Arcadia (Sannazaro)/Prosa VIII

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Prosa VIII

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ARGOMENTO


Carino, parlando con Sincero, e confortandolo a bene sperare nel suo esilio, e nella lontananza dalla sua donna, racconta i suoi amori con una Ninfa; e in questa narrazione descrive molti spassi d’uccellare, che sogliono pigliarsi alle ville, sollazzevoli veramente, e di molto gusto; come bene si può ancora comprendere dalle tre giornate de’ piaceri della villa, descritte nella Agricoltura del mio rarissimo in questa professione Signore Agostino Gallo gentiluomo Bresciano.


prosa ottava.


Appena era io alle ultime note del mio cantare pervenuto, quando con allegra voce Carino ver me esclamando: Rallegrati, mi disse, Napolitano pastore, e la torbidezza dell’animo, quanto puoi, da te discaccia, rasserenando omai la malinconica fronte; che veramente ed alla dolce patria, ed alla donna, che più che quella desideri, in brevissimo tempo ritornerai, se ’l manifesto e lieto segnale, che gli Dii ti mostrano, non m’inganna. E come può egli essere? risposi io: ora basterammi tanto il vivere ch’io la riveggia? Certo sì, disse egli: e degli augurii, e delle promesse degli Dii non si deve alcuno sconfortare giammai; perocchè certissime ed infallibili tutte sono: adunque confortati, e prendi speranza di futura letizia; che cerio io spero che ’l tuo sperare non sia vano. Non vedi tu il nostro Ursacchio tutto festivo [p. 85 modifica]da man destra venirne con la ritrovata giovenca, rallegrando le propinque selve col suono della soave sampogna? Per la qual cosa, se luogo alcuno hanno in te i preghi miei, io ti prego, e quanto posso ti ricordo, che di te stesso pietà ti stringa, ed alle amare lacrime ponghi fine: perocchè, com’è il proverbio, nè di lacrime Amore, nè di rivi i prati, nè capre di fronde, nè api di novelli fiori si videro sazie giammai: e per porgerti nelle afflizioni migliore speranza, ti fo certo, che io, il quale se ora non del lutto lieto, almeno in parte scarico delle amaritudini dir mi posso, fui in simile, e forse, dal volontario esilio in fuori, il quale ora sì fieramente ti preme, in più doloroso caso, che tu non sei, nè fosti giammai; conciossiacosachè tu mai non ti mettesti in periglio di perdere quello, che forse con fatica ti pareva avere racquistato, come feci io, che in un punto ogni mio bene, ogni mia speranza, ogni mia felicità commisi in mano della cieca Fortuna, e quelli subitamente perdei. Nè dubito punto, che siccome allora gli perdei, così gli avrei ancora in eterno perduti, se disperato mi fossi dell’abbondevole grazia degli Dii, come tu facesti. Era io adunque, benchè sia ancora, e sarò mentre lo spirito reggerà queste membra, insino dalla mia fanciullezza acceso ardentissimamente dell’amore d’una, che al mio giudicio con le sue bellezze non che l’altre pastorelle d’Arcadia, ma di gran lunga avanza le sante Dee; la quale, perocchè dai teneri anni a’ servigj di Diana disposta, ed io similmente nei boschi nato e nodrito era; volentieri con meco, ed io con lei per le selve [p. 86 modifica]insieme ne dimesticammo, e, secondo che vollero gli Dii, tanto ne trovammo nei costumi conformi, che uno amore, ed una tenerezza sì grande ne nacque fra noi, che mai nè l’uno nè l’altro conosceva piacere, nè diletto, se non tanto quanto insieme eravamo. Noi parimente nei boschi di opportuni instrumenti armati alla dilettosa caccia andavamo; nè mai dalli cercati luoghi carichi di preda tornavamo, che prima, che quella tra noi divisa fosse, gli altari della santa Dea non avessimo con debiti onori visitati, ed accumulati di larghi doni, offerendole ora la fiera testa del setoso cinghiale, ed ora le arboree corna del vivace cervo, sovra gli alti pini appiccandole. Ma come che di ogni caccia prendessimo sommamente piacere, quella delli semplici, ed innocenti uccelli oltra a tutte ne dilettava; perocchè con più sollazzo, e con assai meno fatica che nessuna dell’altre si potea continuare. Noi alcuna volta in sul fare del giorno, quando appena sparite le stelle, per lo vicino sole vedevamo l’oriente tra vermigli nuvoletti rosseggiare, n’andavamo in qualche valle lontana dal conversare delle genti, e quivi fra duo altissimi, e dritti alberi tendevamo la ampia rete, la quale sottilissima tanto, che appena tra le frondi scernere si potea, aragne per nome chiamavamo, e questa ben maestrevolmente, come si bisogna, ordinata, ne moveamo dalle remote parti del bosco, facendo con le mani rumori spaventevoli, e con bastoni, e con pietre di passo in passo battendo le macchie verso quella parte, ove la rete stava, i tordi, le merule, e gli altri uccelli sgridavamo: li quali dinanzi a noi paurosi fuggendo, [p. 87 modifica]disavvedutamente davano il petto negli tesi inganni, ed in quelli inviluppati, quasi in più sacculi, diversamente pendevano. Ma al fine veggendo la preda essere bastevole, allentavamo appoco appoco i capi delle maestre funi, quelli calando; ove quali trovati piangere, quali semivivi giacere, in tanta copia ne abbondavano, che molte volte fastiditi di ucciderli, e non avendo luogo ove tanti ne porre, confusamente con le mal piegate reti ne li portavamo insino agli usati alberghi. Altra fiata, quando nel fruttifero Autunno le folle caterve di storni volando in drappello raccolte si mostrano a’ riguardanti quasi una rotonda palla nell’aria, ne ingegnavamo di avere due o tre di quelli, la qual cosa di leggiero si potea trovare, ai piedi de’ quali un capo di spaghetto sottilissimo unto d’indissolubile visco legavamo, lungo tanto quanto ciascuno il suo potea portare, e quindi, come la volante schiera verso noi si approssimava, così li lasciavamo in loro libertà andare: li quali subitamente a’ compagni fuggendo, e fra quelli, siccome è lor natura, mescolandosi, conveniva che a forza con lo inviscato canape una gran parte della ristretta moltitudine ne tirassero seco. Per la qual cosa i miseri, sentendosi a basso tirare, ed ignorando la cagione, che il volare loro impediva, gridavano fortissimamente, empiendo l’aria di dolorose voci; e di passo in passo per le late campagne ne gli vedeamo dinanzi a’ piedi cadere; onde rara era quella volta, che con li sacchi colmi di caccia non ne tornassimo alle nostre case. Ricordami avere ancora non poche volte riso de’ casi della male augurata cornice; ed udite [p. 88 modifica]come. Ogni fiata, che tra le mani, siccome spesso addiviene, alcuna di quelle ne capitava, noi subitamente n’andavamo in qualche aperta pianura, e quivi per le estreme punte delle ali la legavamo resupina in terra, nè più nè meno come se i corsi delle stelle avesse avuto a contemplare; la quale non prima si sentiva così legata, che con stridenti voci gridava, e palpitava sì forte, che tulle le convicine cornici faceva intorno a se radunare: delle quali alcuna forse più de’ mali della compagna pietosa, che de’ noi avveduta, si lasciava alle volle di botto in quella parte calare per ajotaria, e spesso per ben fare ricevea mal guiderdone; conciossiacosachè non sì tosto vi era giunta, che da quella, che ’l soccorso aspettava, siccome da desiderosa di scampare, subito con le uncinute unghie abbracciata e ristretta non fosse; per maniera che forse volentieri avrebbe voluto, se potuto avesse, svilupparsi da’ suoi artigli: ma ciò era niente; perocchè quella la si stringeva, e riteneva sì forte, che non la lasciava punto da se partire; onde avresti in quel punto veduto nascere una nuova pugna; questa cercando di fuggire, quella di ajutarsi; l’una e l’altra egualmente più della propria, che dell’altrui salute sollicita, procacciarsi il suo scampo. Per la qual cosa noi, che in occulta parte dimoravamo, dopo lunga festa sovra di ciò presa, vi andavamo a spiccarle, e, racquetalo alquanto il romore, ne riponevamo all’usato luogo, da capo attendendo, che alcuna altra venisse con simile atto a raddoppiarne lo avuto piacere. Or che vi dirò io della cauta grue? certo non le valeva, tenendo in pugno la [p. 89 modifica]pietra, farsi le notturne escubie; perocchè dai nostri assalti non vivea ancora di mezzo giorno sicura. Ed al bianco cigno che giovava abitare nelle umide acque per guardarsi dal foco, temendo del caso di Fetonte, se in mezzo di quelle non si potea egli dalle nostre insidie guardare? E tu, misera e cattivella perdice, a che schifavi gli alti tetti, pensando al fiero avvenimento dell’antica caduta, se nella piana terra quando più sicura stare ti credevi, nelli nostri lacciuoli incappavi? Chi crederebbe possibile, che la sagace oca, sollicita palesatrice delle notturne frode, non sapeva a se medesima le nostre insidie palesare? Similmente de’ fagiani, delle tortore, delle colombe, delle fluviali anitre, e degli altri uccelli vi dico. Niuno ne fu mai di tanta astuzia dalla natura dotato, il quale da’ nostri ingegni guardandosi, si potesse lunga libertà promettere. Ed acciocchè io ogni particella non vada raccontando, dico adunque, che venendo, come udito avete, di tempo in tempo più crescendo la età, la lunga e continua usanza si converti in tanto e sì fiero amore, che mai pace non sentiva, se non quanto di costei pensava; e non avendo, siccome tu poco innanzi dicesti, ardire di discoprirmele in cosa alcuna, era divenuto in vista tale, che non che gli altri pastori ne parlavano, ma ella, che, di ciò nulla sapendo, di buon zelo affettuosissimamente mi amava, con dolore e pietà inestimabile ne stava maravigliata; e non una volta, ma mille con istanzia grandissima pregandomi, che ’l chiuso cuore le palesassi, e ’l nome di colei, che di ciò mi era cagione, le facessi chiaro. Io, che del [p. 90 modifica]non potermi scoprire intollerabile noja portava nell’animo, quasi con le lacrime in su gli occhi le rispondea, alla mia lingua non essere licito di nominare colei, cui io per mia celeste deità adorava; ma che dipinta la sua bellissima e divina immagine, quando comodo stato mi fosse, le avrei dimostrata. Ed avendola con cotali parole molti e molti giorni tenuta, avvenne una volta che dopo molto uccellare, essendo io ed ella soletti, e dagli altri pastori rimoti, in una valle ombrosa, tra il canto di forse cento varietà di belli uccelli, i quali di loro accenti facevano tutto quel luogo risonare, quelle medesime note le selve iterando, che essi esprimevano; ne ponemmo ambeduo a sedere alla margine d’un fresco e limpidissimo fonte, che in quella sorgea: il quale nè da uccello, nè da fiera turbato, sì bella la sua chiarezza nel selvatico luogo conservava, che non altrimenti, che se di purissimo cristallo stato fosse, i secreti del trauslucido fondo manifestava: e d’intorno a quello non si vedea di pastori, nè di capre pedata alcuna; perciocchè armenti giammai non vi soleano per riverenza delle Ninfe accostare: nè vi era quel giorno ramo, nè fronda veruna caduta da’ sovrastanti alberi; ma quietissimo senza mormorio, o rivoluzione di bruttezza alcuna discorrendo per lo erboso paese, andava sì pianamente, che appena avresti creduto che si movesse. Ove poi che alquanto avemmo refrigerato il caldo, ella con novi preghi mi ricominciò da capo a stringere, e scongiurare per lo amore, che io le portava, che la promessa effigie le mostrassi; aggiungendo a questo col testimonio degli Dii [p. 91 modifica]mille giuramenti, che mai ad alcuno, se non quanto a me piacesse, nol ridirebbe: alla quale io da abbondantissime lacrime sovraggiunto, non già con la solita voce, ma tremante e sommessa, risposi, che nella bella fontana la vedrebbe: la quale, siccome quella, che desiderava molto di vederla, semplicemente senza più avanti pensare, bassando gli occhi nelle quiete acque, vide se stessa in quelle dipinta. Per la qual cosa, se io mal non mi ricordo, ella si smarrì subito, e scolorissi nel viso per maniera, che quasi a cader tramortita fu vicina; e senza cosa alcuna dire o fare, con turbato viso da me si partì. Ora quale mi dovessi io in quel punto rimanere, vedendomi da quella con ira e con cruccio lasciare, la quale poco avanti blanda, amicissima, e di mie piaghe pietosa, quasi per compassione piangere veduta avea; ciascuno, senza che io il racconti, sel può considerare. Io per me, non so se morto in quel punto o vivo mi fossi, nè chi a casa me ne portasse; ma tanto vi dico, che quattro soli, ed altrettante lune, il mio corpo nè da cibo, nè da sonno fu riconfortato; e le mie vacche digiune non uscirono dalla chiusa mandra, nè gustarono mai sapore di erba, nè liquore di fiume alcuno; onde i miseri vitelli sugando le secche poppe delle affamate madri, e non trovandovi l’usato latte, dolorosi appo quelle riempivano le circonstanti selve di lamentevoli muggiti; della qual cosa io poco curandomi, gittato nella piana terra, ad altro non intendeva, che a piangere, talchè nessuno, che veduto mi avesse nei tempi della mia tranquillità, mi avrebbe per Carino riconosciuto. [p. 92 modifica]Venivano i bifolchi, venivano i pastori di pecore e dì capre, insieme con li paesani delle vicine ville, credendo me essere uscito del senno, come già era, e tutti con pietà grandissima dimandavano qual fosse la cagione del mio dolore; ai quali io niuna risposta facea; ma al mio lacrimare intendendo, cosi con lamentosa voce dicea: Voi, Arcadi, canterete nei vostri monti la mia morte: Arcadi, soli di cantare esperti, voi la mia morte nei vostri monti canterete. O quanto allora le mie ossa quietamente riposeranno, se la vostra sampogna a coloro, che dopo me nasceranno, dirà gli amori, e i casi miei! Finalmente alla quinta notte desideroso oltra modo di morire, uscendo fuora dello sconsolato albergo, non andai alla odiosa fontana, cagione infelicissima de’ miei mali; ma errando per boschi senza sentiero, e per monti asprissimi e ardui, ove i piedi, e la fortuna mi menavano; a gran fatica mi ricondussi in una ripa altissima, pendente sovra al mare, onde i pescatori sogliono da lungi scoprire i notanti pesci. E quivi, prima che ’l sole uscisse, a piè di una bella quercia, ove altra volta mi ricordai essermi nel seno di lei riposato, mi posi a sedere, nè più nè meno, come se questa stata fosse medicina del mio furore; e dopo molto sospirare, a guisa che suole il candido cigno presago della sua morte cantare gli esequiali versi, così direttamente piangendo incominciai: O crudelissima e fiera più che le truculente orse, più dura che le annose quercie, ed a’ miei preghi più sorda che gl’insani mormorii dell’enfiato mare, ecco che vinci già, ecco ch’io muojo; contentati, che più non [p. 93 modifica]avrai di vedermi fastidio. Ma certo io spero che ’l tuo cuore, il quale la mia lieta fortuna non ha potuto muovere, la misera il piegherà; e tardi divenuta pietosa, sarai costretta a forza di biasmare la tua durezza, desiderando almeno morto di veder colui, a cui vivo non hai voluto di una sola parola piacere. Oimè, e come può essere, che ’l lungo amore, il quale un tempo son certo mi portasti, sia ora in tutto da te fuggito? Deh non ti tornano a mente i dolci giuochi della nostra puerizia? quando insieme andavamo per le selve cogliendo le rubiconde fragole, e dagli alti faggi le saporose ghiande, e le tenere castagne dalle pungenti scorze? Seiti dimenticata tu de’ primi gigli, e e delle prime rose, le quali io sempre dalle cercate campagne ti portava? tal che appena le api aveano gustato ancora i fiori, quando tu per me andavi ornata di mille corone. Lasso, quante fiate allora mi giurasti per gli alti Dii, che quando senza me dimoravi, i fiori non ti olivano, e i fonti non li rendevano il solito sapore? Ahi dolorosa la vita mia! e che parlo io? e chi mi ascolta, altro che la risonante Ecco? la quale credente a’ miei mali, siccome quella, che altra volta provati gli ha, mi risponde pietosa, mormorando al suono degli accenti miei: ma non so pure ove nascosa si stia: che non viene ella ora ad accompagnarsi meco? O Iddii del cielo, e della terra, e qualunque altri avete cura de’ miseri amanti, porgete, vi prego, pietose orecchie al mio lamentare, e le dolenti voci, che la tormentata anima manda fuori, ascoltate. O Najadi, abitatrici de’ correnti fiumi; o Napee, graziosissima [p. 94 modifica]turba de’ riposti luoghi, e de’ liquidi fonti, alzate alquanto le bionde teste dalle chiare onde, e prendete le ultime strida anzi ch’io muoja: e voi, o bellissime Oreadi, le quali ignude solete per le alte ripe cacciando andare, lasciate ora il dominio degli alti monti, e venite al misero; che son certo vi porgerà pietà quello, che alla mia cruda donna porge diletto: uscite da’ vostri alberi, o pietose Amadriadi, sollicite conservatrici di quelli, e parate un poco mente al fiero supplicio, che le mie mani testè mi apparecchiano; e voi, o Driadi, formosissime donzelle delle alte selve, le quali non una volta, ma mille, hanno i nostri pastori a prima sera vedute in cerchio danzare all’ombra delle fredde noci con li capelli biondissimi e lunghi, pendenti dietro le bianche spalle, fate, vi prego, se non siete insieme con la mia poco stabile fortuna mutate, che la mia morte fra queste ombre non si taccia; ma sempre si estenda più di giorno in giorno nelli futuri secoli; acciocchè quel tempo, il quale dalla vita si manca, alla fama si supplisca. O lupi, o orsi, e qualunque animali per le orrende spelunche vi nascondete, rimanetevi, addio: ecco che più non vedrete quel vostro bifolco, che per li monti, e per li boschi solea cantare. Addio, rive; addio, piagge verdissime, e fiumi: vivete senza me lungo tempo; e mentre mormorando per le petrose valli correrete nell’alto mare, abbiate sempre nella memoria il vostro Carino, il quale qui le sue vacche pasceva; il quale qui i suoi tori coronava; il quale qui con la rampogna gli armenti, mentre beveano, solea dilettare. E queste parole dicendo, mi era [p. 95 modifica]alzato già per gittarmi dall’alta ripa; quando subitamente dal destro lato mi vidi duo bianchi colombi venire, e con lieto volo appoggiarsi alla fronzuta quercia, che di sovra mi stava, porgendosi in breve spazio con affettuosi mormorii mille baci dolcissimi. Dai quali io, siccome da prospero augurio, prendendo speranza di futuro bene, cominciai con più saldo consiglio a colpare me stesso del folle proponimento, che seguire voluto avea, cioè di cacciare con cruda morte reparabile amore. Nè guari in questo pensiero stato era, che io mi sentii, e non so come, sovraggiunto da quello, che di tutto ciò mi era cagione: la quale, siccome teucra della mia salute, appieno ogni cosa da occulto luogo veduto, ed udito avea. E non altrimenti, che farebbe pietosa madre nei casi del suo unico figliuolo, amorosamente piangendo, e con dolci parole ed accoglienze onestissime riconfortandomi, seppe sì ben fare, che da disperazione e da morte nella vita, e nello stato, che voi vedete, mi ricondusse. Dunque che diremo noi della ammirabile potenzia degli Dii, se non che allora in più tranquillo porto ne guidano, che con più turbata tempesta mostrano di minacciarne? Per la qual cosa, Sincero mio, se a’ raccontati casi porgi credenza alcuna, e sei uomo, come io credo, li dovresti omai riconfortare, come gli altri fanno, e sperare nelle avversità fermamente, di potere ancora con l’aita degli Dii venire in più lieto stato: che certo non può essere, che fra tanti nuvoli alcuna volta non paja il sole; e, come tu dei sapere, le cose desiate quanto con più affanno si acquistano, tanto con più diletto, [p. 96 modifica]quando si possedono, sogliono esser care tenute. E così detto, perchè tardi gli si faceva, dopo il lungo parlare, postasi la sua vacca dinanzi, e dicendo Addio, da noi si partì: nè pria si fu costui accomiatato da noi, che vedemmo ad un punto tutti insieme da lungi tra quercia e quercia, sovra un picciolo asinelio venire un uomo sì rabbuffato, e nei gesti doloroso, che di se ne fe’ forte maravigliare: il quale poi che da noi scostandosi, per un sentiero, che alla città conducea, si fu indrizzato, senza dubbio alcuno conoscemmo essere l’innamorato Clonico, pastore oltra gli altri dottissimo, e nella musica esperto. Per la qual cosa Eugenio, che suo amicissimo era, sì come colui, che tutte le sue amorose passioni sapea, fattoglisi incontro alla via, così, udendo ciascuno, gl’incominciò a dire.


ANNOTAZIONI

alla Prosa Ottava.


Non vedi tu il nostro Ursacchio tutto festivo ec. Gli augurii si prendevano appo gli antichi Romani, instruiti già prima per opera degli Etruschi, i quali in tale arte erano riputati famosissimi, particolarmente da cinque segni, cioè dal cielo, dagli augelli, dai bipedi, dai quadrupedi, dalle voci o d’uomini o d’animali non conosciuti. Laonde qui Carino opportunamente prende occasione dal vedere Ursacchio a venire colla ritrovata giovenca di confortar Sincero a bene sperare nelle sue sciagure. Egli è vero che d’ordinario i buoni augurii si ricevevano dalla parte sinistra, e perciò Virgilio nel Lib. ii. dell’En. ad una preghiera di Anchise fa che favorevolmente gli risponda Giove col tuonare a sinistra.


Vix ea fatus erat senior, subitoque fragore
Intonuit laevum
ec.

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Molte sono le ragioni, che si arrecano, per le quali la sinistra parte era negli augurii stimata favorevole. Due però sono le principali. Una che i buoni augurii dovendo venire dall’oriente o dal mezzodì, chi prendeva l’augurio, o volgeva la faccia a mezzodì, ed avea a sinistra l’oriente, o teneva la posizione che tiene il sole nel suo corso da oriente in occidente, e allora aveva a sinistra il mezzodì. Onde in ambi i casi la sinistra parte era di buon augurio, come la destra era di cattivo. La seconda, che tutto ciò che per noi riesce dal sinistro lato, è dal destro pel cielo. Nondimeno hannosi molti esempj di felici augurii presi da segni provenienti da mano destra, e in conseguenza d’infelici presi da segni provenienti dalla sinistra parte. Anzi quando negli augurii non si ha alcun riguardo alla posizion nostra per rapporto al cielo, la destra parte pronunzia bene, come la sinistra prenunzia male. Quindi era di mal augurio, intraprendendo un viaggio, il muovere il sinistro piede prima del destro. Per lo che il Petrarca volendo dire che fu sgiaziato nell’amore disse:


Il manco piede
Giovinetto pos’ io nel costui regno,


E generalmente in latino colle voci laeva, sinistra esprimonsi le cose infauste e cattive, e colla voce dextra le cose buone e fortunate, e Dii laevi chiamavansi gli Dei inferni, ed occupavano la destra gli Dei superni. Dopo tutto ciò si comprende quanto bene Carino prende per felice augurio il venire di Ursacchio colla ritrovata giovenca dalla destra mano; non essendoci qui alcun rapporto col cielo, nè con tutto ciò, che a tal uopo si osserva proveniente dal cielo, come il lampeggiare, il tuonare, e simili.

Perocchè, com’è il proverbio, nè di lacrime Amore ec. Imitazione del luogo di Virgilio nell’Egl. x.:


Nec lacrymis crudelis amor, nec gramina rivis,
Nec cytiso saturantur apes, nec fronde capellae.


Offerendole ora la fiera testa del setoso cinghiale ec. Anche ciò è preso a Virgilio nell’Egl. vii.:


Setosi caput hoc apri libi, Delia, parvus
Et ramosa Mycon vivacis cornua cervi.


Della mala augurata cornice. Il vedere una cornice, o I’udirne il gracchiare fu sempre preso per mal augurio. Virgilio nell’Egl. i. introduce Melibeo a far attenzione, che le sue sciagure erano state predette da una funesta cornacchia. [p. 98 modifica]


Saepe malura hoc nohis, si mens non laeva fuisset,
De coelo lactas memini praedicere quercus:
Saepe sinistra cava praedixit ab ilice cornix.


Della cauta grue. Fra le molte cose, che riferisconsi intorno alla cautela delle grue, una è quella, che qui tocca il nostro Autore. Dicesi, che aman elleno d’essere vigilanti, e che per tal fine rnentie dormono stanno con uno de’ piedi alzato, in cui è un sasso, che cadendo le fa svegliare.

Ed al bianco cigno che giovava ec. Ciò è detto secondo la favola, la quale insegna, che, caduto Fetonte nel Po, venne sulle rive di questo fiume Cigno re de Liguri innamorato di lui per piangerlo insieme colle sue sorelle, e che fu convertito in uccello del suo nome, il quale temendo ancora una sciagura simile a quella del suo Fetonte sta sempre vicino all’acque, dolcemente ed affettuosamente cantando.

E tu, misera e cattivella perdice, ec. Perdice nipote di Dedalo, ritrovò il primo la sega ed il compasso. Lo zio per invidia lo precipitò giù da un’altissima torre, e gli Dei per pietà lo convertirono nell’uccello, che porta il suo nome, e che memore del suo infortunio non fa mai il nido in alto luogo, nè molto si scosta da terra nel volare.

La sagace oca, sollicita palesatrice delle notturne frode. Ognun sa quanto siano vigilanti le oche, e facili a gracchiare udendo qualunque minimo romore. Esempio ne sia il fatto della Romana storia, quando avendo esse udito di nottetempo il salire dei Franzesi sul Campidoglio svegliarono Manlio, che ne fece un grandissimo macello.

Ma tanto vi dico, che quattro soli, ed altrettante lune ec. Se Carino dicesse solamente quattro soli, vorrebbe far intendere lo spazio di quattro anni; e se dicesse solamente di quattro lune vorrebbe far intendere lo spazio di quattro mesi; ma usando unitamente queste due forme d’esprimersi significa lo spazio di quattro giorni intieri compresa anche la notte. E di fatto se le due maniere di dire si prendessero separatamente, oltre alla manifesta opposizione tra loro, sarebbe anche fuori d’ogni verisimiglianza il dire, ch’egli e le sue vacche non presero alcuna sorte di cibo, nè mai dormirono per quattro mesi, e molto più per quattro anni.

Venivano i bifolchi ec. Virgilio nell’Egl. x. disse:


Venit et upilio, lardi venere bubulci:
Uvidus hyberna venit de glande Menalcas.


e Teocrito prima di Virgilio avea già detto:


Ogni bifolco venne, ogni pastore,
Ogni capraio, e richiedevan tutti
Quale sciagura gli premesse il core.

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Voi, Arcadi, ec. Anche ciò è imitato da Virgilio nell’Egl. x.


. . . . . . cantabitis, Arcades, inquit,
Montibus haec vestris: soli cantare periti
Arcades. O mihi tum quam molliter ossa quiescant,
Vestra meos olim. si fistula dicat amores!


A guisa che suole il candido cigno ec. Comechè i filosofi neghino tutto ciò che i Poeti narrano del soavissimo cantare del cigno, e della cognizione ch’egli ha della prossima sua morte, nondimeno spessissimo hanno giovato queste invenzioni, come tutte le altre della mitologia, ad esprimere e ad abbellire i poetici concetti. Qui di fatto pare che il nostro Sanazzaro abbia imitato Marziale nell’Epigr. 77 del Lib. xiii.


Dulcia defeda modulatur carmina lingua.
Cantatur Cycnus funeris ipse sui.


La risonante Ecco. Ovidio dice nel Lib. iii. delle Metam., che Ecco, o Eco, fu una Ninfa, che pel dolore di non essere riamata da Narciso bellissimo giovane divenne pietra, null’altro ritenendo di umano che la voce, la quale si ode ogni volta, che alcuno gridi, o favelli.

O Najadi ec. Le Ninfe, figliuole dell’Oceano e di Teti, erano divinità terrestri, e se non erano immortali, come le deità celesti, godevano però d’una vita straordinariamente lunga. Secondo il luogo o le cose, a cui presiedevano, variamente venivano appellate. Quindi le Najadi eran le Ninfe de fiumi, le Driadi delle selve, le Amadriadi d’ogni speziale albero, le Oreadi de’ monti, le Napee de’ pascoli, e de’ fiori, le Limmadi degli stagni, le Nereidi del mare, le Efidriadi de’ fonti.