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Wittgenstein e la filosofia trascendentale del linguaggio/Conclusione

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Conclusione

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Parte seconda. La filosofia dell'ultimo Wittgenstein come filosofia trascendentale Nota bibliografica

Se l’argomentazione che ho svolto fin qui è valida, la conclusione a cui siamo arrivati è che la filosofia elaborata da Wittgenstein nei testi che egli compose durante la seconda metà della sua vita è una filosofia trascendentale. Più precisamente: la nozione di «grammatica» con cui Wittgenstein opera ricopre nella sua discussione del problema della conoscenza il ruolo di una logica trascendentale.

Le regole a cui obbediscono i nostri usi delle parole sono ciò che rende possibile la significatività dei nomi e la sensatezza delle proposizioni. Tali regole sono presupposte da ogni discorso dotato di senso, e non possono essere discusse se non venendo ancora e sempre presupposte: ciò rende impossibile sia fondarle (perché una fondazione che possa chiamarsi tale non presuppone ciò che deve fondare) sia confutarle (perché una confutazione che possa chiamarsi tale non presuppone ciò che deve confutare). Del resto, essendo regole, cioè avendo un valore prescrittivo, e non descrittivo, esse non pretendono di essere vere più di quanto possano mai rivelarsi false, e quindi l’impossibilità in cui si trovano di essere giustificate non pone alcun problema, mentre le mette al riparo dal dubbio che lo scettico potrebbe voler sollevare al loro riguardo. Le regole sono immanenti all’uso, coincidono con la regolarità dell’uso stesso, e dunque sono, in primo luogo, indefinitamente numerose, e, in secondo luogo, suscettibili di cambiare in risposta ai cambiamenti dell’uso. Ciò significa che le grammatiche possono mutare, ma che la grammatica resta impossibile da trascendere se non al prezzo di tacere o di dire cose senza senso. Non si possono abbandonare le regole del gioco se non smettendo per ciò stesso di giocare. Grammatiche diverse di linguaggi diversi, regole diverse di giochi diversi, sono possibili, ma solo nella misura in cui la loro reciproca differenza è, per esprimerci così, una differenza empirica: un gioco tanto diverso dal nostro da non essere più un gioco, nelle cui prassi cioè non fosse più riconoscibile alcuna regolarità, sarebbe per noi rumore o silenzio, e questo è quanto dire che nella misura in cui i limiti della nostra comprensione non sono limiti empirici, ma limiti trascendentali – nella misura in cui il nostro linguaggio è il linguaggio trascendentale di un Noi trascendentale, e cioè nella misura in cui abbandonarlo non significa pensare diversamente da come pensavamo prima o da come penseremmo altrimenti, ma non pensare affatto – essi sono limiti insormontabili.

Un approccio trascendentale alla filosofia consiste nella considerazione che la nostra possibilità di dire che qualcosa accade o non accade è vincolata dalle strutture che ci permettono di dire che qualcosa accade o non accade, e che dunque, finché restringiamo il nostro interesse per il mondo a ciò che del mondo possiamo dire, siamo autorizzati e anzi obbligati a presupporre la validità oggettiva delle nostre categorie. Andando a sbattere contro i limiti del linguaggio, che consistono nell’avere certe proposizioni senso e nel non averne certe altre, comprendiamo che la sua grammatica è una struttura intrascendibile e irriducibile,1 che, finché parliamo, dobbiamo e possiamo presupporre. Così noi rinunciamo a non dare niente per scontato, ma diamo per scontato solo ciò che non possiamo che dare per scontato – solo ciò che non possiamo né affermare, né negare, in quanto è la condizione di ogni affermazione e negazione.

Wittgenstein evita così sia l’apriorismo dogmatico, sia il naturalismo obiettivistico. Egli nega che vi siano verità che conosciamo senza giustificazione, ma nega anche che i fatti possano fornire una giustificazione di alcunché. La sua soluzione al problema generale della conoscenza è di carattere trascendentale perché egli conclude che le strutture fondamentali della conoscenza non possano avere e dunque anche non abbiano bisogno di altra legittimazione se non quella che traggono dal rendere possibile il sistema stesso delle nostre conoscenze, cosicché la loro legittimazione non assume la forma di una giustificazione.

Il dire che quella di Wittgenstein è una filosofia trascendentale comporta un modo di intendere la parola «trascendentale» che non è l’unico possibile, e che per molti versi è abbastanza lontano da quello, per esempio, di Kant. Il senso che la nozione di «trascendentale» ha assunto in questo saggio dipende dall’uso che ne ho fatto finora; se tale uso non è grossolanamente contraddittorio, esso non ha bisogno per essere lecito che di conservare qualcosa in comune con gli usi abituali dello stesso termine – quanto basta, insomma, perché non si debba pensare che avrei fatto prima e meglio a inventarmi una parola nuova. Alcuni interpreti hanno negato che la filosofia di Wittgenstein sia una filosofia trascendentale sulla base del fatto che in essa non c’è spazio per giudizi sintetici a priori;2 altri l’hanno contestato perché alle condizioni di possibilità della conoscenza che Kant concepiva come le poche e fisse forme pure della sensibilità e dell’intelletto si è sostituita la concretezza plurale e dinamica della grammatica dei linguaggi reali;3 altri ancora hanno rifiutato di etichettare Wittgenstein come filosofo trascendentale per via del suo rifiuto di porre la propria riflessione in continuità con la tradizione filosofica, di assumere qualsiasi posizione assimilabile a una vera e propria teoria e, in breve, di farsi alfiere di un qualsiasi «-ismo».4

Ma ammettere l’esistenza di una sinteticità a priori dei giudizi non è necessario per affermare che la possibilità di un certo discorso riposa sull’impossibilità che certe cose vengano messe in dubbio: per questo è sufficiente una distinzione tra proposizioni che fungono da descrizioni e proposizioni che fungono da prescrizioni. La disponibilità di un novero ristretto, immutabile e facile da snocciolare di principi non è necessaria per affermare che vi sono delle strutture che rendono possibile ogni discorso, che non possono essere eluse e che possono essere chiarite, per mezzo di un discorso, solo essendo di nuovo presupposte: per questo è sufficiente che tali strutture siano pensate come regole grammaticali. La dichiarazione, infine, di essere filosofi trascendentali non è necessaria per essere tali: per questo è sufficiente fornire una concezione del linguaggio che ne fa, in quanto è dotato di una grammatica che sta a esso come le regole al gioco, l’atmosfera in cui respirano le proposizioni dotate di senso.

Con questo, diviene possibile rispondere a una domanda assai interessante nello studio di Wittgenstein: quanto rimane immutato, e quanto cambia, nella transizione dalla filosofia del Tractatus a quella delle opere del secondo periodo? E quali sono le ragioni delle continuità, quali quelle delle discontinuità?

La continuità più importante, credo, si trova nella concezione trascendentale della logica. La logica è l’insieme delle regole del linguaggio, è ciò in cui non possiamo sbagliarci perché è ciò che determina la sensatezza delle proposizioni di cui possiamo dire che sono vere o false; e in quanto il mondo non è accessibile dal punto di vista della conoscenza se non per mezzo di proposizioni sensate del linguaggio, dobbiamo attribuirgli a priori le strutture che le regole della grammatica logica ci obbligano a presupporre in esso, mentre ciò la cui espressione viola tali regole dev’essere, ugualmente a priori, impossibile. La discontinuità essenziale consiste allora nel modo in cui Wittgenstein concepisce quella logica, quel sistema di regole, che prima e dopo il «passaggio al punto di vista del gioco» occupa nel suo pensiero il posto di ciò che è al contempo l’impalcatura del linguaggio e l’impalcatura del mondo in tanto in quanto i due – il descritto e la descrizione – sono originariamente correlati.

La logica trascendentale del Tractatus è una logica della raffigurazione, nella quale la sintassi è vuota, cioè è sempre decidibile sul piano di un mero calcolo, e la semantica si riduce alla possibilità della designazione di un oggetto semplice da parte di un nome semplice, cosicché la risoluzione dell’immagine è sempre perfettamente adeguata alla complessità del fatto raffigurato. Una descrizione completa del mondo è concepibile come elenco delle proposizioni vere, o, che è lo stesso, come elenco delle proposizioni elementari vere. Una descrizione completa del mondo è definitiva. In essa non trovano posto i valori – né etici, né estetici. In essa non trova posto la metariflessione.

La logica trascendentale di Della certezza (che diviene comprensibile in tutte le sue sfaccettature ricorrendo allo sfondo delle Ricerche filosofiche e degli altri libri del Wittgenstein maturo) è la grammatica del nostro linguaggio, il complesso mutevole e aperto delle regole dei nostri molteplici giochi linguistici. In base a questa logica non solo non è vero che se un concetto non è determinato completamente non è affatto un concetto (cfr. PU 71); al contrario, un concetto è tale solo in quanto ha un’applicazione regolare nella prassi linguistica, ma la regolarità non sussiste se non nelle applicazioni. Così le applicazioni non devono solo adeguarsi alle regole, ma possono anche influenzarle. E una regola è tale appunto perché nessuna sua formulazione può riassumerne tutte le applicazioni, in modo tale che a ogni passo va colmato un margine di indeterminazione. Così la sintassi e la semantica di questa logica, in quanto ugualmente assimilabili alle regole di un gioco, permettono di costruire proposizioni dotate di senso che si giustificano per mezzo di altre proposizioni dotate di senso, ma che non esauriscono mai le possibilità della combinazione dei concetti. La metariflessione, l’estetica e l’etica trovano posto nel nostro discorso nell’esatta misura in cui le proposizioni in cui si esprimono fanno parte della nostra forma di vita, cioè appartengono, come regole o come applicazioni, al nostro gioco linguistico, e lo condizionano.

La logica di Della certezza e delle Ricerche filosofiche è più duttile, più viva, più umana di quella del Tractatus. È la logica del nostro linguaggio, e non di un linguaggio idealizzato che, rispetto al terreno scabro dell’esistenza reale, assomiglia piuttosto una lastra di ghiaccio priva d’attrito sulla quale, proprio per questo, non riusciamo a muoverci (cfr. PU 107). È la logica che rende possibile la nostra scienza, la nostra comunicazione. È la logica il chiarimento della quale, smascherando i paralogismi in cui cadiamo per via della sua stessa complicazione e oscurità, ci restituisce una certa padronanza dei nostri concetti, senza peraltro che si possa mai giungere a una trasparenza totale. Il nostro gioco consiste sempre nell’unire e distinguere, e per quanto possiamo affinare le nostre sintesi o analisi non accederemo mai a una conoscenza sovra-concettuale, perché l’idea di una conoscenza sovra-concettuale, preter-linguistica, è semplicemente autocontraddittoria. Una conoscenza, per esempio, in cui la molteplicità del reale è restituita da un modello proposizionale con la medesima molteplicità non è affatto una conoscenza: la trasparenza totale è un’illusione, e la correzione di questa illusione comporta come corollario che un linguaggio perfetto non è affatto un linguaggio. La logica di Della certezza e delle Ricerche filosofiche, diversamente da quella del Tractatus, è duttile, viva, umana.

Il secondo Novecento si è accorto di quanto il pensiero del Wittgenstein maturo sia fecondo quando si tratta di rendere conto della pluralità dei punti di vista possibili e dell’evoluzione delle teorie, delle dinamiche di argomentazione e di persuasione, delle potenzialità e degli ostacoli impliciti nella sfida della traduzione.5 Ma la filosofia dei giochi linguistici non è, come qualcuno ha preteso, un’abdicazione del pensiero di fronte alla frammentazione dei modi di esprimersi e di vivere, una presa d’atto rassegnata e quietista della dilagante Babele votata, tuttalpiù, a compilarne una fenomenologia.6

Il gioco è il modello stesso del trascendentale, lo spazio né regolare, né irregolare, all’interno del quale può darsi e si dà ogni regolarità e ogni irregolarità. Che la filosofia dei giochi linguistici sia una filosofia trascendentale vuol dire che essa, nel rifiutare come insensati i tentativi di fondare naturalisticamente o confutare scetticamente la razionalità, riconferma il ruolo normativo che le sue strutture svolgono fintantoché ci si muove al suo interno. Essa rifiuta dunque anche l’anarchia, e consolida, chiarendo il suo funzionamento, l’asse che orienta la distinzione tra il vero e il falso: la grammatica non è né ragionevole, né irragionevole, né vera, né falsa (essa sta lì, come la nostra vita), ma alle proposizioni costruite in conformità con la grammatica appartiene essenzialmente, cioè appunto in conformità con la grammatica, la possibilità di essere giustificate o confutate, e dunque di essere vere o false.

L’importanza di una lettura trascendentale di Wittgenstein sta allora nel fatto che essa ci permette, da filosofi, di concepire il rapporto tra il linguaggio e ciò che esso descrive come un rapporto non estrinseco e la verità come qualcosa che è a portata di mano, perché si dà nello stesso linguaggio in cui consiste la nostra forma di vita. Ci permette, in breve, di usare e studiare il nostro linguaggio con la piena coscienza che esso non è mai solo linguaggio.

Note

  1. Si esprime in termini simili a questi P. Hadot, Wittgenstein et les limites du langage, cit., pp. 33-35.
  2. Cfr. J.M. Weyls, “Wittgenstein: Transcendental Idealist?”, cit.
  3. Cfr. A. Soulez, “Le grammatical au lieu du transcendantal. Le langage en conflit avec « notre exigence »”, in Grammatical ou transcendantal ?, a cura di A. Moreno e A. Soulez, cit., pp. 93-126 e in part. p. 98.
  4. Cfr. A.W. Moore, “Wittgenstein and Transcendental Idealism”, cit., pp. 187-188; A. Matar, “Le transcendantal et le cas particulier”, in Grammatical ou transcendantal ?, a cura di A. Moreno e A. Soulez, cit., pp. 73-91 e in part. pp. 76-77.
  5. Con tutti i suoi limiti, il libro di J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., è esemplare da questo punto di vista.
  6. Con tutti i suoi pregi, il libro di J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., è esemplare da questo punto di vista. Cfr. anche i saggi raccolti in Id., Rapsodia estetica. Scritti su arte, musica e media, a cura di D. Cecchi, Guerini, Milano 2015. Forse Newton Garver pensa anche a questo aspetto di Lyotard quando esprime un punto di vista a cui mi sento molto vicino: «There are so many enthusiasts claiming the end of rational philosophy, or the end of philosophy, and even claiming Wittgenstein to be among their cohort— as if showing that reason is not good for everything proves that it is not good for anything—that it is worthwhile sketching the continuing plausibility of critical philosophy, and the rich prospects there seem to be of reading Wittgenstein as revitalizing the philosophical tradition that began with Kant»; N. Garver, “Wittgenstein and the Critical Tradition”, cit., p. 239.