Chi l'ha detto?/Parte prima/53

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Parte prima - § 53. Patria in generale; e l'Italia in particolare

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Parte prima - § 53. Patria in generale; e l'Italia in particolare
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§ 53.

Patria in generale; e l’Italia in particolare




Il sublime sentimento dell’amor di patria, che Dante benissimo chiamò:

1135.   ..... La carità del natio loco.

muove a grandi e nobili azioni ogni uomo anche di sentimenti meno gentili e di pensieri meno eletti.

Antichi e profondi sono i vincoli che legano la terra agli uomini che vi nacquero, e che su lei si modellarono, secondo i noti versi:

1136.   La terra [molle e lieta e dilettosa]
Simile a sè gli abitator produce.

(Tasso, Gerusalemme liberata, c. I, ott. 62).

Pietro Metastasio dice che

1137.   E istinto di natura
     L’amor del patrio nido. Amano anch’esse
     Le spelonche natie le fiere istesse.

(Temistocle, a. II, sc. 7).

e Virgilio, ad esprimere la lotta tra affetti meno nobili e l’amare di patria, e la vittoria di questo, scrisse:

1138.   Vincet amor patriæ, laudumque immensa cupido.1

(Eneide, lib. VI. v. 824).

Infatti è naturale che l’uomo generoso affronti con cuore sereno ogni maggior pericolo per amor della terra che lo vide nascere, [p. 373 modifica] dove si leva la chiesa in cui egli balbettò le prime preghiere, dove vive la famiglia nel cui seno egli crebbe, insomma

1139.   Pro aris et focis.2

come suol dirsi con frase di cui Cicerone si valse di frequente (p. es. in De natura Deorum, 3, 40). A lui non parrà troppo grave l’affrontare per essa la morte, poichè:

1140.   Dulce et decorum est pro patria mori.3

(Orazio, Odi, lib. III, ode 2, v. 13).

ed anche coloro che non osarono imitarlo, leveranno a cielo il suo sacrifizio, come tutti anche oggi compiangono il fato di Ettore, morto pugnando sotto le mura della sua patria:

1141.   E tu onore di pianti, Ettore, avrai
     Ove fia santo e lagrimato il sangue
     Per la patria versato, e finchè il Sole
     Risplenderà su le sciagure umane.

(Foscolo, De’ Sepolcri, v. 292-29S).

Narrano che i due eroici fratelli Bandiera, udita in carcere la sentenza che li condannava a morte (1844), intonassero il coro, allora popolare, della Donna Caritea Regina di Spagna:

1142.   Chi per la patria muor
     Vissuto è assai.

Di questa Donna Caritea le parole sono del Pola, la musica di Saverio Mercadante; e veramente nell’atto I, sc. 9, si trova il coro che però, come ho verificato tanto nei libretti a stampa, quanto nella partitura originale di pugno del Mercadante che si conserva nella biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella in Napoli, comincia altrimenti, cioè:

          Chi per la gloria muor
               Vissuto è assai;
               La fronda dell’allor
               Non langue mai.

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e il senso dei due ultimi versi conferma che la lezione vera è questa; ma il popolo sostituì subito patria a gloria.

La Donna Caritea fu data per la prima volta al Teatro della Fenice a Venezia il 21 febbraio 1826, e allora forse la intese Attilio Bandiera, non ancora ventenne. Vedi anche le memorie di Federico Comandini, Cospirazioni di Romagna e Bologna, pubblicate e annotate dal figlio Alfredo, Bologna, 1899, a pag. 390, un articolo di Fulvio Cantoni nel Resto del Carlino, di Bologna, del 20 dicembre 1911 e il bel volume di Riccardo Pierantoni, Storia dei fratelli Bandiera e loro compagni in Calabria (Milano, Cogliati, 1909).

Qualcosa di simile seguiva otto anni dopo. Il 7 dicembre 1852, saliva sul patibolo di Belfiore, insieme a Tazzoli e Poma, Angelo Scarsellini, di Legnago, di anni 30, che la sentenza austriaca per dispregio qualificò macellaio, ma che era giovine agiato e colto, figlio di un pretore, anima serena ed entusiasta di patriota, il quale, a chi lo aveva danneggiato nel processo con le sue deposizioni imprudenti, mandò il suo perdono esortandolo a morire da italiano, e per suo conto, attendeva serenamente nel carcere il carnefice, cantando l’aria del Marin Faliero: Il palco è a noi trionfo (Luzio, I martiri di Belfiore e il loro processo, vol. I, Milano, 1905, pag. 317). Quest’aria — a quei tempi popolarissima e non senza ragione — era del Marino Faliero, libretto di Giovanni Emanuele Bidera, musica del Donizetti (rappresentata per la prima volta a Parigi, al Teatro Italiano, il 12 marzo 1835) e le parole erano, nel testo originale, le seguenti:

               Il palco è a noi trionfo
                    Ove ascendiam ridenti,
                    Ma il sangue dei valenti
                    Perduto non sarà.
               Avrem seguaci a noi
                    Più fortunati eroi;
                    Ma s’anche avverso ed empio
                    Il fato lor sarà,
                    Avran da noi l’esempio
                    Come a morir si va!

È la cavatina di Israele Bertucci, promotore della congiurai nell’a. III, sc. 7. Questi versi, non brutti, già popolarissimi — li [p. 375 modifica] ho ancora negli orecchi per averli sentiti ripetere e cantare chi sa le quante volte negli anni della mia fanciullezza - pieni d’impeto generoso, di serena fiducia nel trionfo della giustizia, non potevano andare a garbo alla Censura, la quale in molte edizioni del libretto, stampate negli Stati della Chiesa o in altri paesi dove la polizia era più vigile, li cambiò radicalmente, sostituendo ai fieri versi del Bidera, questi di significato opposto, nei quali i congiunti sottomessi e pentiti fanno ammenda onorevole del loro fallo:

          Presto, a incontrar si vada
               L’orror di cruda sorte
               E fia la nostra morte
               Famosa in ogni età.
          Verranno appresso noi
               Ben cento e cento eroi,
               Ma il nostro tristo esempio
               Ognun rammenterà,
               E lo spavento all’empio
               Ognora infonderà.

In qualche altra edizione, a scanso di noie, la cavatina è addittura soppressa.

Le purissime glorie del patriottismo ben inteso nulla possono aver che fare con le esagerazioni appassionate di quello che i Francesi - che se ne intendono! - chiamano chauvinisme: alle incomposte agitazioni loro può talvolta opportunamente essere ricordata, con sapore di sarcasmo, la frase dantesca de:

1143.   L’aiuola che ci fa tanto feroci.

nella quale però il Divin Poeta intese parlare della Terra, per spregio di fronte alla immensità dei cieli.

La patria nostra visse sempre gloriosa ed amata nei canti dei suoi maggiori poeti. A Raffaello Barbiera sorrise questo tema geniale, e lo mosse a scrivere un interessante volumetto dal titolo I poeti della patria ricordati al popolo italiano (Firenze, 1882); io, dalle più note poesie, trarrò quei versi che più di frequente ricorrono nelle comuni citazioni.

Cominciò il nostro maggior poeta, a compiangere le sciagure d’Italia: [p. 376 modifica]

1144.   Ahi, serva Italia, di dolore ostello,
     Nave sanza nocchiere in gran tempesta,
     Non donna di provincie, ma bordello!

e non meno acerbo rimbrotto risuonava sulla bocca di Mons. Giovanni Guidiccioni che le si rivolgeva chiamandola:

1145.   Italia mia, non men serva che stolta.

nell’ultimo dei sette sonetti sulle sventure d’Italia da lui indirizzati al suo concittadino Vincenzo Buonvisi: questo, che è forse il più bello, comincia:

Dal pigro e grave sonno, ove sepolta.

Un celebre sonetto di Vincenzo da Filicaia all’Italia principia, come tutti sanno:

1146.   Italia, Italia! o tu cui feo la sorte
     Dono infelice di bellezza....

e contiene pure l’altro verso, il quinto, ugualmente noto:

1147.   Deh fossi tu men bella o almen più forte.

e l’ultimo:

1148.   Per servir sempre, o vincitrice, o vinta.

1149.   Italia, Italia, il tuo soccorso è nato.

è la chiusa di un sonetto non meno celebre di Eustachio Manfredi per la nascita (1699) del Principe di Piemonte, cioè Vittorio Amedeo Filippo figlio del duca Vittorio Amedeo II.

Scendendo agli scrittori delle età più tarde troviamo il fiero Astigiano, primo nei nuovi tempi a sentire ed esprimere veracemente e fortemente l’amor patrio, che nel sonetto XXVII del Misogallo così sdegnosamente apostrofa l’Italia:

1150.   Ahi fiacca Italia, d’indolenza ostello,
     Cui niegan corpo i membri troppi e sparti,
     Sorda e muta ti stai ritrosa al bello?

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ed altro poeta, tanto dal primo difforme come uomo e come scrittore, cantare il ritorno dell’esule con le armi liberatrici:

1151.   Bella Italia, amate sponde,
     Pur vi torno a riveder!
     Trema in petto e si confonde
     L’alma oppressa dal piacer.

(V. Monti, Dopo la battaglia di Marengo, str. 1).

Tanto all’esule che ritorna a rivedere la patria sua o degli avi, quanto a coloro che vaghi di conoscerne e ammirarne le eterne bellezze di cui natura ed arte l’arricchirono vanno per essa peregrinando, si applica l’emistichio virgiliano:

1152.   Antiquam exquirite matrem.4

(Virgilio, Eneide, lib. III, v. 96).

Nella canzone All’Italia di Giacomo Leopardi, la prima canzone scritta da quel grande, e meritamente chiamata altissima da Pietro Giordani, incontriamo i due versi:

1153.   Alma terra natia
     La vita che mi desti ecco ti rendo.

L’alba del nostro risorgimento politico era salutata da non pochi valorosi poeti, fra i quali il più illustre l’autore dei Promessi Sposi, che affermava la sua fede nell’unità della patria, scrivendo:

1154.   Liberi non sarem se non siamo uni.

Però «quando il Manzoni esclamava in un endecasillabo: Liberi ecc., affermava, non v’ha dubbio, una grande verità, ma scriveva uno dei più brutti versi che sieno stati fatti da Omero in poi.» (Ferdinando Martini, nella Nuova Antologia, 1° maggio 1894). E n’era persuaso anche lui (come poteva essere altrimenti?) poichè soleva dire per celia, «Ho tanto bramato l’unità d’Italia che li sagrificai il brutto verso: Liberi non sarem ecc.» (L. Beltrami, Aless. Manzoni, Milano, a pag. 126. in n.). [p. 378 modifica]

Molti altri de’ suoi versi, caldi d’amor patrio, erano affidati alla riconoscente memoria dei concittadini, e specialmente quelli di uno de’ suoi drammi, Il Conte di Carmagnola. Nel celebre coro dell’atto II troviamo il verso:

1155.        Figli tutti d’un solo riscatto.

come pure questi altri che lo seguono:

1156.   Siam fratelli; siam stretti ad un patto:
     Maledetto colui che lo infrange,
     Che s’innalza sul fiacco che piange,
     Che contrista uno spirto immortal.

Non superiore nell’amore della patria al Manzoni ma più vibrante, e più audace di lui, troveremo Giovanni Berchet, che per le sue liriche, squillanti come tromba di guerra, meritò il nome di Tirteo della rivoluzione italiana. Nella romanza, intitolata Le Fantasie (p. III), abbiamo, con frasi più acerbe, il medesimo rimbrotto che il Manzoni rivolgeva a coloro i quali, dimenticando la patria comune, si perdevano dietro a meschine gare di campanile:

1157.   Non la siepe che l’orto v’impruna
     E il confin dell’Italia, o ringhiosi;
     Sono i monti il suo lembo; gli esosi
     Son le torme che vengon di là.

Anche è popolare la strofa successiva che contiene una nuova pittura della patria:

               Le fiumane dei vostri valloni
                    Si devian per correnti diverse;
                    Ma nel mar tutte quante riverse
                    Perdon nome, e si abbraccian tra lor.

E lo stesso concetto in diversa forma svolge in altra poesia:

1158.   Un popol diviso per sette destini,
     In sette spezzato da sette confini,
     Si fonde in un solo, più servo non è.

(All’armi! All’armi!).
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Di questa stessa ode, scritta in occasione delle rivoluzioni di Modena e Bologna, scoppiate nel 1831, sono rimasti vivi nella memoria di tutti il ritornello:

1159.   Su, Italia! su, in armi! venuto è il tuo dì!
     Dei re congiurati la tresca finì!

ed i versi con i quali spiega il simbolo del essillo tricolore:

1160.   Il verde, la speme tant’anni pasciuta;
     Il rosso, la gioia d’averla compiuta;
     Il bianco, la fede fraterna d’amor.

Nella tradizione popolare i due primi versi finiscono, rispettivamente, nutrita e compita; ma la lezione delle stampe, anche delle migliori (per es. l’ediz. Cusani, Milano, 1863), è quale ho riportata. Questi erano dunque per ogni cuore italiano i tre colori per eccellenza.

1161.   Tre colori, tre colori.

che è un verso della seconda strofa dell’Inno di guerra del 1848-49. di Luigi Mercantini:

               Tre colori, tre colori,
               L’Italian cantando va;
               E cantando i tre colori
               Il fucile imposterà.

                         Foco, foco, foco!
                         S’ha da vincere o morir.
                         Foco, Foco, foco, foco!
                         Ma il Tedesco ha da morir!

Anche il secondo verso della seconda quartina è rimasto popolarissimo. A proposito di quest’inno, che fu posto in musica dal Giovanni Zampettini, di Senigallia, cosi narra il Mercantini stesso: «Quando in Corfù (mi questa dolce rimembranza) io fui a visitare Daniele Manin, da una stanza vicina si udiva cantare: Tre colori, tre colori! — Ecco, mi disse Manin commovendosi, ecco il canto col quale abbiamo combattuto insino all’ultima ora sulle nostre lagune. — E in questa si affacciò un [p. 380 modifica] biondo e ardito giovinotto. — Ed ecco qua il mio Giorgio, seguitò il padre affettuoso, che spera sempre e canta. — » Vedasi anche l’opuscolo di C. Lozzi, La «Marsigliese» degli Italiani e la «Marcia Reale» (Milano, 1896).

Qui cade in acconcio di ricordare che il tricolore ebbe origine nel 1797, a Reggio d’Emilia, per atto dei rappresentanti delle città Emiliane, ivi radunati a congresso, i quali il 9 gennaio deliberarono che la bandiera bianca, rossa e verde che era già quella della guardia urbana milanese, risorta nel 1796 col nome di Legione Lombarda dall’oblio in che era stata tenuta da secoli, fosse sollevata come insegna di nazionalità nei luoghi e nelle circostanze in cui occorresse alla nazione di essere rappresentata da quel suo simbolo. Dalla Federazione Cispadana costituita a Reggio, la nuova bandiera passò alla Repubblica Cispadana, poi alla Cisalpina, quindi alla Repubblica Italiana, e da ultimo al Regno Italico. Cadde con Napoleone e risorse nell’Italia Centrale con la rivoluzione del 1831: e da quel tempo ricomparve in tutti i nostri moti popolari come vessillo rivoluzionario fino a che nella prima guerra dell’indipendenza, fu consegnata da Carlo Alberto all’esercito liberatore col proclama che riporteremo più avanti, al n. 1177. Ved. anche: Fiorini e Butturini, Chi inventò la bandiera tricolore (Salò, 1897).

Possiamo mettere a contrasto di queste parole d’amore e di fede per il tricolore nazionale, una terzina del Berchet sulla bandiera dell’odiato Austriaco:

1162.        Il giallo ed il nero
          Colori esecrabili
          A un italo cor.

(Matilde, romanza).

Ecco il toscano Giusti che in un momento di nobilissima fierezza patriottica si volge a Gino Capponi, ricordando:

1163.        Gino, eravamo grandi,
          E là non eran nati.

(La terra dei morti, str. 12).

mentre in altra poesia, indignato dalle miserie dell’ora presente, rimbrotta la patria chiamandola: [p. 381 modifica]

1164.   Vivo sepolcro a un popolo di morti.

(Gingillino, p. II, str. 7).

E nella ode La Consulta Araldica (fra i Giambi ed Epodi) così Giosuè Carducci rinnova il medesimo rimprovero:

1165.   Oh non per questo dal fatal di Quarto
     Lido il naviglio de i mille salpò,
Nè Rosolino Pilo aveva sparto
     Suo gentil sangue che vantava Angiò.

Ecco alcune altre reminiscenze di inni patriottici di quella gloriosa età sui quali in generale si possono consultare con profitto: Caddeo R., Inni di guerra e canti patriottici del popolo italiano, 2a ediz. (Milano, 1915) e Santoro D., Gl’inni del Risorgimento italiano (Campobasso, Colitti, 1917).

1166.        Fratelli d’Italia,
          L’Italia s’è desta;
          Dell’elmo di Scipio
          S’è cinta la testa.

è il principio del fatidico Inno composto nel settembre 1847 da Goffredo Mameli, il biondo Tirteo dell’epopea romana del 1849, inno di cui ad istanza del Mameli stesso compose la musica il maestro Michele Novaro nella notte tra il 23 e 24 novembre 1847. Ne narrarono la storia Ferdinando Resasco nella Tribuna illustrata del 22 dicembre 1895, il Lozzi nell’opuscolo citato di sopra e con maggior diffusione Anton Giulio Barrili a pag. 25 e segg. del Proemio agli Scritti editi e inediti di Goffredo Mameli (Genova, 1902), dove a pag. 155 è stampato l’Inno medesimo e pubblicato il facsimile della prima minuta autografa. Scriveva il Carducci: «Oggi i giornali umoristici posson ripetere scherzando, “I bimbi d’Italia Son tutti Balilla”: allora ai versi del suo poeta l’Italia assentiva coi fatti; e Palermo, Milano, Messina, Bologna, Brescia, Roma, Venezia si levavano dalla storia raggianti di trionfo, o superbamente affocate e affumicate dalle bombe e dagl’incendi, divinamente lacere, sanguinose, straziate, affamate, a rispondere: — È vero, è vero» (Opere, III, pag. 86). Carlo [p. 382 modifica] Cattaneo scrisse per l’albo di Michele Della Rocca, a Lugano, nel giugno 1850, una imitazione o risposta all’inno mameliano che intitolò: Controcanzone Ai fratelli d’Italia:

               Che dite? L’Italia
                    Non anco s’è desta.
                    Convulsa, sonnambula
                    Scrollava la testa.

Si veda: C. Cattaneo, Scritti politici ed epistolario, vol. II, (Firenze, 1894), pag. 15.

1167.    Va’ fuora d’Italia, va’ fuora ch’è ora
Va’ fuora d’Italia, va’ fuora, o stranier.

È il ritornello dell’Inno di Garibaldi, composto da Luigi Mercantini e musicato da Alessio Olivieri. «L’autore aveva scritto ch’è l’ora: i volontari e il popolo, cantando, hanno corretto ch’è ora, e l’autore accetta la correzione popolare.» Così nota il Mercantini stesso.

Di quest’inno, il cui primo verso è, com’è noto:

Si scopron le tombe, si levano i morti,

già accennai brevemente al n. 728. Garibaldi chiese a Mercantini di comporgli quest’inno il 19 dicembre 1858; il Mercantini quasi lo improvvisò, trovò subito il maestro cremonese Alessio Olivieri che lo mise in musica, e lo fece provare la sera del 31 alla villa dello Zerbino, sul Bisagno, in casa di Gabriele Camozzi. Questo è il racconto che fa lo Ximenes nel volume Garibaldi e i suoi tempi; racconto che si trova riprodotto, con molte curiose aggiunte e con belle illustrazioni storiche, nella rivista Musica e Musicisti, fasc. di Dicembre 1905 (anno 60°), pag. 772 e segg. Con maggiori particolari era stata descritta la scena da Costanza Giglioli (La prima prova dell’Inno in Fanfulla, 13 ottobre 1883) che la ricostruì su la testimonianza di uno dei Mille: ma su tale narrazione furono espressi dei dubbi, per i quali si veda La rievocazione nazionale di Luigi Mercantini di Aristide Manassero (in Varietas, dicembre 1914, pag. 985 e segg.). Vedasi pure l’opuscolo già citato di Carlo Lozzi: La «Marsigliese» degli Italiani e la «Marcia Reale» (Milano. Ricordi, 1896). L’inno di Garibaldi però non ebbe il battesimo del sangue che nella gloriosa [p. 383 modifica] giornata di Mentana, come narra Anton Giulio Barrili nel suo volume: Con Garibaldi alle porte di Roma (Milano, 1895):

«L’ordine del giorno porta che noi del secondo battaglione genovese marceremo in avanguardia, e il primo battaglione in fiancheggiatori. Con noi è un battaglione di milanesi, colonnello Missori. Così disposti ci mettiamo in cammino, e dopo forse mezz’ora giungiamo alle prime case di Mentana, accolti dall’inno: Si scopron le tombe suonato dalla fanfara della colonna Frigèsy. Quella musica piace poco; ad un illustre amico mio, che passa in quel punto a cavallo, non piace affatto. Per lui essa è di mal augurio, non avendo avuto il battesimo del fuoco. Infatti conosciuta dai volontarii quando già era finita la campagna del ’59, non fu suonata in Sicilia, nè sul Volturno, nè in Tirolo; non si è udita mai, se non nelle città, nei teatri, sulle piazze. Garibaldi, poi, ama meglio la Marsigliese, a cui vengon subito appresso, nelle sue simpatie, i Fratelli d’Italia e più un inno di Rossetti Minaccioso l’arcangel di guerra che i suoi legionari cantavano nel ’49, a Roma e a Velletri. Ma basti di ciò; anche l’inno: Si scopron le tombe ha avuto il suo battesimo a Mentana; triste, se vogliamo, ma solenne, e non è più il caso di tornarci su, poichè il sacramento è indelebile.»

Appartengono all’inno medesimo, alla strofa quarta, i due versi:

1168.    Le genti d’Italia son tutte una sola.
Son tutte una sola - le cento città.

Il verso

1169. Camicia rossa, camicia ardente.   

fa parte di una canzone popolare di Rocco Traversa (musica di Luigi Pantaleoni), canzone che fu celebre nei tempi eroici della epopea della garibaldina.

Aspirazione secolare di quanti amavano la patria era quella di cacciarne lo straniero, per sua natura nemico. Già nelle XII Tavole si leggeva la massima giuridica:

1170.   Adversus hostem æterna auctoritas [esto].5

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che dallo Schoel (Legis Duodecim Tabularum reliquiæ, Lipsiae, 1886, pag. 70, 100, 124 è collocata nella Tavola III, al n. 7. La cita Cicerone nel trattato De officiis (I, 12, 37). Lo Schoell per l’illustrazione di questa sentenza rimanda a: Puchta, Civil. Abh., pag. 1; Schroeterus, Obss. jur. civ., pag. 52; Theodor Mommsen, De auctoritate, § 3; Schoemann, Opusc., III, 409.

Ma si badi che anche questa è una delle molte sentenze che si citano a sproposito, e su questo punto lascio la parola al compianto prof. G. Rigutini (Roma Letteraria, a. X, n. 21-22): «Un’altra falsa interpretazione è quella di un passo della Legge delle Dodici Tavole, che dice: Adversum hostem aeterna auctoritas, passo che facilmente si ode in discorsi patriottici, per significare che non si deve transigere coi nemici della patria. Varj anni fa tonò con quella sua gran voce in pieno Parlamento l’on. Bovio questa disposizione delle Dodici Tavole, in una discussione, concernente l’Italia e l’Austria; e il ministro Crispi, rispondendo, non parve che a quelle parole desse spiegazione diversa dalla comune. Eppure il luogo degli Uffici di Cicerone, dove ricorre quel testo, avrebbe dovuto e dovrebbe escludere affatto che si parli di nemici. Ecco tutto il passo ciceroniano: “Voglio anche notare che colui, il quale con proprio vocabolo dovrebbe chiamarsi perduellis, è invece chiamato hostis, temperando la mitezza della parola l’acerbità della cosa. Di fatti nell’antica lingua hostis significava quel che oggi peregrinus. Esempi ne abbiamo nel testo delle Dodici Tavole, come Status die cum hoste (il giorno stabilito col forestiero per la comparizione in tribunale) o Adversus hostem aeterna auctoritas (ossia Contro al forestiero l’azione giuridica non vien mai prescritta). Ci può essere, seguita Cicerone, mitezza maggiore del chiamare con un nome così umano un nemico che si combatte colle armi?” (Off. I, c. 12). L’ignoranza adunque del primo significato della voce hostis, scusabile in chi non sa di latino, inescusabile in chi oltre il latino dovrebbe avere studiato anche il Diritto romano, è stata ed è cagione che questo passo delle Dodici Tavole venga spesso filato a sproposito.»

Barbari chiamavano gli antichi Romani tutti coloro che non erano cittadini dell’alma Roma, e non parlavano la sonora lingua del Lazio: quindi diceva Ovidio: [p. 385 modifica]

1171.   Barbarus hic ego sum, quia non intellegor ulli.6

(Tristium, lib. V, ep. 10, v. 37).

In età più tarda abbiamo il grido:

1172.   Fuori i barbari!

che la tradizione attribuisce comunemente a papa Giulio II, ossia Giuliano Della Rovere, il quale tenne il seggio apostolico dal 1503 al 1513. Ma io non sono riuscito a trovare autorità nessuna da autenticare queste parole, almeno nella forma con la quale soglionsi citare. Il Guicciardini nel lib. XI, § VIII, della Istoria d’Italia, dice che Giulio II «pensava assiduamente come potesse, o rimuovere di Italia, o opprimere con l’aiuto de’ Svizzeri, i quali soli magnificava e abbracciava, l’esercito Spagnuolo, accio che, occupato il regno Napoletano, Italia rimanesse (queste parole uscivano frequentemente dalla bocca sua) libera da’ barbari» (ediz. Gherardi, vol. III, Firenze, 1919, pag. 39-40). - Il Raynaldus negli Annales Ecclesiastici (tom. XX, sub anno 1513, § 11) similmente dice di lui «non modo Gallos, verum Hispanos cæterosque exteros Italia pellere meditatum.» Perciò i contemporanei lo chiamarono liberatore d’Italia. Il Foglietta nei Clarorum Ligorum Elogia lo esalta come «Italicæ libertatis acerrimum vindicem» e Pasquino nel 1510, in un sonetto che, stampato dapprima nel rarissimo libretto dei Carmina apposita ad Pasquillum Herculem obtruncantem Hydram, ediz. romana del Mazzocchi, 1510, è stato ripubblicato dal Morandi nella Prefazione ai Sonetti del Belli (vol. I, Città di Castello, 1889, pag. cli), cosi invoca il Pontefice guerriero, ispirando o secondando, come nota il Morandi, il famoso grido: Fuori i barbari!

          Padre dell’universo, almo pastore,
               Che rapresente Jesu Christo in terra,
               Chi tieni el loco di quel che apre et serra
               La porta del sacro regno magiore;
          Mira l’Italia tua, che a tutte l’hore
               Dinanzi ai sacri toi piedi s’atterra,
               Gridando: «Patre sancto, hormai diserra
               La spada contra ’l barbaro furore»

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          Guarda il suo corpo tutto lacerato,
               Dalle man d’esti cani amaramente:
               Soccorri, padre mio più che beato,
          Per amor della patria tua excellente,
               Porgi soccorso al popul flagellato,
               Scaccia questa barbarica aspra gente.
                              Vedrai poi incontinente
               Italia farsi bella et rinverdirsi,
               Et contra i toi nimici teco unirsi.

Del resto la frase, e il concetto che la ispirava, erano in quel tempo nell’anima di tutti, conseguenza naturale del rinascimento artistico e letterario d’Italia. Già Alberico da Barbiano, quando sul finire del sec. xiv mise insieme una compagnia di ventura, la prima che fosse composta soltanto con elementi nazionali, pose nel suo stendardo bianco, attraversato da una croce rossa il motto Lib. (erata) Ita. (lia) ab Ext. (eris); e il motto con lo stendardo rimase ai Belgioioso di Milano, che da lui discendono.

Ecco una parafrasi dei giorni nostri del grido di Giulio II:

1173.                       ..... Il Franco
Ripassi l’Alpi e tornerà fratello.

(G. B. Niccolini, Giovanni da Procida, tragedia, a. III. sc. 4).

a proposito della quale Mario Pieri nelle sue Memorie attribuisce al conte di Bombelles ministro austriaco a Firenze il motto arguto: L’adresse est pour lui (il ministro francese), mais la lettre est pour moi. Cfr. con Vannucci, Ricordi della vita e delle opere di G. B. Niccolini, vol. I, pag. 58, n. 2. Anche la nota formula:

1174.   L’Italia degli Italiani.

si crederebbe ispirata da Pasquino in un lungo dialogo tra lui e Marforio, composto evidentemente dopo che nel 1628 gli Spagnuoli tentarono invano l’assedio di Casale, occupata dai Francesi. Il dialogo, che fu pubblicato da Adolfo Bartoli (I Mss. ital. della Bibliot. Nazion. di Ferente, to, Il, Firenze, 1881. pag. 219-224), è intitolato: Pasquino franzese e Marforio spagnuolo; ma alla fine Pasquino conclude: [p. 387 modifica]

          Hor facciamo a parlar senza passione:
               Vuoi ch’io ti dica, questi oltramontani
               Sono una mala razza di persone;
          Dio ci liberi pur dalle lor mani
               E rimandi ciascuno al suo paese,
               Sì che l’Italia resti all’Italiani,
          E qui poniamo fine a ste contese.

Ma non è improbabile che l’anonima pasquinata si facesse l’eco di una frase che seppure non era ancora popolare, sgorgava però già spontanea dal pensiero di molti.

Questa frase, l’Italia degli Italiani, venuta di moda nelle lotte del nostro riscatto, dette forse occasione a molte altre frasi simili che in questi ultimi anni sono state coniate allo scopo di simboleggiare le aspirazioni nazionalistiche di molti giovani popoli avidi d’indipendenza, insofferenti di dominio o d’ingerenze straniere. Così si è detto l’Egitto degli Egiziani (che si attribuisce a Ismail Pascià, già kedive di Egitto), l’India degli Indù, e si dice più di frequente:

1175.   L’America degli Americani.

nella quale formula convenzionale ordinariamente si riassume la cosiddetta doctrine of Monroe, ossia il principio del non intervento dell’Europa nelle faccende interne degli stati di America. James Monroe, quinto presidente degli Stati Uniti, nel messaggio presidenziale indirizzato al Congresso il 2 dicembre 1823, diceva di aver informato i governi di Russia e della Gran Bretagna che il continente Americano d’ora innanzi non avrebbe potuto essere più terreno per nuove colonie europee; inoltre proseguiva: «With the existing colonies or dependencies of any European power we have not interfered, and shall not interfere. But with the governments who have declared their independence and maintained it, and whose independence we have, on great consideration and on just principles, acknowledged, we could not view any interposition for the purpose of oppressing them, or controlling in any other manner their destiny, by any European power, in any other light than as the manifestation of an unfriendly disposition toward the United States.» Queste recise dichiarazioni furono concordate fra il presidente Monroe e il suo segretario di Stato, John Quincy Adams, col consiglio del venerando Thomas Jefferson, e per istigazione [p. 388 modifica] del governo inglese, il quale si preoccupava che la Santa Alleanza, formata per la difesa dei principi legittimisti, dopo essere intervenuta in Italia e in Spagna, volesse tentare il suo intervento anche in America nella lotta fra la Spagna e le sue antiche colonie, ora ribellate.

Torniamo alla patria nostra. Di un altro papa è la famosa invocazione:

1176.   Benedite, gran Dio, l’Italia!

Il motuproprio pubblicato il 10 febbraio 1848 da Pio IX per calmare gli animi eccitati dalla popolazione romana conteneva questo periodo: «Gran dono del cielo è questo fra tanti doni con cui ha prediletto l’Italia: che tre milioni appena di sudditi nostri abbiano dugento milioni di fratelli d’ogni nazione e d’ogni lingua. Questa fu in ben altri tempi, e nello scompiglio di tutto il mondo romano, la salute di Roma. Per questo non fu mai intera la rovina dell’Italia. Questa sarà sempre la sua tutela, finchè nel suo centro starà quest’apostolica Sede. Oh, perciò, benedite, gran Dio, l’Italia, e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo, la fede!» ― Il motuproprio eccitò clamori, commenti, speranze senza fine, e i liberali vollero vedere nelle parole benedite, gran Dio, l’Italia, staccate dal resto del motuproprio, un’invocazione in favore della causa italiana, ciò che non era davvero nelle intenzioni del Pontefice. Gli eventi dovevano ristabilire una più corretta interpretazione e dare modo al Manzoni di osservare argutamente: «Pio IX prima benedisse l’Italia: poi la mandò a farsi benedire.» Come notizia curiosa, aggiungerò che le parole Gran Dio benedite l’Italia! furono, nella recente guerra, scritte su tutte le cassette-altari, o altari da campo, distribuite al principio delle ostilità ai cappellani militari.

Il generoso desiderio di liberare l’Italia nostra dagli stranieri, nemici ed amici, e di non averli più fra i piedi nè dominatori nè benefattori, suggeriva a Carlo Alberto di valersi delle parole famose:

1177.   L'Italia farà da sè.

introducendole nel proclama da lui indirizzato ai «Popoli della Lombardia e della Venezia da Torino, il 23 marzo 1848, due giorni prima che le truppe piemontesi passassero il Ticino. Riporto [p. 389 modifica] il testo del proclama medesimo per il quale i Tre colori simbolici della rivoluzione italiana divennero la bandiera piemontese prima, italiana poi:

«I destini dell’Italia si maturano; sorti più felici arridono agli intrepidi difensori di conculcati diritti.

«Per amore di stirpe, per intelligenza di tempi, per comunanza di voti noi ci associamo primi a quell’unanime ammirazione che vi tributa l’Italia.

«Popoli della Lombardia e della Venezia! Le nostre armi che già si concentravano sulla vostra frontiera quando voi anticipaste la liberazione della gloriosa Milano, vengono ora a porgervi nelle ulteriori prove quell’aiuto che il fratello aspetta dal fratello, dall’amico l’amico.

«Seconderemo i vostri giusti desiderii fidando nell’aiuto di quel Dio che è visibilmente con noi, di quel Dio che ha dato all’Italia Pio IX, di quel Dio che con sì meravigliosi impulsi pose l’Italia in grado da far da sè.

«E per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana, vogliamo che le nostre truppe entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana.»

Garibaldi, dopo la capitolazione di Carlo Alberto, scrivendo al gen. Griffini di Brescia, lo avvertiva del suo proposito di continuare la guerra italiana contro l’Austria e soggiungeva: «Spero che voi dividerete gli stessi sentimenti, e vi esorto quindi ad avvicinarvi alle mie colle altre forze. L’Italia farà questa volta veramente da sè» (G. Garibaldi, Scritti politici e militari, ricordi e pensieri inediti, a cura di D. Ciampoli, Roma, 1907, pag. 20).

Quanto all’origine di queste parole, esse erano state realmente in più circostanze dette da Carlo Alberto, ma sono più antiche di lui: Piersilvestro Leopardi, che fu nel 1848 inviato straordinario e ministro straordinario del Re delle due Sicilie presso la Corte di Sardegna, narra che in un colloquio avuto col Re il 12 giugno, questi gli disse: «On m’a attribué ces mots: L’Italia farà da sè. Je ne les ai mais dits, mais je les ai acceptés, et je crois que l’on ne pouvait rien dire de plus à propos» (Narrazioni storiche, Torino, 1856, cap. XLIX, pag. 230). La più antica menzione che finora se ne conosca, si riferisce alla società segreta detta dei «Raggi» [p. 390 modifica] diffusa verso la fine del sec. xviii nell’Italia superiore e nella centrale, che aveva carattere antifrancese, e alla quale appartennero il generale Pino e il generale Lahoz; essa aveva per motto Italia farà da sè (cfr. F. Lemmi, La restaurazione austriaca a Milano, Bologna, 1902, pag. 108 e 293).

Del resto l’avversione degli Italiani contro lo straniero era più che giustificata; poichè ove non potè farci di peggio, non ci risparmiò le contumelie. Oblìo profondo dovrebbe coprire questi sgarbati sfoghi, alcuni dei quali tuttavia sono rimasti famosi. Tali sono i seguenti:

1178.   L’Italie est la terre des morts.7

parole non dette in questa forma precisa, ma che sono il succo delle retoriche insolenze prodigate all’Italia da Alfonso di Lamartine nel c. XIII del Dernier chant du pèlerinage d’Harold. L’apostrofe finiva con i due versi, più villani degli altri:

     Je vais chercher ailleurs (pardonne, ombre romaine!)
     Des hommes, et non pas de la poussière humaine.

Naturalmente questi sciocchi insulti gli furono più volte ricacciati in gola, benchè egli tentasse una infelice difesa delle sue intenzioni. Il colonnello Gabriele Pepe nel 1826 prima rimbeccò per le stampe le baie contro l’Italia del Lamartine «baie che noi chiameremmo ingiurie, se, come dice Diomede, i colpi dei fiacchi e degli imbelli potessero mai ferire;» poi ferì il poeta in un duello (18 febbraio 1826) di cui la storia è stata narrata sulla scorta di lettere inedite da Ang. De Gubernatis nella Revue des Revues, fasc. del 1° dicembre 1897, pag. 397 e segg. Giuseppe Giusti nel 1841 diresse contro Lamartine la pungentissima satira intitolata appunto La terra dei morti; e nel 1859 Marc Monnier ne trasse occasione ad intitolare una sua nobile difesa dell’Italia, L’Italie est-elle la terre des morts?

1179.   L’Italie est une expression géographique.8

è frase francese di forma ma non di origine. La scrisse in questa forma precisa il Principe di Metternich in un dispaccio circolare [p. 391 modifica] sulla questione italiana alle corti di Parigi, Londra, Pietroburgo e Berlino, del 6 agosto 1847; e tornava sul pensiero medesimo in altro dispaccio del medesimo giorno al conte Apponyi, ambasciatore austriaco a Parigi, direttogli per chiarire il senso del precedente dispaccio circolare e fornire su di esso particolari informazioni al conte Guizot, e vi ripeteva: «Le mot Italie est, ainsi que je le dis à lord Palmerston, un mot vide de sens politique». Vedansi i Mémoires, documents et écrits divers laissés par le prince de Metternich publiés par son fils, to. VII (Paris, 1883), pag. 415. 416. Già in una precedente lettera confidenziale all’ambasciatore Apponyi, del 12 aprile 1847, egli scriveva: «Le mot Italie est une dénomination géographique, une qualification qui convient à la langue, mais qui n’à pas la valeur politique que les efforts des idéologues révolutionnaires tendent à lui imprimer, et qui est pleine de dangers pour l’existence même des États dont se compose la Péninsule» (op. cit., to. VII, pag. 393). Ma in fondo il Metternich non faceva che riassumere in poche brutali parole il concetto da lui affermato sin dai giorni del Congresso di Vienna, dinanzi al quale egli aveva dichiarato «que l’Italie n’était point destinée à former un corps politique proprement dit, qu’elle ne représentait qu’une réunion d’états indépendants, compris sous la même dénomination géographique» (Klüber, Akter des Wiener Kongresses, to. VII, pag. 403: Procèsverbal du 13 novembre 1814).

Lo stesso Metternich in una lettera del 19 novembre 1849 al conte Prokesch-Osten (Vedi: Aus dem Nachlasse des Grafen Prokesch-Osten. Briefwechsel mit Herrn von Gentz und Fürsten Metternich. Wien, 1881, Bd. II, pag. 343), si vantava di essere l’autore di questa frase ed aggiungeva che la stessa cosa (ein geographischer Begriff) poteva dirsi della Germania.

Invece proprio francese è l’altra frase veramente scortese e ingiuriosa: Les Italiens ne se battent pas, della quale però preferisco discorrere in altra sede, cioè nella P. II, dove parlerò della guerra recente e delle prove in essa date dagli Italiani di sapersi battere bene e di saper morire per la loro patria.

Il pensiero della patria si fa più forte e più pungente; al cuore di chi ne è lontano. Chi ha dovuto lasciare l’amato suolo natìo, e rivolgergli il doloroso saluto: [p. 392 modifica]

1180.   Adieu, adieu, my native shore.9

(Byron, Childe Harold’s Pilgrimage, c. I, dopo la str. 13).

non potrà mai dimenticarla, poichè:

1181.   Dove che venga l’esule
Sempre ha la patria in cor.

(Berchet, Le fantasie, str. 1).

Nondimeno avviene che l’esule che trovò sotto altro cielo la pace e la fortuna che la patria matrigna gli contese, non rimpianga di aver cercato terra più benigna. Troppo spesso si verifica la sentenza del Vangelo che:

1182.   Nemo propheta acceptus est in patria sua.10

(Evang. di S. Luca, cap. IV, v. 24; - S. Matteo, cap. XIII, v. 7;
- S. Marco, cap. VI, v. 24; - S. Giovanni, cap. IV, vers. 44).

e del resto è anche vero che:

1183.   Omne solum forti patria est ut piscibus æquor.11

(Ovidio, Fasti, lib. I, v. 493).

o, come dice Pacuvio presso Cicerone (Tuscul. Disput., 5, 37, 108); «Itaque ad omnem rationem Teucri vox accomodari potest: Patria est ubicumque est bene,» e Seneca (De remed, fort., 8, 1): Nulla terra exilium est, sed altera patria, e più oltre (ibid., 8, 2): Patria est, ubicumque bene est.

E poi in questo secolo umanitario in cui i Latini corrono ad abbracciate il Tartaro, come scrisse il Giusti, il santo nome di patria per molti non ha più senso, spariscono le frontiere, come già due secoli fa si disse che:

1184.   Il n’y a plus de Pyrénées.12

[p. 393 modifica]

Voltaire nel Siècle de Louis XIV (chap. XXVIII) mette in conto del suo gran re queste celebri parole, che egli avrebbe dette al duca d’Anjou, quando questi partiva nel 1700 per andare a cingere la corona di Spagna; ma invece la frase fu detta a Luigi XIV, e in forma meno poetica (Les Pyrénées sont fondues) dall’ambasciatore di Spagna (Journal du Marquis de Dangeau, to. VII, pag. 419).

Chiudo come il solito, raccogliendo in fine del paragrafo un mazzetto di versini spigolati dalle nostre opere teatrali più rinomate e più popolari.

1185.         Vi ravviso, o luoghi ameni,
          In cui lieti, in cui sereni
          Sì tranquillo i dì passai
          Della prima gioventù.
     Cari luoghi, io vi trovai,
          Ma quei dì non trovo più.

È una cavatina di Rodolfo nella Sonnambula, melodramma di Felice Romani, musica di Bellini (a. I, sc. 6).

Le seguenti sono scelte dalle opere musicate da Verdi:

1186.         Va, pensiero, sull’ali dorate;
          Va, ti posa sui clivi, sui colli,
          Ove olezzano libere e molli
          L’aure dolci del suolo natal!

stupendo coro degli Ebrei nel Nabucco, dramma lirico di Temistocle Solera (a. III sc. 4).

1187.        Siamo tutti una sola famiglia.

è in un coro dell’Ernani, dramma lirico di F. M. Piave (a. II, sc. 5).

1188.         Ai nostri monti - ritorneremo,
          L’antica pace - ivi godremo;
          Tu canterai - sul tuo liuto,
          In sonno placido - io dormirò.

[p. 394 modifica]romanza di Azucena nel Trovatore, parole di Salvatore Cammarano (a. IV, sc. 3).

1189.        Parigi, o cara, noi lasceremo,
       La vita uniti trascorreremo.

duetto di Violetta e Alfredo nella Traviata, parole di F.M. Piave (a. III, sc. 6).

  1. 1138.   Vincerà l’amore di patria e l’immenso desiderio di gloria.
  2. 1139.   Per gli altari e per i focolari.
  3. 1140.   È dolce e nobile cosa il morir per la patria.
  4. 1152.   Ricercate l’antica madre.
  5. 1170.   Il diritto contro il nemico (o meglio contro lo straniero sia perpetuo.
  6. 1171.   Io qui sono come barbaro, perchè nessuno m’intende.
  7. 1178.   L’Italia è la terra dei morti.
  8. 1179.   L’Italia è una espressione geografica.
  9. 1180.   Addio, addio, mio lido natale.
  10. 1182.   Nessun profeta è gradito nella sua patria.
  11. 1183.   Ogni paese è patria per il forte, come il mare per i pesci.
  12. 1184.   Non ci sono più Pirenei.