetta a mutamenti nella vocale, or mutando o in u o in uo, or e in i o in ie; e potendo quella sillaba essere la prima della parola, ognun vede quanto ciò influisca sull’ordine alfabetico. Ora in molti di tali verbi è difficile il fermare quale vocale debba avere l’infinito quando in esso la sillaba tonica cessa di esser tale. Presenta inoltre l’infinito [p. VI modifica] tale varietà dì forma, che si può dire la parte più variabile di un verbo. Uditene qualche cenno.

I verbi frequentativi possono finire in eare, ejare o iare indifferentemente.

I verbi in ere breve hanno spessissimo la doppia desinenza ere ed ire: mettere e mettire, spartere e spartire, scompere e scompire ec.

Gii stessi verbi possono lasciare la sillaba finale re, dicendosi esse, mette ec. per essere, mettere ec; e. quelli in are, ere lungo ed ire possono farsi finire in a, e ed i accentate.

Per tutte queste ragioni io fui tentato di adottare l’uso dei lessici latini e greci, quello cioè di trar fuori la prima persona singolare del presente dell’indicativo; ma neanche così si evitavano tutti gli inconvenienti; perocché i verbi frequentativi hanno a quella voce la doppia desinenza eo ed ejo, molti verbi irregolari ne hanno due o più.

Decisi adunque di attenermi al solito uso di trar fuori l’infinito, con le regole che or dirò.

Uno dei caratteri principalissimi del dialetto nostro si è che raramente si trovi fuor della sillaba tonica le vocali u ed e. Ciò avviene soltanto per eccezioni che non ancora ho bene studiate, ma che finora mi sembrano essere le parole composte, le parole di molte sillabe, le parole in cui si vuol far dominare e spiccare la vocale della radice. Questo carattere non è sempre osservato, come di sopra ho accennato, dagli scrittori, per tre ragioni principali. Queill’o e quell’e che si sostituiscono all’u e all’i sono così stretti, che quasi con queste ultime vocali si confondono. Inoltre la loro pronunzia è varia nelle varie contrade della stessa città di Napoli e del suo contado. Co tutto che, dice il Sarnelli, lo Lavenaro parie de na manera, e cotte pejo ha mutato ntutto lo parlare, e lo Muolo Picciolo de n’autra. Da ultimo non si può negare esserci in alcuni scrittori del dialetto una tendenza ad accostarsi alla buona lingua. Ho dunque tratto fuori quell’infinito in cui si osserva quel carattere del nostro dialetto, e quivi ho arrecato tutti gli esempii; e registrando poi quegli altri infiniti che a me non sembrano di buona lega, ma che pur si trovano negli scrittori, ho rinviato il lettore a quel primo. Così traendo fuori Arrivare, Pigliare, Tirare, Arruolare, Allummare, ec. mi limito a rinviare ad Arrevare, Pegliare, Terare, Arrobbare, Allommare ec. Pei verbi frequentativi ho prescelto la desinenza in iare, profittando della legge fonica che permette nel nostro dialetto di cangiare ia in ea e in eja.

Un’altra cosa notabile ha il nostro dialetto, ed è l’uso che vi si fa della lettera j or come consonante or come vocale, a piacimento dello scrittore. Il Serio voleva che nel secondo caso si mutasse in i, scrivendo p. e. maie monosillabo, maje dissillabo. A me non parve accettabile lo scrivere uno stesso vocabolo ora in un modo ora in un altro, e quindi il doverlo trar fuori due volte nell’ordine alfabetico; e mi son ricordato che anche i poeti italiani hanno fatto gioja, noja ec. di una sillaba.

Questa considerazione ne ha tratta seco un’altra, quella cioè dell’uso che fanno i Napoletani di questa lettera medesima dove s’incontrano due vocali una delle quali sia i non accentata. In tal [p. VII modifica] caso vi ha fino a tre modi di scrivere una medesima parola: come per esempio si può scrivere lezzione, lezzejone e lezzeone; e degli scrittori taluni preferiscono l’un modo, altri un altro. Così pure nel dialetto si aborrisce dal terminare le voci per i, tanto che si possono contar sulle dita quelle che per i finiscono; e nelle desinenze in i preceduta da altra vocale è uso generale frapporre un j, scrivendo seje anzichè sei, faje anziché fai ec. Or in tutti questi casi ho creduto che bastasse registrare i vocaboli in un modo solo, ed i lettori si contenteranno di cercarli in quell’unico modo, altrimenti si sarebbe andato nell’un vie uno. Così chi non trova Lezzejone vada a cercar Lezzione, chi non trova Proverbejo cerchi Proverbio. Anche le voci accentate a cui per paragoge si aggiunge una sillaba son da cercare molte volte nella loro schiettezza.

Lettor mio, abbi pazienza, non ho finito ancora, ma sono in via di finire. Vi sono alcune parole che si scrivono in diversi modi, non per semplice varietà di ortografia, ma con piccola diversità di pronunzia. Or se queste avessero un solo significato, è chiaro che ciascuna dovrebbe occupare il suo posto nell’ordine alfabetico ed aver con se i proprii esempii; ma ciò non essendo, oltre al dover ripetere tutti i significati e le frasi sotto ciascuna, accadrebbe che non tutte avessero gli esempii appropriati, e quindi parrebbe miglior partito il farne un solo artìcolo. Col primo modo si ha sott’occhio le autorità che corroborano ciascheduna forma; col secondo, si ha una più compiuta distribuzione delle varie frasi e significazioni. Io lascio ad altri la cura di scegliere il migliore fra i due modi, pago di averli indicati; e dichiaro che mi sono servito ora dell’uno ora dell’altro, largheggiando di rinvii. Se ne avessi avuto il tempo e l’abilità, avrei scelto fra le varie forme la più usata e la più regolare, e radunando sotto questa tutte le altre coi loro esempii, avrei sotto quelle rinviato semplicemente alla prescelta, tenendo come norma principale quella che è la caratteristica del nostro dialetto, cioè, lo ripeto, che raramente e per eccezione si trovi l’i e l’u fuor della sede dell’accento tonico.

Una delle ricchezze del nostro dialetto è quella delle voci composte; ma nelle stampe si trovano per lo più scritte non in un sol vocabolo, ma distinte ne’ loro elementi: il che a me sembra che si possa fare soltanto allorché tali elementi si possono grammaticalmente reggere da se nel discorso. Per esempio, a me pare che si possa scrivere del pari Meza notte e Mezanotte. Non così quando di un composto che equivale ad un nome faccia parte una voce di verbo che da se sola non avrebbe officio nella proposizione. Scrivete, per esempio, tu si no zuca nnoglia, ed analizzatemi quel zuca grammaticalmente, e ditemi che ufficio si faccia. A questo sconcio, che si verifica anche per l’italiano, non c’è altro rimedio che scrivere e registrare tali nomi in una parola. Per non aver pensato a ciò i miei predecessori o hanno ommesso moltissimi di questi vocaboli composti, gli hanno messi in luoghi dove nessuno può pensare a ricercarli.

Vero è che ve ne sono alcuni, come sarebbe Arranca e fuje, [p. VIII modifica] Santa e tonza, Lassame stare, Muccio me pesa, Passa a la scola, che sì ribellano a questo rimedio. Io non avrei nessuno scrupolo di scrivere Arrancheffuje, Sautettozza ec. Ma per non fare troppe novità gli ho registrati sotto il primo vocabolo di cui si compongono.

Ho conservato tutti gli esempii arrecati dai miei predecessori, correggendoli dov’erano errati, riscontrandoli nelle buone edizioni, sicché ora ne rispondo io. Ma per le opere manoscritte da essi citate, e per quelle opere stampate che non ho potuto avere alle mani, e per quegli esempii che non mi è riuscito ritrovare per citazione errata o incomprensibile, la responsabilità rimane tutta a chi gli allegò; ed io me ne son lavate le mani apponendovi un punto interrogativo in parentesi.

Di molti vocaboli e modi di dire non ho potuto o saputo trovare la spiegazione. I miei predecessori hanno preferito di saltarli, ed è questo un modo assai spacciativo; io invece tutto registro, contentandomi talvolta di qualche congettura, tal altra di confessare la mia ignoranza: potranno così altri più fortunati e saputi sopperire al difetto.

Certo questo che vi presento è un lavoro assai monco; ma io prometto di non fermarmi, e di cercare di accrescerlo seguitando col metodo che ho indicato. Né perciò vi farò spendere altri quattrini per una seconda edizione che renda inutile la prima. Codesto procedere non mi è parso mai onesto. Invece farò dei supplementi per coloro che avranno comprato la presente edizione, anche quando per un caso straordinario dovessi fare di questo libro una ristampa.



  1. Continuo a dar questo nome al vocabolario compilato da Francesco Mazzarella Farao, dove ben poco c’è dell’abb. Galiani.