Commedia (Buti)/Inferno/Canto XXXIV

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Inferno
Canto trentaquattresimo

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Inferno - Canto XXXIII Purgatorio
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C A N T O   XXXIV.





1Vexilla Regis prodeunt Inferni
      Verso di noi; però dinanzi mira,
      Disse il Maestro mio, se tu il discerni.
4Come quando una grossa nebbia spira,
      O quando l’emisperio nostro annotta,
      Par di lungi un molin che al vento gira;1
7Veder mi parve un tal difìcio allotta:2
      Poi per lo vento mi ristrinsi retro
      Al Duca mio, che non v’era altra grotta.34
10Già era (e con paura il metto in metro)
      Là, dove l’ombre tutte eran coperte,
      E trasparean come festuca in vetro.
13Altre stanno a giacere, altre stanno erte,5
      Quella col capo, e quella con le piante,
      Altra, com’arco, il collo ai piedi inverte.
16Quando noi fummo fatti tanto avante,
      Che al mio Maestro piacque di mostrarmi
      La creatura ch’ebbe il bel sembiante,

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19Dinanzi mi si tolse, e fe restarmi,6
      Ecco Dite, dicendo, et ecco il loco,
      Ove convien che di fortezza t’armi.
22Com’io divenni allor gelato e fioco,
      Nol domandar, Lettor, ch’io non lo scrivo:
      Però ch’ogni parlar sarebbe poco.
25Io non mori’, e non rimasi vivo:
      Pensa oggimai per te, s’ài fior d’ingegno,
      Qual io divenni, d’uno e d’altro privo.7
28Lo Imperador del doloroso regno
      Dal mezzo il petto uscia fuor della ghiaccia;8
      E più con un gigante io mi convegno,
31Che i giganti non fan con le sue braccia:
      Vedi oggimai quant’esser dee quel tutto,
      Che a così fatta parte si confaccia.
34S’el fu sì bel, com’egli è ora brutto,
      E contra il suo Fattore alzò le ciglia,
      Ben dee da lui procedere ogni lutto.
37O quanto parve a me gran maraviglia,
      Quando vidi tre faccie alla sua testa!
      L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
40L’altre eran due, che s’aggiugneano a questa
      Sovresso il mezzo di ciascuna spalla,
      E si giugneano al sommo della cresta.9
43La destra mi parea tra bianca e gialla;
      La sinistra a vedere era tal, quali
      Vegnon di là, onde il Nilo s’avvalla.

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46Sotto ciascuna uscian due grandi ali,
      Quanto si conveniva a tanto uccello:
      Vele di mar non vid’io mai cotali.
49Non avean penne, ma di vilpistrello10
      Era lor modo; e quelle svolazzava,11
      Sì che tre venti si movean da ello.
52Quindi Cocito tutto s’aggelava;
      Con sei occhi piangea, e per tre menti
      Gocciava il pianto e sanguinosa bava.12
55Da ogni bocca dirompea coi denti
      Un peccatore a guisa di maciulla,
      Sì che tre ne facea così dolenti.
58A quel dinanzi il mordere era nulla
      Verso il graffiar, che tal volta la schiena
      Rimanea della pelle tutta brulla.
61Quell’anima lassù ch’à maggior pena,
      Disse il Maestro, è Giuda Scariotto,
      Che il capo à dentro, e fuor le gambe mena.
64Delli altri due che ànno il capo di sotto,
      Quel che pende dal nero ceffo, è Bruto:
      Vedi come si storce, e non fa motto;
67E l’altro è Cassio, che par sì membruto.
      Ma la notte risurge, et oramai
      È da partir, che tutto aven veduto.
70Come a lui piacque, il collo gli avvinghiai;
     Et el prese di tempo e luogo poste:13
      E quando l’alie furo aperte assai,14

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73Appigliò sè alle vellute coste.
      Di vello in vello giù discese poscia
      Tra il folto pelo e le gelate croste.
76Quando noi fummo là, dove la coscia
      Si volge a punto in sul grosso dell’anche,
      Lo Duca con fatica e con angoscia
79Volse la testa ov’elli avea le zanche,
      Et aggrappossi al pel, com’uom che sale,
      Sì che in Inferno io credea tornar anche.
82Attienti ben, che per cotali scale,
      Disse il Maestro, ansando come uom lasso,
      Conviensi dipartir da tanto male.15
85Poi uscì fuor per lo foro d’un sasso,
      E puosesi in su l’orlo a sedere;16
      Appresso porse a me l’accorto passo.
88Io levai li occhi, e credetti vedere
      Lucifero, com’io l’avea lasciato,
      E vidigli le gambe in su tenere.
91E s’io divenni allora travagliato,
      La gente grossa il pensi, che non vede
      Qual è quel punto, ch’io avea passato.17
94Levati su, disse il Maestro, in piede:
      La via è lunga, el cammino è malvagio,
      E già lo Sole a mezza terza riede.
97Non era caminata di palagio
      Là ’v’eravam; ma natural burella,
      Che avea mal suolo, e di lume disagio.
100Prima che dell’abisso mi divella,
      Maestro mio, diss’io quando fui dritto,
      A trarmi d’erro un poco mi favella:

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103Ove la ghiaccia? e questi come fitto
      Di sotto sopra? e come in sì poca ora18
      Da sera a mane à fatto il Sol tragitto?
106Et elli a me: Tu imagini ancora
      D’esser di là dal centro, ov’io mi presi
      Al pel del vermo reo, che il mondo fora.
109Di là fosti cotanto, quant’io scesi:
      Quand’io mi volsi, tu passasti il punto,
      Al qual si traggon d’ogni parte i pesi;
112E se’ or sotto l’emisperio giunto,
      Ch’è opposito a quel, che la gran Secca
      Coverchia, e sotto il cui colmo consunto
115Fu l’uom che nacque e visse sanza pecca:
      Tu ài li piedi in su piccola spera,
      Che l’altra faccia fa della Giudecca.
118Qui è da man, quando di là è sera;
      E questi che ne fe scala col pelo,
      Fitto è ancora, sì come prima era.
121Da questa parte cadde giù dal Cielo:
      E la terra, che pria di qua si sporse,
      Per paura di lui fe del mar velo,
124E venne all’emisperio nostro; e forse,
      Per fuggir lui, lasciò qui il luogo voto
      Quella che par di là, e su ricorse.
127Luogo è là giù da Belzebub remoto,
      Tanto quanto la tomba si distende,
      Che non per vista; ma per suono è noto
130D’un ruscelletto, che quivi discende
      Per la buca d’un sasso, ch’egli à roso19
      Col corso che lì avvolge, e poco pende.

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133Lo Duca et io per quel cammino ascoso
      Entrammo a ritornar nel chiaro mondo;
      E sanza cura aver d’alcun riposo,
136Salimo suso, el primo et io secondo,20
      Tanto ch’io viddi delle cose belle,
      Che porta il Ciel, per un pertugio tondo;21
139E quindi uscimo a riveder le stelle.2223


  1. v. 6. C. M. che vento
  2. v. 7. Dificio; ordigno, macchina ingegnosamente costrutta. E.
  3. v. 9. C. M. che non li era
  4. v. 9. Grotta e grotto, adoperati dal popolo toscano a significare ripa. E.
  5. v. 13. C. M. Altre sono a giacere,
  6. v. 19 fe ristarmi,
  7. v. 27. d’uno e d’altro privo. Sintassi mentale, dove riesce agevole intendere privo della morte e della vita. E.
  8. v. 29. C. M. Da mezzo il petto
  9. v. 42. C. M. E sanguinato al sommo della cresta.
  10. v. 49. C. M. penna, ma di vespertello
  11. v. 50. C. M. quelle in su alsava,
  12. v. 54. Una bella variante ne viene offerta dal Cod. Antald. » Gocciava al petto sanguinosa bava. » E.
  13. v. 71. C, M. del tempo
  14. v. 72. C. M. funno
  15. v. 84. C. M. di tanto
  16. v. 86. C. M. E puosemi
  17. v. 93. C. M. avea lassato.
  18. v. 104. Sì sotto sopra?
  19. v. 131. C. M. che è roso
  20. v. 136. C. M. Salimo’n suso,
  21. v. 138. C. M. pertuso
  22. v. 139. C. M. uscimmo
  23. v. 139. Vincenzio Gioberti nel vol. ii della sua Protologia nota come Dante finisce le sue tre cantiche colla voce stella; la qual voce per l’Allighieri è simbolo di vista, e codesta temmirio di cognizione. E.




C O M M E N T O


Vexilla Regis prodeunt ec. In questo xxxiiii canto ed ultimo della prima cantica; cioè dello Inferno, l’autor nostro tratta del quarto giro ed ultimo del nono cerchio che si chiama Giudecca da Giuda, come si dirà di sotto, nel quale sono li traditori ch’ànno tradito i loro maestri1, signori e benefattori; et imperò ci pone lo Lucifero nel centro della terra, perchè si levò contra il suo Fattore, e dividesi in due parti: imperò che prima pone come venne nel quarto giro, e descrive le pene che vi trovò et il peccato che vi si punisce per li peccatori che quivi nomina, et all’ultimo pone come2 passò lo centro della terra et uscie fuori dell’inferno, quivi: Come a lui piacque ec. La prima3 si divide in sei parti: imperò che prima pone come ebbe da lungi apparenzia del Lucifero; nella seconda descrive il modo della pena di quelli del quarto giro, quivi: Già era (e con paura ec.; nella terza pone come Virgilio li mostra lo Lucifero, che lo chiama Dite, quivi: Quando noi fummo fatti ec.; nella quarta descrive come è fatto Dite, quanto4 alla statura, quivi: Lo Imperador del doloroso ec.; nella quinta lo descrive, quanto alle condizioni del corpo, quivi: O quanto parve a me ec.; nella sesta pone com’elli tormenta certi gravi peccatori, quivi: Da ogni bocca ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa. [p. 849 modifica]

Dice l’autore che, poichè si partì da frate Alberigo et andò oltre verso il mezzo, Virgilio li cominciò a parlare, e disse: In verso di noi si manifestano li gonfaloni del re dell’inferno, et imperciò ragguardati inanzi se tu lo discerni. Allora dice Dante che, ragguardando li parve vedere come uno mulino da vento in una nebbia, o quando è di notte; e, perchè qui diveniva un gran vento, si ristrinse dietro a Virgilio; e però che non v’era altro riparo da quel vento e già era venuto nel quarto giro, e quivi dice che l’anime stavano tutte coperte nella ghiaccia, e trasparevano come la festuca quando è nel vetro; e dice che quale stava5 levata col capo, e quale con le piante, e quale stava come arco col volto a’ piedi. E quando fummo tanto iti oltre, che a Virgilio piacque di mostrare a Dante Dite, dice che se li levò dinanzi e disse: Ecco Dite, ecco lo luogo ove ti conviene esser forte. Et allora dice Dante ch’ebbe grande paura, e vide l’imperadore dello inferno, il quale era da mezzo lo petto in su fuori della ghiaccia, et era più che uno gigante, e questo mostravano le braccia che erano maggiori che di gigante, et era tanto brutto e laido che bene dee da lui procedere ogni pianto, et ogni male; et avea tre faccie; l’una dinanzi vermiglia, l’altra in su la spalla ritta et era tra bianca e gialla, e l’altra in su la spalla manca et era nera; et avea tre alie grandi più che vele di mare, per diritto di ciascuna faccia, una; e menava queste alie, e quindi si generavano tre venti che agghiacciavano Cocito; et avea sei occhi coi quali piangeva, e tre menti e quindi gocciolava lo sangue e la bava6, e da ogni bocca avea pendente un’anima; da quella di mezzo pendeva co’ piedi in giù, e quella dice Virgilio a Dante ch’era Giuda; e della bocca nera pendeva un’anima col capo di sotto, e quella dice Virgilio che era Bruto; e dall’altra bocca tra bianca e gialla pendeva un’altra anima col capo di sotto, e quella dice Virgilio che era Cassio; e queste tre anime frangeva coi denti, come la maciulla frange lo lino. E poi che Virgilio li manifestò quelli peccatori, ammonisce Dante che tempo è da partirsi dell’inferno: imperò che tutto è veduto.

C. XXXIV — v. 1-9. In questi tre ternari l’autor nostro finge che Virgilio li parlasse, e mostrasseli di lungi lo Lucifero e facesselo cauto che guardasse se lo vedea, dicendo così: Vexilla Regis prodeunt Inferni; finge l’autore che Virgilio parli, e dica le parole dette di sopra che sono in Grammatica, che in volgare dicono così: Li gonfaloni del Re dello Inferno si manifestano; e queste erano l’alie del Lucifero, come si mosterrà di sotto, Verso di noi; però dinanzi mira; tu, Dante, Disse il Maestro mio; cioè Virgilio, se tu il discerni; cioè se tu il puoi scorgere. Come quando una grossa nebbia spira; discerne [p. 850 modifica]il tempo, dicendo come quando è una grossa nebbia; o come, O quando l’emisperio nostro annotta; pone un’altra condizione di tempo; cioè come nel nostro mondo si fa notte: emisperio tanto è a dire, quanto mezza spera, e così è la nostra parte che noi veggiamo del cielo ch’è mezza spera: però che per la terra non ne possiamo veder più, Par di lungi un molin che al vento gira7; ora agguaglia la similitudine dicendo che, come parrebbe di notte, e quando fosse grande nebbia, uno molino che girasse a vento; così li parve vedere simile l’edificio; e però dice: Veder mi parve un tal dificio allotta; a me Dante: Poi per lo vento; che venia, mi ristrinsi retro Al Duca mio; cioè a Virgilio, che non v’era altra grotta; cioè perchè non v’era altra reparazione; e questo è quanto alla lettera. Ma allegoricamente intese l’autore che da Lucifero vengono tre venti, ch’elli spira sempre battendo le sue alie; cioè ingratitudine, crudeltà et odio; dai quali venti chi non vuole essere offeso riparisi con la ragione, come fece elli di rietro a Virgilio che significa la ragione, ponendo incontro a questi venti la ragione, la quale vede questi tre venti essere noiosi, e cessali da sè; e così si ripara da essi, adducendo li suoi contrari; cioè gratitudine, pietà et amore.

C. XXXIV — v. 10-15. In questi due ternari narra l’autore la differenzia delle pene, che finge essere a quelli del quarto giro, li quali ànno tradito li loro maestri, signori e benefattori, dai quali ànno ricevuti grandissimi benefìci. E finge che una pena sia comune a tutte; cioè che sono tutte coperte sotto la ghiaccia: imperò che tutte sono state private d’ogni carità et amore. E quattro differenzie pone in quella pena: imperò che quale parimente sta a giacere riverta, quale col capo in su e co’ piedi in giù un poco erta, quale per lo contrario; cioè col capo in giù e coi piedi in su, e quale col ventre in su levato8, tenendo il capo a’ piedi, e la schiena di fuori a modo di cerchio. E queste quattro differenzio pone, perchè quattro sono le differenzie di questi traditori: imperò che altri sono che usano tradimento alli benifattori suoi pari, e questi finge che stiano parimente a giacere; et altri sono che l’usano contra li maggiori benefattori tanto, come sono i signori, e maggiori, e maestri e qualunque altro grado di maggioria, e questi stanno col capo in giù e co’ piedi in su; et altri sono che l’usano contra li minori che sono loro benefattori, come li signori contra li sudditi, e questi stanno col capo in su e co’ piedi in giù; et altri sono che l’usano contra li minori e contra li maggiori parimente, e questi stanno inarcocchiati col capo, e coi piedi parimente in giù nella ghiaccia, e tutti stanno riverti; cioè rovescio, perchè sfacciatamente sanza alcuno [p. 851 modifica]ricoprimento ànno usato lo tradimento. E questo medesimo allegoricamente si truova in quelli del mondo, de’ quali intese propiamente l’autore: imperò che tutti questi traditori de’ benefattori loro sono sfacciati; e se usano lo tradimento alli loro pari benefattori, sono parimenti a giacere nel freddo della crudeltà e dell’odio; e se l’usano pure contro a’ maggiori, sono col capo più in giù in quanto mostrano più l’abominevole odio e crudeltà; e se l’usano pure contro a’ minori, stanno co’ piedi più in giù, e col capo più su, perchè viene meno abominevole l’odio e la crudeltà; e se l’usano quando contra i maggiori e quando contra minori, stanno inarcocchiati col capo pari a’ piedi, perchè mostrano odio e crudeltà, e più e meno abbominevole. Or dice così il testo: Già era; io Dante andato oltre verso il mezzo, (e con paura il metto in metro; cioè lo dico ora in questi versi: imperò che raccordarlo mi spaurisce) Là, dove l’ombre tutte eran coperte; cioè dalla ghiaccia: cosa paurosa è a pensare che l’uomo sia al tutto privato d’ogni amore e d’ogni carità, e sia al tutto crudele et odioso, E trasparean come festuca in vetro; questa è fizione poetica verisimile che, se erano nella ghiaccia, doveano trasparere; et è atta similitudine che, così doveano parere sotto la ghiaccia, come pare la festuca quando è rinchiusa nel vetro. Altre stanno a giacere; cioè parimente rovescio9, altre stanno erte; cioè levato in suso; ma pure10 nondimeno rovescio, Quella col capo; ecco come differentemente stavano erte; cioè col capo in su e co’ piedi in giù, e quella con le piante; cioè stava erta sì, che i piedi erano in su, e ’l capo in giù, Altra, com’arco, il collo ai piedi inverte; e così stava inarcocchiata e tenea parimente in giù il capo et i piedi.

C. XXXIV — v. 16-27. In questi quattro ternari finge l’autore che Virgilio li mostrasse Dite, e come vedendolo ebbe paura, e però dice: Quando noi; cioè Virgilio ch’era inanzi, et io Dante che gli era dietro, fummo fatti tanto avante; cioè tanto inverso il centro, Che al mio Maestro; cioè Virgilio, piacque di mostrarmi; cioè a me Dante, La creatura ch’ebbe il bel sembiante; cioè ch’ebbe la bella apparenza; cioè Lucifero, che Idio fece di tanta bellezza, Dinanzi mi si tolse; perchè s’era riparato dopo lui, per lo vento, come detto fu di sopra, e fe restarmi; cioè me Dante, perch’io comprendessi meglio, Ecco Dite, dicendo: Dite chiamano li poeti lo idio dell’inferno; quasi ricco, perchè delle morti delli uomini cresce lo suo imperio per signoria, et arricchisse11, e da costui denominò di sopra l’autore la città di Dite; ancora lo chiamano li poeti Plutone. et ecco il loco, Ove convien che di fortezza t’armi: imperò che convenia che di lui facessono scala, se voleano discendere al centro et [p. 852 modifica]uscire dell’inferno. Com’io divenni allor gelato e fioco; dice l’autore, Nol domandar, Lettor, ch’io non lo scrivo; et assegna la cagione: Però ch’ogni parlar sarebbe poco; a volere esprimere la mia paura; ora pur la descrive in brievi parole, dicendo: Io non mori’, e non rimasi vivo; sì ch’elli rimase in quel mezzo; cioè nè vivo, nè morto: Pensa oggimai per te, s’ài fior d’ingegno; tu, Lettor, Qual io; cioè Dante, divenni, d’uno e d’altro privo; cioè privato del vivere e del morire. Conveniente cosa è che a veder così fatta cosa elli finga avere avuta sì fatta paura.

C. XXXIV — v. 28-36. In questi tre ternari l’autor nostro descrive la statura di Dite, e il luogo dove elli era, dicendo così: Lo Imperador del doloroso regno; cioè dell’inferno, che è luogo di dolore, Dal mezzo il petto uscia fuor della ghiaccia; ecco lo luogo dove era; cioè fitto nella ghiaccia nel centro della terra, e da mezzo il petto in su si vedeva fuori della ghiaccia; non che la ghiaccia il toccasse, che non sarebbe verisimile che, afferrandosi a’ peli suoi, fossono discesi infino al foro del centro della terra; ma avea d’intorno la ghiaccia che occupava in fino al mezzo il petto, E più con un gigante io mi convegno; cioè io Dante più m’agguaglio a uno gigante, lo quale è tanto maggiore di me, Che i giganti non fan con le sue braccia; cioè che non s’agguagliano li giganti alle braccia sue; cioè del Lucifero: imperò che le braccia sue di Dite; cioè del Lucifero, sono molto maggiori che uno gigante. Vedi oggimai; tu, Lettore, quant’esser dee quel tutto, Che a così fatta parte si confaccia: cioè si convenga, secondo la sua proporzione e secondo la dimensione de’ corpi, a sì fatta parte, come erano le braccia sue12; o vogliamo intendere da mezzo il petto in su. S’el fu sì bel, com’egli è ora brutto; questa similitudine è vera, benchè l’autore la proferisca sotto dubitazione: imperò che giusta cosa è che tanto cadesse di sotto all’altre creature, quanto elli avanzava l’altre creature; sicchè questa è vera che tanto fu bello, quanto ora è brutto, E contra il suo Fattore alzò le ciglia; questo aggiugne alla similitudine ancora per vera, benchè che13 la proferisca a quello medesimo modo: imperò che contro a Dio si levò per superbia, volendosi porre pari a lui, dicendo: Ponam sedem meam in14 aquilone, et ero similis altissimo. E di questo antecedente l’autore induce questa vera consequenzia, Ben dee da lui procedere ogni lutto; cioè ogni pianto e miseria. Questa consequenzia è verissima; e per inducere questa, premise quello antecedente di sopra, sotto modo di dubitazione, ben ch’elli l’abbia fermissimo. [p. 853 modifica]

C. XXXIV — v. 37-54. In questi sei ternari lo nostro autore, poi ch’à discritto la statura di Dite, descrive particularmente le condizioni di quello che di Dite si vedea fuori della ghiaccia; e tutto fìnge sotto figura et allegoria come si mosterrà, e dice così: O quanto parve a me; Dante, gran maraviglia, Quando vidi tre faccie alla sua testa! In questa sua fizione vuole dimostrare l’autore come sia vera la consequenzia fatta da lui di sopra; cioè ben dee procedere da lui ogni vizio e peccato; et a mostrare questo, finge che Lucifero abbia la testa, prima crestuta; la quale cresta significa la superbia e l’invidia che è sua figliuola: ove è la madre, incontanente vi nasce la figliuola; appresso, che abbia tre faccie, che significano li altri tre vizi e peccati15 spirituali; cioè ira, avarizia, accidia: imperò che finge che la faccia dinanzi sia vermiglia, e questa significa l’ira che è accesa di furore; l’altra, la quale è dalla spalla ritta, finge che sia smorta: imperò che dice che è tra bianca e gialla, e questa significa l’avarizia che è sempre affamata; la terza, che è dalla spalla manca, finge che sia nera, e questa significa l’accidia che è sempre oscura. E finge che ciascuna di queste faccie abbia due occhi; cioè due respetti; cioè che l’ira à respetto disordinato et immoderato a conservare16 lo bene, e questo è l’uno occhio; cioè l’occhio ritto; l’altro immoderato respetto è a cessare lo male17, e questo è l’occhio manco. E così l’avarizia à due respetti; cioè respetto immoderato del bene suo giudicandolo poco, e questo è l’occhio ritto; l’altro respetto immoderato è al bene altrui che non àe, giudicandolo assai, e questo è l’occhio manco. E così l’accidia à due respetti; l’uno è rispetto immoderato di partirsi dalla fatica, e questo è l’occhio manco; l’altro respetto è immoderato, è accostarsi al riposo, e questo è l’occhio ritto. E finge che ciascuna faccia abbia sotto di sè due grandissime alie non pennute di penne; ma di pongiglioni come il vilpistrello, a significar li levamenti che ciascuno di questi vizi e peccati àe, che sono due. Ecco l’ira à due levamenti; cioè turbazione e furore; le quale alie generano il vento della crudeltà, come detto fu di sopra. L’avarizia similmente à due levamenti; cioè rapacità e tenacità; e queste due alie generano il vento della ingratitudine, della quale si disse ancora di sopra. E l’accidia ancora à due levamenti; cioè tristizia e negligenza; e queste due alie generano il vento dell’odio, del quale ancora fu detto di sopra. E finge che queste alie abbiano pungiglione: imperò che sempre stimolano e pungono; e non penne che alleggeriscono e lievano in alto sì, che da queste alie; cioè dalle due18, nomina un vento; e così da sei alie tre venti, onde dall’alie dell’ira [p. 854 modifica]venia la crudeltà, dall’alie dell’avarizia venia la ingratitudine, e dall’alie dell’accidia veniva l’odio; e questi tre venti agghiacciavano Cocito, e li peccatori ch’erano in esso, a significare ch’era stata spenta ogni carità, ogni pietà, et ogni cognoscenza in loro, o vero gratitudine. E finge che l’alie erano grandissime, a denotare che eccessivamente crescono gli levamenti da vizi, e che da poco vengono ad assai; e però dice che le levava. Finge che abbia tre bocche; cioè ciascuna faccia, una, a denotare che ciascuno de’ sopra detti peccati divora e tormenta molti uomini; cioè quelli che vi caggiono, dei quali per esemplo ne porrà di sotto tre. Finge che abbiano19 tre menti, onde gocciola il pianto che viene dalli occhi, e la sanguinosa bava che gli esce di bocca, a significare che ciascuno di questi tre peccati e delli due altri capitali viene all’ultimo o a pianto o ad angoscia di penitenzia o di punizione eterna. Dice adunque così il testo: L’una dinanzi; avea di quelle tre faccie, e quella era vermiglia; e quella è la faccia dell’ira: imperò che sì fatto colore si conviene all’ira che accende; L’altre eran due, che s’aggiugneano a questa; dinanzi l’una dall’un lato, l’altra dall’altro, Sovresso il mezzo di ciascuna spalla; cioè della destra e della sinistra; e notantemente dice che s’aggiugneano a questa; a20 volere mostrare che’ vizi sono concatenati l’uno con l’altro; e però dice: E si giungneano al sommo della cresta; cioè alla invidia e superbia, che è significata per quel luogo. La destra; cioè faccia, mi parea tra bianca e gialla; cioè pallida, e quella era la faccia dell’avarizia: imperò che sì fatto colore si conviene all’avarizia, che sempre sta affamata; La sinistra a vedere era tal, quali Vegnon di là, onde il Nilo s’avvalla21; cioè era nera come sono li Etiopi, tra’ quali discende il Nilo che è uno de’ fiumi che divide l’Egitto dall’Asia, e viene dell’oriente e non si truova la sua fonte, nè il suo principio; e fa questa circuizione, a denotare l’Etiopia orientale, che ne sono due; una in verso l’oriente, e l’altra in verso l’occidente; e quella era la faccia dell’accidia: imperò che sì fatto colore si conviene all’accidia che fa stare l’uomo tristo e malinconico. Sotto ciascuna; cioè faccia. uscian due grandi ali; sì ch’erano sei, Quanto si conveniva a tanto uccello; questo dice, per mostrare che li levamenti non sono iguali; ma sono più e meno, secondo la pravità dell’animo, e però le mette grandissime a costui: imperò ch’ebbe maggiore pravità che avesse mai alcuno; e però dice: Vele di mar non vid’io mai cotali; [p. 855 modifica]sì grandi, come erano quelle ali. Non avean penne: però che sì fatte alie non sono da levare in alto; ma da priemere in giù, e però dice: ma di vilpistrello Era lor modo; cioè di vipistrello con pungiglioni, per istimolare e pugnere, e quelle svolazzava; per sventare, Sì che tre venti si movean da ello; de’ quali fu detto di sopra. Quindi Cocito tutto s’aggelava; per quelli tre venti s’aggelava lo fiume infernale che significa22 pianto, a significare che il pianto de’ traditori non viene mai da ardore di carità; ma da gielo d’ingratitudine, crudeltà et odio, Con sei occhi piangea; perch’ogni faccia n’avea due, e per tre menti Gocciava il pianto e sanguinosa bava; per li peccatori che finge di sotto che frangea coi denti, dice che la barba23 era sanguinosa.

C. XXXIV — v. 55-69. In questi cinque ternari l’autor compie la descrizione del Lucifero, e lo sollicitamento di Virgilio del partirsi, perchè aveano compiuto il cammino primo24, dicendo così: Da ogni bocca; di quelle tre lo Lucifero, dirompea coi denti; suoi, Un peccatore a guisa di maciulla; cioè della gramola che dirompe lo lino: così quello peccatore dirompea coi denti, Si che tre ne facea così dolenti; dei peccatori traditori tre ne pone essere puniti diversamente dalli altri nelle tre bocche da Lucifero, a dimostrare che questi tre, come usarono eccessivo tradimento per rispetto delle persone tradite; così eccessivamente sieno puniti per rispetto degli altri: imperò che tradirono li maggiori signori che fossono nel mondo; cioè Giuda Scariot lo nostro signore Gesù Cristo, che fu lo maggiore tradimento che mai potesse essere; e Bruto e Cassio che tradirono Giulio Cesare imperatore, che fu il maggiore signore che avesse il mondo allora; et a ciascuno appropria la sua bocca, per notare alcuna circustanzia di peccato che usarono in quel tradimento, e però dice: A quel dinanzi; cioè a Giuda, il mordere era nulla; che facea coi denti, Verso il graffiar; ch’elli25 facea con li artigli delle branche sue, che tal volta la schiena Rimanea della pelle tutta brulla; cioè tutta netta, che ne la portavano li unghioni. Quell’anima lassù ch’à maggior pena; tra per lo rompere coi denti, e per lo graffiare, Disse il Maestro; cioè Virgilio, è Giuda Scairiotto: nota è la storia del tradimento di Giuda a tutti i Cristiani, e mettelo nella bocca dell’ira, perchè usoe ancora ira in quello tradimento, Che il capo à dentro, e fuor le gambe mena; e questo finge l’autore per maggiore pena, perchè il suo fu maggiore peccato. Delli altri due che ànno il capo di sotto; sicchè sono dentro con le gambe nelle bocche, Quel che pende dal nero ceffo, è Bruto; e questo si dee [p. 856 modifica]intendere che fosse accidioso oltre al tradimento; Vedi come si storce, e non fa motto; per la pena finge che si storcea, E l’altro è Cassio, che par sì membruto26; nell’altra bocca; cioè pallida: perchè era avaro finge ch’elli fosse con le gambe. Questi due; cioè Bruto e Cassio tradirono Giulio Cesare imperadore: nota è ancora la storia, e però la lascio. E poi Virgilio ammonisce e conforta Dante dello spaccio, ammonendolo del tempo e dicendo: Ma la notte risurge; cioè ritorna, e così mostra che si facesse notte; e per questo pare che una notte et uno di’, infino al principio dell’altra notte, finga l’autore che penasse a cercare l’inferno fino al centro: imperò che da sera entrò nel cammino, come appare27 nel principio del secondo canto; cioè: Lo giorno se n’andava, e l’aer bruno ec.: et ora finge che la notte ritorni, e di sopra nel xx canto mostra che la prima notte fosse passata; e così mostra che stesse una notte et uno di’ infino al principio dell’altra notte, et oramai; cioè oggimai, È da partir; cioè dello inferno, che tutto aven veduto; cioè tutto ciò ch’era dello inferno a vedere in sino al centro della terra. E qui finisce la prima lezione: seguita la seconda.

Come a lui piacque. Questa è la seconda lezione et ultima di questo canto e della prima cantica; nella quale lezione fìnge la sua partita dell’inferno, e dividesi in sei parti: imperò che prima finge il modo, come discese al centro della terra, e come lo passò; nella seconda pone come, passando di là del centro, Virgilio l’ammonisce che si attenga bene, e come lo posoe giù, quivi: Attienti ben ec.; nella terza pone come, vedendo le gambe dello Lucifero, si maraviglia, e come Virgilio lo conforta ad andare più in su, quivi: Io levai li occhi ec.; nella quarta pone com’elli domanda Virgilio, per essere chiaro, quivi: Non era caminata ec.; nella quinta pone la dichiarazione che fa Virgilio, quivi: Et elli a me ec.; nella sesta descrive lo luogo unde uscì della terra, e pervenne di sopra alla terra nell’altro emisperio, quivi: Luogo è là giù ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.

Come Virgilio m’ebbe ammonito del partire, dice l’autore come detto fu di sopra, io li avvinghiai il collo; et elli, quando li parve tempo e luogo, s’appigliò alle vellute coscie del Lucifero, e di vello in vello discese tra ’l pelo del Lucifero e le croste della ghiaccia che gli erano d’intorno. E quando Virgilio et io fummo28 al principio della coscia ov’ella s’annoda con l’anche, Virgilio con fatica si volse e mise il capo quivi, ove avea li piedi; e voltatosi cominciò ad [p. 857 modifica]appigliarsi al pelo del Lucifero e cominciò a salire, onde Dante dice ch’elli si credea ancora tornare nell’inferno. Et allora Virgilio lo conforta, e così confortandolo dice che Virgilio uscì fuori d’un foro d’un sasso e pose Dante a sedere in su l’orlo del buco, e poi passò a lui. Allora dice l’autore che levò li occhi, credendosi vedere lo Lucifero com’elli l’avea veduto prima, et elli vide pure le gambe tenere in su; e dice che s’elli divenne travagliato, pensilo la gente grossa, che non vede quale è quel punto ch’egli avea lasciato. Allora Virgilio lo conforta ch’elli si lievi, considerando che la via era lunga e ’l cammino malvagio, e già era alta mattina; e descrive lo luogo quivi, dove erano, ch’era oscuro et avea mala via e sconcia. E finge che andando, domanda Virgilio delle cose ch’aveano lasciate della ghiaccia del Lucifero, ch’era volta così sottosopra, e della mutazione del tempo, che di là era sera, e quivi ove si truova ora era mattina. A che Virgilio risponde che l’immaginare suo lo ingannò, ch’elli si credea essere di là dal centro della terra, ov’elli s’apprese al vello del Lucifero; et aggiugne a dichiaragione che tanto fu di là, quanto discese, e quando elli si volse allora si passò il centro; e che era giunto nell’altro emisperio, che è opposito a quello che coperchia la gran terra in sul colmo della quale fu crucifisso Cristo; e che era co’ piedi in su quel tondo, che dall’altro lato avea la Giudecca ch’elli avea lasciato; e che non si maravigliasse del tempo: imperò che quivi era da mattina, quando di là era da sera; e che non si maravigliasse del Lucifero che così era fitto, come quando lo vide, e ch’elli cadde col capo dinanzi da quello emisperio; e che la terra che prima di là era fuori dell’acqua, fuggì all’altro emisperio e ricopersesi del mare per paura di lui, e forse che lasciò questo luogo voto, per fuggire il Lucifero e ricorse di là. E poi che à posto la risposta di Virgilio, descrive il luogo onde uscì, dicendo ch’è uno luogo remoto da Belzebub, tanto grande quanto era mestieri a venire alla superficie della terra; e dice che non si vedea per l’oscurità che v’era; ma sentivasi per lo suono d’un’acqua che quivi discendeva29. E per quello buco oscuro finge l’autore che ritornasse fuori della concavità della terra alla superficie per uno buco, che vidono tondo, che mostrava loro la chiarezza del cielo; e per quel buco uscie prima Virgilio e poi Dante, a riveder le stelle della notte: però che allora quivi era notte. E qui finisce lo canto: ora è da vedere il testo coll’allegorie.

C. XXXIV — v. 70-81. In questi quattro ternari l’autor nostro finge che, poi che Virgilio l’avea confortato del partire, elli diede [p. 858 modifica]opera a discendere al centro; e però dice: Come a lui piacque; cioè Virgilio, il collo gli avvinghiai; io Dante, Et el; cioè Virgilio, prese di tempo e luogo poste; cioè à posto lo tempo quando si dovesse aggrappare30, e luogo dove si dovesse appigliare, E quando l’alie furo aperte assai; cioè del Lucifero, delle quali fu detto di sopra, Appigliò sè; cioè Virgilio, alle vellute coste; del Lucifero. Di vello in vello giù discese poscia; cioè Virgilio, avendo avvinghiato Dante al collo, Tra il folto pelo; del Lucifero, e le gelate croste; della ghiaccia che gli era d’intorno. Quando noi; cioè Virgilio et io Dante, fummo là, dove la coscia; del31 Lucifero, Si volge a punto in sul grosso dell’anche; cioè32 alla fine dell’anche, ove s’incaviglia e s’annoda la coscia, lo Duca; cioè Virgilio, con fatica e con angoscia Volse la testa ov’elli avea le zanche; perch’era scieso al centro, li convenia montare, imperò fìnge che si volgesse, Et aggrappossi al pel; del Lucifero, com’uom che sale; perchè finge che insino a quivi era disceso, Sì che in Inferno io credea tornar anche33; dice Dante che si credea tornare ancora in Inferno, perchè lo vedea salire quivi, ove prima era disceso; e questa è fizione dell’autore, per fare verisimile suo poema, e non ci è allegoria.

C. XXXIV — v. 82-87. In questi due ternari l’autor nostro finge che Virgilio, salendo l’ammonisca dell’attenersi bene, e come lo posò in sul sasso ch’era fuor del centro, dicendo: Attienti ben; Dante, Disse il Maestro; cioè Virgilio, ansando; cioè angosciando, come uom lasso; cioè stanco; e puossi intendere allegoricamente ch’elli intendea la ragione sua e l’ingegno suo affaticato dalla materia, che per cotali scale; come sono queste del Lucifero, che ci è convenuto scendere e salire per li velli suoi faticosamente, Conviensi dipartir da tanto male; quanto è l’inferno. E moralmente si può notare che ogni fatica si dee sostenere volentieri, per cessarsi dal male; et allegoricamente che, volendosi l’uomo partire dall’inferno; cioè dal peccato che mena l’anima all’inferno, dee discendere e salire per li peli del Lucifero; cioè dee considerare la sua bellezza e grandezza, quanta fu quando fu creato; e quanto fu sozzo e misero e vile, quando cadde per lo peccato. Poi uscì fuor; Virgilio34 con lui, per lo foro d’un sasso; nel quale era confitto lo Lucifero, in sul mezzo del quale era il centro della terra, E puosesi in sull’orlo; di quel sasso, a sedere; Appresso porse a me l’accorto passo; venendo quivi ov’io era a sedere, lasciato lo Lucifero.

C. XXXIV — v. 88-96. In questi tre ternari fìnge l’autore che, [p. 859 modifica]posato che fu in sul sasso fuori del centro, elli si travagliò tutto, vedendo le gambe del Lucifero, e però dice: Io levai li occhi; cioè io Dante, stando a sedere, e credetti vedere Lucifero, com’io l’avea lasciato; cioè col capo e con l’alie, E vidigli le gambe in su tenere; perch’era passato il centro della terra dell’altro emisperio. E s’io divenni allora travagliato; vedendo questa mutazione, La gente grossa il pensi, che non vede Qual è quel punto, ch’io avea passato; cioè lo centro della terra; quasi dica: Li uomini sottili non se ne maravigliano: imperò che veggono la cagione; ma li uomini grossi sì. Levati su, disse il Maestro, in piede; a me Dante, e così mi confortò dell’andare: La via è lunga: imperò che aveano a tornare nel nostro emisperio, come si mosterrà di sotto che tornarono, el cammino è malvagio: imperò che non vi si vedea lume et era la via mal piana, E già lo Sole a mezza terza riede; e questo dice: imperò che, quando si partì del nostro emisperio, era già venuta la notte; et ora ch’era nell’altro, era presso a mezza terza: imperò che, quando di qua si fa notte, di si fa di’: e come di qua ne viene la notte; così di là ne viene lo di’.

C. XXXIV — v. 97-105. In questi tre ternari l’autor nostro finge che domandasse Virgilio, per uscire d’errore, di tre cose: e però dice, mostrando prima la difficultà del cammino: Non era caminata di palagio; cioè non era sala di palazzo: i signori usano di chiamare le loro sale caminate, massimamente in Lombardia; e questo dice, perchè le sale de’ palagi de’ signori sogliono essere ben piane e ben luminose, e quivi era lo spazzo35 disiguale et aspro, et eravi grande oscurità, Là ’v’eravam; cioè Virgilio et io, ma natural burella; cioè luogo oscuro, ove non si vede raggio di sole sì, che v’è poco lume et il terreno vi è molle e diseguale, e però dice: Che avea mal suolo, e di lume disagio; come la burella. Prima che dell’abisso mi divella; cioè prima ch’io mi spacci di questo luogo profondo, Maestro mio, diss’io quando fui dritto; cioè poi ch’io fui levato in piedi, A trarmi d’erro36 un poco mi favella; questo finge l’autore, per dichiarare li lettori, se sopra questo prendessono dubbio: Ove la ghiaccia; dice Dante a Virgilio: Ove è quella ghiaccia, sopra la quale io andava, ov’erano fitti li traditori? e questi; cioè Lucifero, come fitto Di sotto sopra? Questo dice, per mostrare che li paresse in quel montare esser montato, o vero ritornare, in su l’emisperio del quale era uscito, dove avea veduta la ghiaccia et il capo del Lucifero sì, che essendo nel detto luogo, li sarebbe necessario che fosse volto sottosopra, vedendo ora le gambe quivi, ove vedeva prima il capo, e [p. 860 modifica]come in sì poca ora: poco spazio era che, essendo nell’emisperio nostro, Virgilio avea detto che la notte risurgea; e però dice: e come in sì poca ora, Da sera a mane à fatto il Sol tragitto; come dicesse: Pur testè; o vuogli dire: Ora era sera, come dicesti, et io veggio diventato così tosto mattina? E questo era verisimile, come si mosterrà di sotto che, quando nel nostro emisperio comincia la notte, nell’altro comincia il di’; e Dante in poco spazio di tempo era passato dall’uno emisperio all’altro tanto, ch’era in su la mezza terza dal lato di là, di qua forse un’ora e mezza di notte; e però dice che il sole li pareva ito subito da sera a mane, non però che così fosse; ma pareali, perchè avea mutato emisperio.

C. XXXIV — v. 106-126. In questi sette ternari finge l’autore Virgilio risponda alle sue domande che à fatte di sopra, e prima premette le cagioni dell’errore che è la falsa imaginazione, e questa toglie via, dicendo così prima: Et elli; cioè Virgilio, disse, a me; cioè Dante: Tu imagini ancora D’esser di là dal centro; cioè della spera mundi37, che per la fizione che pone di sotto, se ’l non fosse la terra equalmente da ogni parte in mezzo della spera, come dimostra quella fizione, addiverrebbe che il centro del mondo non sarebbe a punto nel mezzo della terra; ma sarebbe in quel luogo della terra, ove fosse il punto mezzo di tutte le spere; e però si dee intendere come detto è. ov’io mi presi; dice Virgilio, Al pel del vermo reo; cioè del Lucifero, il quale egli chiama vermo: imperò che come il vermo rompe e rode38 e guasta lo legno; così elli corruppe il mondo; e ben dice reo, perch’elli indusse ogni retà39, vizio e peccato, che il mondo fora; cioè penetra, quanto alla lettera: imperò che, cadendo forò la terra e rimase40 nel centro, ove vanno tutte le gravi cose; et allegoricamente elli fu colui che corruppe primamente il mondo a’ vizi e peccati, et ancora corrompe sì, che ben dice che fora il mondo; et intende esser di là dal centro; cioè dall’emisperio nostro, ove siamo noi al presente. Di là fosti cotanto; tu, Dante, quant’io scesi; attenendomi a’ peli del Lucifero, quando m’avvinghiasti il collo: Quand’io mi volsi; come appare di sopra, tu passasti il punto; e finge che si volgesse, per affermare quello che dicono i filosofi; cioè che infino al centro della terra, ogni cosa scende, e poi monta quando è di là, Al qual si traggon d’ogni parte i pesi: imperò che come dice il Filosofo: Di natura alle cose gravi s’appartiene di discendere sì, che da ogni parte del cielo discenderebbono infino al centro, se la terra fosse forata da ogni superficie, e di sotto e di sopra e d’amendu’ li lati discenderebbe la cosa grave infino al centro. E se’ or sotto [p. 861 modifica]l’emisperio giunto, Ch’è apposito a quel, che la gran Secca; cioè la terra a quello emisperio che cuopre41; cioè l’emisperio nostro, Coverchia; cioè cuopre; cioè l’emisperio nostro del nostro cielo cuopre la terra che appare fuori dell’acque, che appare sopra il mare la quarta parte, e sotto il cui colmo; cioè dell’emisperio, che è il cielo che cuopre la terra, consunto; cioè morto, Fu l’uom che nacque e visse sanza pecca; cioè Cristo, nel quale in veruno modo fu peccato, nè nacque di peccato originale come gli altri uomini, nè fece mai peccato e fu crocifisso in Gerusalem, ove si dice essere nel mezzo del mondo, o vero della superficie della terra sì, che a punto sopra essa viene lo colmo del cielo, che inchiude la terra; cioè lo stellifero. Tu ài li piedi in su piccola spera; cioè in piccola rotondità: spera è corpo ritondo da ogni parte; onde finge l’autore ch’altrettanto fosse il giro del tondo in sul quale Dante era co’ piedi, quanto era quello ove era di qua il quarto giro intorno al centro che si chiama, secondo che fu detto di sopra, la Giudecca; e però dice: Che l’altra faccia; cioè di questa spera, fa della Giudecca; cioè di quel giro, che è chiamata Giudecca: questo quarto giro non avea ancora nominato l’autore, e però lo nomina qui e chiamalo Giudecca: imperò che quivi si puniscono li traditori, che tradiscono li loro benefattori o signori o minori o pari che si sieno; e però Giuda Scariot tradie lo suo maestro e signore e benefattore; cioè Cristo che gli aveva fatto cotanto bene42 e perdonatili sì grandi peccati, quanti e quali elli avea fatti che sono noti nella istoria sua, e fattolo suo discepolo e spenditore, però si denomina quel giro Giudecca dal maggiore traditore che dire si possa, avendo rispetto cui esso tradì; et è si noto questo tradimento, che però lo lascio. Mostrata la falsa imaginazione che Dante avea, dichiara li errori che quindi seguitano, dicendo: Qui è da man, quando di là è sera; quasi dica: Non è maraviglia che tu veggi ora lo sole, che quando era di là incominciò la notte, e questo chiaro si vede che quando nell’uno emisperio è notte conviene che nell’altro sia il di’, per la circulare revoluzione che fa il sole, il quale con la sua presenzia fa il di’, e con la sua assenzia fa la notte. E questi che ne fe scala col pelo; cioè lo Lucifero, al cui pelo attenendomi, io discesi, e così fece la scala al mio discenso, Fitto è ancora sì, come prima era; cioè nella ghiaccia col capo verso all’altro emisperio, e con li piedi verso questo, benchè la crosta della ghiaccia fosse scostata da lui: puossi ancora dire fitto nel sasso, che è il centro della terra forato per lo suo43 andimento, Da questa parte; cioè dall’emisperio contrario al nostro, ove finge Dante che allora era, cadde [p. 862 modifica]giù dal Cielo; quando fu straboccato44 per la sua superbia: finge l’autore, per fare la sua poesi verisimile, che fosse straboccato44 dell’altro emisperio, E la terra, che pria di qua si sporse; cioè la terra che apparia di qua di fuori dell’acqua; e dice di qua, parlando di quello emisperio nel quale finge che allora fosse, che è contrario al nostro, Per paura di lui; cioè del Lucifero, fe del mar velo; cioè del mare oceano coprimento di sè, appiattandosi sotto lui. Et è qui da notare che l’autore finge che la terra apparisse nella creazione del mondo fuori dell’oceano dell’altro emisperio, come ora fa di questo; e che poi, quando cadde lo Lucifero da quella parte, ella s’appiattasse sotto il mare et approssimandosi al nostro emisperio; e non era tanto quello ch’era sporto di là fuori del mare, che avesse altrettanto sporto di qua: imperò che v’era la grande altezza dell’acqua; ma approssimossi alla superficie dell’acqua del nostro emisperio. Et a questo modo la spera della terra sarebbe mutata e fatta più su, e non sarebbe lo centro suo centro di tutte le spere celesti, che non n’è vero; ma elli disse questo poeticamente, fingendo per fare verisimile la sua poesia: e come prima di qua non era, se non acqua; ora così di là non è se non acqua, e così si tiene per li scentifichi, benchè l’autore finga poeticamente che ancora la terra rifuggisse e ricorresse all’altro emisperio e facesse un’isolo, ove finge essere lo monte di purgatorio, e ’l paradiso delitiarum. E venne all’emisperio nostro; cioè tutta la spera della terra si fe in verso noi, dice Virgilio a Dante, sì che quivi v’è primavera, di lungi dal nostro emisperio, e molto sotto l’acqua venne presso alla superficie dell’acqua, e forse, Per fuggir lui; cioè lo Lucifero, lasciò qui il luogo voto; ora rende ragione, perchè lo luogo dell’inferno ov’egli era, era vacuo, dicendo che la terra che era, ove ora è lo Lucifero, per fuggire lui andò su e lasciò lo luogo intorno al Lucifero vacuo; e fu tanta questa terra, ch’ella soprabondà45 l’acqua del mare e parve fuori del nostro emisperio tanta, quanta ella è; e questo sarebbe cagione, perchè tanto vacuo è nella terra, quanto finge l’autore che sia l’inferno che poeticamente à descritto; et ancora ricorse suso nell’altro emisperio, a fare l’isola e ’l monte del purgatorio, sopra lo quale finge essere il paradiso delitiarum. E fìnge l’autore questo, per fare verisimile la sua poesia; et in segno ch’egli fingesse, notantemente dice nel testo: e forse, Quella che par di là; cioè la superfìcie della terra, che si vede fuor dell’acqua dal nostro emisperio, e su ricorse; cioè e quella terra che ricorse nell’altro emisperio, che fa l’isola e il monte del purgatorio forse, per fuggire lo Lucifero, lasciò qui il luogo voto. E ben s’intende dell’altro emisperio, notando lo luogo ove finge l’autore [p. 863 modifica]che fosse Virgilio, quando disse le predette parole; et ancora in quanto dice: Quella che par di là; ove intende del nostro emisperio.

C. XXXIV — v. 127-139. In questi quattro ternari et uno verso l’autore nostro dimostra la sua tornata dell’inferno, descrivendo in prima lo luogo, e poi aggiungendo lo modo del tornare; e dice prima così: Luogo è là giù; cioè di là dal centro, da Belzebub remoto; cioè da Lucifero, che è chiamato Belzebub; cioè lo idio delle mosche: imperò che, quando si facea sacrifizio al primo idolo, per lo sangue le mosche vi correano e montavano addosso all’idolo che si chiama Belo, e Zebub s’interpetra mosca; sì che era detto idio delle mosche. E perchè nell’idoli parlavano li demoni, però piacque all’autore chiamare lo Lucifero Belzebub. Tanto quanto la tomba si distende; questa tomba è il luogo voto, che l’autore finge essere intorno a Lucifero, lo quale è lo nono cerchio che di sopra chiamò pozzo, che era voto infino al fondo quivi, ove à posto i traditori; et in su la ripa d’intorno à posti li giganti fitti nella ghiaccia; e così figura che sia in tondo, voto dall’altro lato del centro, e che ritornando al mondo, elli si scostò da Lucifero et andò alto su per la tomba infino alla superficie dell’altro emisperio. E quindi Virgilio et elli uscirono della concavità della terra, salvi46 per quel cammino oscuro inverso l’altro emisperio tanto, che vennono ad uno buco tondo; unde uscirono, tornando nel mondo, dalla parte dell’altro emisperio, in una isola che finge essere circundata dal mare oceano, nella quale finge essere uno monte; intorno al quale monte finge l’autore il purgatorio essere di grado in grado, come si mosterrà nella seguente cantica, et in cima del monte essere lo paradiso delitiarum. E però descrivendo lo luogo, dice che quel luogo onde andarono è tanto di lunge del Lucifero, quanto era lo giro del pozzo, Che; cioè del quale luogo, non per vista: imperò che non si può vedere per lo buiore che v’è; ma per suono è noto; cioè che si conoscea al suono dell’acqua; ma non perchè si vedesse, D’un ruscelletto: è quello che l’autore à finto di sopra nel canto xiv, che venga del mondo e vada nell’inferno e crei di sè Acheronte e Stige e Flegeton, e poi discenda giuso al centro della terra e faccia Cocito, che s’agghiaccia per li venti dell’alie dello Lucifero, et entri nel fondo del pozzo di questo luogo, che l’autore descrive, che; cioè il quale ruscelletto, quivi; cioè in quello fondo, discende; venendo di su dal mondo, e dalli altri fiumi infernali ch’elli crea, Per la buca d’un sasso, ch’egli à roso: ora pone lo luogo, onde questo roscelletto entra nel pozzo al centro della terra, Col corso che lì; cioè quivi, a quel sasso, avvolge; questo ruscelletto che descende, girandosi per li giri e cerchi dell’infer[p. 864 modifica]no, e quando a traverso come detto fu di sopra; ma quivi girava intorno al pozzo alquanto, e poco pende; che non cadeva quivi molto da alto. Lo Duca et io; cioè Virgilio et io Dante, per quel camino ascoso; cioè occulto per le tenebre che vi sono, Entrammo; per montare suso, come in fino al centro eravamo scesi, a ritornar nel chiaro mondo; cioè dall’altro emisperio pigliamo la via, che ci rimenava al chiaro mondo; e questo dice per rispetto delle tenebre, che finge che fossono quivi; E sanza cura aver d’alcun riposo; questo dice, per mostrare che la tornata fu sanza punto posarsi, Salimo suso, el; cioè egli, primo et io secondo; cioè Dante; e dice salimmo, per mostrare che, come erano scesi entrando nell’inferno; così ora salivano uscendone fuor, Tanto; cioè salimo, che noi venimmo al sommo, ch’io viddi; dice Dante, delle cose belle; cioè delle stelle, Che porta il Ciel, per un pertugio tondo; e per questo mostra che uno di’ e parte d’una notte penasse a salire et uscire fuori dell’inferno, dal centro infino alla superficie della terra che è nell’altro emisperio; nel quale uscito trovò la notte, e di là dal centro trovò lo sole già a mezza terza; sicchè come una notte et uno di’ era stato di qua dal centro nel nostro emisperio discendendo; così di là dal centro nell’altro emisperio stette un di’ e gran parte della notte, montando su alla superficie della terra dell’altro emisperio: imperò che dice che vide delle stelle, sicchè non era ancora finita la notte; ma appariva l’aurora, come si mosterrà nella seguente cantica. E quindi; cioè per quel pertugio tondo, uscimo; cioè Virgilio et io Dante nell’altro emisperio, ove non era ancora finita la notte che v’era incominciata, poi che passò il di’ incominciato, quando passò lo centro della terra; ma bene era presso al fine la notte, a riveder le stelle; le quali non aveano vedute mentre ch’erano stati nell’inferno. E qui finisce lo xxxiv canto e la prima cantica. Deo gratias, amen. Compiuto nelli anni del nostro Signore Gesù Cristo mccccvii47 nel xv di’ d’Aprili.


FINE DEL TOMO PRIMO.

Note

  1. C. M. li loro mestieri, signori
  2. C. M. come vi trovò lo Lucifero e descrivelo; nella seconda parte pone come passò
  3. C. M. La prima, che serà la prima lezione, si divide
  4. C. M. quanto a la scura vista, quivi:
  5. C. M. stava a giacere, e quale stava levata
  6. C. M. la bava e lo pianto, e
  7. C. M. gira; tira di quinci la similitudine
  8. Altr. — inarcocchiato
  9. C. M. riverte,
  10. C. M. pur riverte però, Quella
  11. C. M. arrichisce,
  12. Altrim. — si convenga proporzionalmente e secondo la dimensione de’ corpi a sì fatta parte, come erano le braccia sue; o vogliamo
  13. C. M. benchè la proferisca
  14. C. M. ab aquilone,
  15. C. M. peccati speziali; cioè
  16. Altrim. — a consumare lo bene,
  17. Altrim. — a crescere lo male,
  18. C. M. dalle due, venia un vento;
  19. C. M. che abbia tre menti,
  20. C. M. a denotar che
  21. Quel grande filosofo che fu il Gioberti, rammentando questi versi, riflette che «Dante dando a Lucifero tre facce, l’una rossa, l’altra gialliccia e l’altra nera, pare alludere alle tre stirpi degeneri della nostra specie, e recare al principio del male la divisione del genere umano» E.
  22. C. M. che chiama pianto,
  23. C. M. la bava era sanguinosa.
  24. C. M. compiuto quel primo cammino, dicendo
  25. C. M. che li facea
  26. Qui sembra che il Poeta abbia confuso C. Cassio con L. Cassio, il primo de’ quali, anzi che pingue, era macilento, secondo la testimonianza di Plutarco. E.
  27. C. M. appare nel canto vigesimo: Lo giorno
  28. C. M. fummo all’ancone della coscia, Virgilio
  29. C. M. discendea per lo buco d’un sasso ch’avea forato quel rivo che qui discendea; e per quel buco
  30. C. M. Altrim. — afferare, e luogo
  31. C. M. di Lucifero,
  32. C. M. cioè alli anconi dove sia incavicchiata la coscia,
  33. anche; — Altrim. — giù dice Dante
  34. C. M. Virgilio et io con lui,
  35. C. M. passo
  36. Erro; errore è voce antica e odesi tuttora nel contado in Toscana. Fr. Baldovini cantò «S’i’ non piglio erro, o mal non m’arricordo». E.
  37. C. M. spera del mondo,
  38. C. M. lo vermo rode, corrompe e
  39. C. M. riezza,
  40. C. M. e ruinasse nel centro,
  41. C. M. cuopre la terra che appare sopra ’l mare la quarta parte, Coverchia;
  42. C. M. bene perdonandoli sì
  43. C. M. per lo suo cadimento, Da questa parte;
  44. 44,0 44,1 Altrim. — precipitato
  45. C. M. soprabondò
  46. C. M. della terra, saliti per quel cammino
  47. Questa data forse accenna l’anno in che fu copiato il Commento del nostro Codice Riccardiano 1006, perchè il Chiosatore era già morto nell’anno innanzi. E.
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