Antico sempre nuovo/Il cocomero

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Il cocomero

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IL COCOMERO1

Non trovo menzione di «cocomero» o «cucumis» prima che in Varrone e Virgilio. M. Terenzio Varrone (638-727 u. c.) non ne parla nel libro che ci resta «de agricultura» (1º dell’opera «de re rustica»), bensì ne dà l’etimologia strana al solito, nel quarto de’ suoi libri «de lingua latina». «Cucumeres», egli dice, «a curvitate dictos quasi curvimeres». P. Vergilio Marone nelle sue Georgiche, scritte dal 717 al 724 u. c., lo ricorda in uno dei più bei passi della sua dolce poesia (IV, nó148). Dopo aver raccomandato al diligente coltivatore delle api di avere non lontano dagli alveari un bell’orticello, coi suoi odorosi fiori gialli, col suo Priapo in mezzo che a terror dei ladri e degli uccelli porta la falce di salcio, esprime il suo rammarico di non potere, così sull’ultimo del suo poema, trattare degli orti, come volontieri egli canterebbe le cure che si devono a questi cantucci deliziosi della campagna, nei quali il bello è vicino al buono, il [p. 326 modifica]rosaio è prossimo all’indivia, l’acanto, l’edere e i mirti sono vicini al sedano e al prezzemolo! E gli viene in mente un vecchiettino della Cilicia, forse già pirata, che aveva ottenuto nelle vicinanze di Taranto una grillaia sabbiosa, non buona nè per prato nè per grano nè per viti; ma c’era l’acqua da irrigarla; e il Cilice ne aveva fatto un orto e un vivaio di piante: aveva i bei cavoli e i bei fiori, e rose e pomi, tutto meglio e tutto prima degli altri; e sapeva difendere i suoi prodotti dal freddo e dal gelo; e teneva le api, e aveva fatto bei viali di tigli di pini di olmi di peri di prugni di platani, trapiantandoli anche adulti. In questo bel passo, in cui si vede tutto l’affetto, direi quasi la nostalgia, del poeta per la campagna, Vergilio nomina al verso 121, tra l’appio e il narciso, il «cucumis»:

                              tortusque per herbam
                         cresceret in ventrem cucumis;

che il nostro Dionigi Strocchi traduce:

                                        e come il ventre
                         dell’errante cocomero s’accresca.

La pianta del «cucumis» striscia e s’attorce, e il frutto si fa tondo via via. È proprio, direi, il nostro cocomero. E del cocomero nostro direi che parlasse Properzio nella elegia seconda del libro IV, al verso 43:

               caeruleus cucumis tumidoque cucurbita ventre.

Ceruleo, invero, è il color della buccia del cocomero, specialmente per chi ricordi qual senso danno´ [p. 327 modifica]i latini all’aggettivo «caeruleus», il quale Vergilio, per esempio, dà (Aen. III, 194) alla nuvola temporalesca, all’«imber», come dice esso:

                              caeruleus supra caput adstitit imber
                    noctem hiememque ferens.....

Nè si dica che tale presso a poco è il colore delle zucche. Queste invece da un altro poeta (Priap. LXXXV, 13) sono chiamate «pallentes».

I belli orti romani.... Ma ci sono ancora. Andate da un contadino di Romagna e troverete quasi sempre l’orticello, come era allora, ai bei tempi di Roma, con quella bella mistura di radicchio e di garofani, di cipolle e di spigo o lavanda. In Romagna non sopravvive solo il nome di Roma, ma tante altre cose; e specialmente della Roma più vera, della Roma agreste. Non si mangiano anche adesso in Romagna le «quadrae» del pane primitivo senza lievito, cotte sulla «testa» o sul «testu»? (Vedi Seneca, Epist. 90, 23 e confronta Verg. Aen. VII, 109 c. 115).

Non è ancora la nostra campagna divisa secondo le misure dei «gromatici», che lineavano ai coloni le «centuriae» loro assegnate?

Persino io sospetto che questa parola «centuria» (la quale si pronunziava «kenturia») si conservi nella parola vernacola «cantîr». E anche gli orti che piacevano a Vergilio, che Vergilio avrebbe voluto cantare, rimangono. Li ha conservati quel fedele conservatore dell’antichità che è il lavoratore della terra, antica madre. Manca soltanto, in tali orti, il ligneo Priapo, con la falce e il rosso palo osceno. I poeti romani scrivevano o fingevano di [p. 328 modifica]scrivere per codesti Priapi i loro epigrammi, di molta eleganza sempre, non sovente di soverchia pudicizia: alcuni, tuttavia, pieni di freschezza e di vita. In uno d’essi, il LI (della raccolta detta «Priapea»), è nominato il cocomero:

               ...cucumeres... humi fusos (verso 18).

Il poeta che aveva chiamato «seminosas» le zucche, dalla quantità dei loro semi, ai «cucumeres » non aggiunge altro epiteto, se non uno derivato dalla breve ma esatta descrizione di Virgilio, che ha «tortus.... per herbam».

Chi si dilunga sul cocomero, pur con quella sua pretensiosa concisione «scientifica», è il buon Plinio, nella sua «Historia Naturalis», XIX, 23, 5. Il qual Plinio ebbe il torto di studiar la natura, di cui era istorico, per lo più sui libri. Egli ci racconta che Tiberio li amava molto i «cucumeres», e li poteva avere dalla terra ogni giorno dell’anno, chè li portava attorno in orti pensili, con le ruote. Ci dice, ricavando la notizia da autori greci, che per averli dolci bisognava tenere i semi infusi nel latte e miele. Ci dice che si possono ottenere di tutte le forme. Ci dice che in Italia sono «verdi e piccolissimi », nelle provincie grandissimi e color cera e neri. Allignano molto nell’Africa, nella Mesia sono giganteschi. Quando hanno passato una certa misura si chiamano «pepones».... Il che fa dire a qualche commentatore che Plinio intende con lo stesso nome di «cucumeres» sì i cocomeri e sì i meloni. Aggiunge Plinio che «vivunt hausti in stomacho in posterum diem», il che si potrebbe tradurre: «mangiati, rimproverano sino al giorno [p. 329 modifica]dopo». La qual cosa mi parrebbe ben convenirsi al cocomero, sebbene anche il popone e specialmente il citriolo abbiano l’uso di far di codesti «rimproveri». Plinio fa poi menzione d’una specie di tali «cucumeres» detti «melopepones», che fanno in Campania e hanno la figura di mele cotogne. E questi hanno proprio a essere i «meloni», i progenitori almeno dei nostri meloni o poponi, perchè Plinio ne loda, oltre il colore e la figura, anche l’odore; e dice che sebbene non pendano ma siano coricati in terra, appena maturano si staccano facilmente dal picciuolo: «statim a pediculo recedunt». E questa loro proprietà ha forse suggerito a Columella (X, «de cultu hortorum», 234) l’aggiunto a «cucumis»: dal tenero collo»:

          Et tenero cucumis fragilique cucurbita collo.

Tutt’insieme in Roma la poesia del cocomero... Non sorridete! La poesia è il fiore e l’utilità è il frutto; e senza fiore non si dà frutto. Per ripopolare le campagne italiche di liberi lavoratori, Virgilio scriveva le Georgiche; perchè? Prima il fiore, poi il frutto. Or bene, la poesia del cocomero in Roma non fu bene espressa, a quel che io credo. Si è detto il suo strisciare, il suo arrotondarsi e gonfiare, e il suo color ceruleo all’esterno; ma nient’altro: non il suo bel rosso interno, non quei suoi semi che, quando sono ancora tenerini, sembrano i denti appena spuntati dalle gengive d’un bimbo, non la sua zuccherina acquidità, non la giocondità che dà alle fiere e alle feste dell’estate, non la gioia che suscita nei fanciulli... che hanno il soldo per [p. 330 modifica]comperarne una fetta. Ma io ricordo un caso in cui la poesia di questo bel prodotto della nostra Romagna esce dall’idillio ed entra nell’epopea. Ed è poesia antica e romana; d’altri tempi e d’altri uomini.

Una legione muove da Roma, presa dai Galli: si ritira, per andare a combattere ancora contro altri «hostes», Germani Pannonici Illirici. Con quella legione è l’«aeterna auctoritas» di Roma. A capo di essa è un duce «cum imperio». È l’Ultimo, questi, dei dittatori. Egli marcia tra quattro eserciti nemici e tra popolazioni che non ricordano più i fasci e le aquile e i sacri ancilii. Dalla grande repubblica in riva al Tevere, giunge a una repubblica piccola non lontana dal piccolo Rubicone. Qui le legione è sciolta. Il dittatore non accetta patti dal nemico accerchiante, e con più pochi uomini di quelli che ebbe Leonida, con un manipolo stremato de’ suoi, si sottrae; cammina tutta una notte per viottoli e dirupi; passa, vicino alle sorgenti, il Rubicone; si trova, a giorno, sui colli avanti la bella pianura che conserva il nome di Roma, solcata dai flessuosi fiumi argentei, orlata dal ceruleo Adriatico. Ha con sè, il dittatore, la sua donna. Questo è un tratto nuovo: qualche cosa di più gentile e di più eroico. La donna ha sete. Le portano un cocomero che ella taglia col suo pugnale.

Queste cose antiche avvenivano nell’estate, e precisamente il 1º agosto del 1849, cioè nelle calende sestili o auguste dell’anno «urbis conditae» duemillesimo secentesimo terzo. La donna era Anita, il dittatore Garibaldi,

Note

  1. Risposta ad uno studente di agraria che chiedeva se gli antichi romani conoscevano il cocomero.
         Da «Il Giornale d’Italia», 24 agosto 1909.