Falaride primo

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Luciano di Samosata Antichità 1862 Luigi Settembrini Indice:Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini - Tomo 2.djvu racconti Letteratura Falaride primo Intestazione 7 maggio 2023 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini


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XXIX.

FALARIDE PRIMO.



Noi siamo inviati, o Delfi, da Falaride signor nostro a presentare questo toro al dio, ed a dichiarare a voi alcune cose intorno a lui ed a questa offerta. Della nostra venuta questa è la cagione; e le cose che egli vi manda a dire son queste.

Io, dic’egli, Delfi, più di ogni altra cosa al mondo vorrei essere tenuto da tutti i Greci quale io sono, e non quale i miei nemici ed invidiosi mi rappresentano a chi non mi conosce; specialmente da voi che siete uomini santi, sempre vicini ad Apollo, e quasi abitate nel tempio col dio. Perocchè io credo che se mi giustificherò con voi, e vi persuaderò che a torto son creduto crudele, sarò per mezzo vostro con tutti gli altri giustificato. E chiamo a testimone di quello che io dirò lo stesso Iddio, che non si fa ingannare ed aggirar con bugie: gli uomini forse è facile gabbarli; ma ad un dio, e specialmente a questo, è impossibile nasconderli. Io che non ero del popolazzo d’Agrigento, ma, quanto un altro, ben nato, e liberamente educato, ed ammaestrato nelle scienze, sempre m’ingegnavo di mostrarmi popolare, e coi miei cittadini modesto e benigno: soperchieria, o sgarbo, o ingiuria, o capriccio non si può affatto appuntare a quella mia prima vita. Ma come vidi che i cittadini della parte contraria (la città nostra allora era divisa in parti) m’invidiavano, e cercavano ad ogni modo distruggermi, trovai un solo scampo e sicurezza per me, che fu anche salvezza per la città, pigliarmi la signoria, e così reprimere le insidie di costoro, e costringere tutti a far senno. Avevo dalla parte mia parecchi uomini moderati ed amanti della patria, i quali conoscevano il mio disegno e la necessità dell’impresa: e con l’aiuto di questi l’impresa [p. 144 modifica]facilmente mi riuscì. D’allora in poi non fecero più tumulti, ma obbedivano: io reggevo, e la città era senza parti. Uccisioni, bandi, confische io non ne feci: neppure contro quelli che m’avevano voluto ammazzare, benchè sieno necessarie queste cose, massime nel principiar signoria. Con l’umanità, con la dolcezza, col mostrarmi civile con tutti, speravo mirabilmente di condurli ad ubbidire. Subito mi rappattumai e riconciliai coi miei nemici, e presi molti di loro a consiglieri e compagni. Vedendo la città scaduta per negligenza dei magistrati, molti dei quali rubavano anzi sperperavano il comune, rifeci aquedotti, rizzai begli edifizi, afforzai la cerchia delle mura; le pubbliche entrate, dandole in mano ad onesti riscotitori, accrebbi di molto; educavo i giovani, provvedevo ai vecchi; al popolo davo spettacoli, distribuzioni, feste, cuccagna: insultare le donzelle, corrompere i giovani, rapire le donne, mandare sgherri, minacciar da padrone, eran cose abborrite da me anche a udirle. E già m’ero proposto di lasciar la signoria e scaricarmi del potere, e pensavo solamente come farlo con sicurezza; giacchè il governare e fare tutto m’era divenuto grave, e parevami una fatica che mi procacciava invidia: sicchè cercavo di ordinare le cose in modo che la città non dovesse avere più bisogno di siffatta medicina. Mentre io nella mia semplicità pensavo a questo, essi cospiravano contro di me, speculavano un modo per cogliermi e ribellarsi, univano congiurati, raccoglievano armi, provvedevano danari, aizzavano le città vicine, inviavano messi in Grecia ai Lacedemoni ed agli Ateniesi. Quello che avevan decretato di me, se m’avessero preso, le minacce che facevano di squartarmi con le loro mani, e i tormenti che volevano darmi, li confessarono essi stessi pubblicamente sotto la tortura. Che io scampai fu volontà degl’Iddii, i quali mi scopersero quest’insidia, e specialmente d’Apollo che mi avverti con alcuni sogni, e mi mandò chi mi riferiva ogni cosa. Ora io vi domando che voi, Delfi, vi mettiate nel caso mio, e mi consigliate che dovevo allora io fare, quando per mia dabbenaggine quasi colto al laccio, cercavo una salvezza in quel frangente? Col pensiero venite un po’ meco in Agrigento, e veduti i loro preparativi, e udite le loro minacce, ditemi, che debbo io fare? [p. 145 modifica]Usare ancora bontà con loro, e perdonare, e sopportare, mentre mi sovrasta l’ultimo esterminio? anzi presentar nuda la gola, e vedermi innanzi agli occhi uccidere i miei più cari? o pure questa essere cosa da sciocco; e un uomo che si sente uomo ed offeso doverci pigliare un partito forte e prudente, e prevenirli, ed assicurarmi per l’avvenire? Questo, credo io, voi mi consiglierete. Ed io che feci dipoi? Chiamai i colpevoli, li feci parlare, mostrai loro le pruove, li convinsi chiaramente di ogni cosa, e perchè neppure seppero negare, li punii, con un poco di sdegno di più, non perchè mi avevano insidiato, ma perchè non potevo più per cagion loro rimanere in quel mio primo proposito. Da allora in poi sto sempre in guardia, e quanti seguitano a tendermi insidie li punisco. Gli uomini mi biasimano di crudeltà, non pensando quale delle due parti è stata la prima origine di tutto questo; scordano ciò che è stato prima, levano via la cagion della pena, e biasimano la pena, che par loro crudele. Fanno come se uno vedendo tra voi un ladro precipitato dalla rupe, non pensando a ciò che costui fece, come di notte entrò nel tempio, rubò i voti, e contaminò il simulacro, vi accusasse di troppa ferocità, che voi essendo Greci ed in fama di santi, sofferite che un Greco, vicino al tempio (che non lungi dalla città dicono stia la rupe) sia menato a siffatta pena. Ma credo che voi vi ridereste di chi vi dicesse questo, e tutti gli altri loderanno la vostra crudeltà contro un empio. Insomma i popoli non considerando chi è colui che li regge, se giusto o ingiusto, abborriscono proprio il nome della tirannide; ed il tiranno, sia anche un Eaco, un Minosse, un Radamanto, cercano ad ogni modo distruggere: avendo sempre innanzi agli occhi i tiranni cattivi, i buoni, perchè hanno lo stesso nome, te li mettono nello stesso fascio, e li odiano dello stesso odio. Eppure io ho udito che fra voi altri Greci molti tiranni sono stati sapienti, i quali sotto un nome che pare si brutto mostrarono un’indole buona e placida; e che certi brevi detti di alcuni di essi stanno scritti e riposti nel vostro tempio, come offerte e voti ad Apollo. Vedete come anche i legislatori badano moltissimo alla sembianza della pena, perchè nessun’altra cosa giova, se non c’è il timore e l’aspettazion del castigo. Questo è molto più [p. 146 modifica]necessario a noi altri tiranni che comandiamo per forza, e viviamo tra nemici ed insidiatori, coi quali non giovano spauracchi, ma si ha a fare come con l’idra della favola. Che quanto più scavezziamo, tanto più rinascono occasioni di punire. Ci bisogna pazienza: la rinasce, e tu tagli, e bruci, come faceva Jole, se tu vuoi regnare. Chi una volta si è messo su questa via per necessità, deve batterla; o se perdona, muore. Infine qual uomo credete voi sì feroce ed inumano che si piaccia di udire gli altri essere flagellati e lamentarsi, e di vederli uccidere, se non abbia una gran cagione di punire? Quante volte ho pianto mentre alcuni erano flagellati; quante volte sono costretto a deplorare la mia fortuna, mentre io soffro una pena maggiore e più lunga della loro! Ad un uomo che per natura è buono, e per necessità è crudele, è più duro il punire che l’essere punito. Ma a dirvela schietta, se uno mi proponesse quale delle due cose io voglio, punire altri ingiustamente, o morire io, oh sappiate che io non indugerei a scegliere piuttosto morire che punire chi non ha peccato. Ma se uno dicesse: Vuoi, Falaride, morire tu ingiustamente, o punire giustamente i tuoi insidiatori? vorrei essi. Consigliatemi voi, o Delfi, anche su questo punto: quale è meglio morire ingiustamente, salvare ingiustamente chi t’insidia? Non credo ci sia uomo tanto sciocco che non iscelga piuttosto vivere, che per salvare i suoi nemici morire. Eppure quanti di quei miei insidiatori, e chiariti rei, io salvai, come questo Acanto, e Timocrate, e Leogora costui fratello, ricordandomi dell’antica amicizia che ebbi con essi? Ma quando volete conoscere il fatto mio, dimandate i forestieri che mi capitano in Agrigento, chi sono io verso di loro, se tratto con benignità quanti ci arrivano. Ho vedette nei porti per esplorare chi sono e donde approdano, acciocchè io possa convenevolmente onorarli e rimandarli. Alcuni ancora vengono a posta da me, e sono sapientissimi Greci, e non fuggono il conversare con me: come poco fa ci venne Pitagora, che aveva di me un’opinione contraria, ma poi che vide e toccò con mano i fatti, se ne parti lodando la mia giustizia, e commiserando la necessaria crudeltà. E credete voi che un uomo benigno con gli strani, sia così oltraggioso verso i suoi, se non è stato soverchiamente [p. 147 modifica]oltraggiato? Queste cose vi dicevo per mia giustificazione, che sono vere e giuste, e più degne di lode, come io mi persuado, che di biasimo.

Intorno poi all’offerta, udite ora come son divenuto padrone di questo toro, che io non commessi io allo scultore: non sarei stato si pazzo da aver capriccio di un tale acquisto. Era nel nostro paese un Perilao, buon artefice, ma cattivo uomo, il quale ingannatosi assai nel giudicare dell’animo mio, credè farmi cosa grata ad escogitare una nuova pena, come se io non desiderassi altro che punire. Ed avendo fatto questo toro, me lo portò, bellissimo a vedere, e naturalissimo, che gli mancava solo il moto ed il muggito per parer vivo. A vederlo, io subito esclamai: L’è cosa degna d’Apollo: il toro si dee mandare ad Apollo. E Perilao che mi era presente, disse: Vuoi conoscere ancora la virtù che è in esso, e l’uso cui può servire? Ed aprendo il toro presso al dorso, soggiunse: Se vuoi punire qualcuno, mettilo in questa macchina, e chiudila, poi farai adattare questi flauti così alle narici del toro, e sotto esso accendere fuoco: quegli dentro piangerà e griderà per lo strazio immenso che ei sente, e il suo grido uscendo per i flauti ti farà un suono armonioso, sonerà la sua nenia, muggirà flebilmente: sicchè mentre quegli è punito, tu sei dilettato dal suono dei flauti. A udire questo ebbi orrore del malvagio disegno di quell’uomo, detestai quella sua macchina scelleratamente ingegnosa, e gli diedi il castigo che si meritava. Via su, dissi, Perilao, se la tua promessa non è vana, mostraci la pruova dell’arte tua, entravi tu stesso, ed imita la voce de’ tormentati, acciocchè vediamo se pei flauti esce quel suono che tu dici. Ubbidisce Perilao, e come egli è dentro, io lo fo chiudere, e mettervi fuoco sotto, dicendo: Ricevi il degno premio della tua mirabile arte; tu hai inventata questa musica, e tu primo la sonerai. E se lo meritò quell’ingegnoso ribaldo. Lo feci cavare ancor vivo e boccheggiante, acciocchè non contaminasse l’opera morendovi dentro, e comandai che senza seppellirlo lo precipitassero da una rupe. Purificato il toro, l’ho mandato a voi per offerirlo al dio, e vi ho fatto scolpire tutto il racconto del fatto, il nome mio che l’ho offerto e dell’artefice Perilao, la sua invenzione, la mia giustizia, la [p. 148 modifica]pena adatta, il canto dell’ingegnoso fabbro, la prima pruova della musica. Voi, o Delfi, farete una cosa giusta se coi miei legati farete un sacrifizio per me, ed allogherete il toro in un bel luogo nel tempio, acciocchè tutti veggano chi sono io verso i malvagi, e come punisco la loro soverchia diligenza al male. Questo solo basta a mostrar l’animo mio: Perilao punito, il toro offerto, non serbato per tormentare altri, non avendo muggito che dei soli muggiti del fabbro: in lui solo feci la pruova dell’arte, e non volli che si udisse mai più quel brutto e feroce suono. Ed ora questa è l’offerta che io presento al dio: gliene farò altre spesso, se mi concederà di non dover più punire.

Queste cose, o Delfi, vi manda a dire Falaride, tutte vere, e appunto come avvennero. Noi crediamo di meritar fede da voi, perchè siamo testimoni di cose che conosciamo, ed ora non abbiamo alcuna cagione di mentire. E se anche è necessario pregarvi per un uomo a torto tenuto malvagio e costretto contro sua voglia a punire, vi preghiamo noi Agrigentini, che siam Greci e per antica origine Doriesi, di accogliere l’amicizia di quest’uomo che vuole esservi amico, ed ha in animo di fare molto bene alla città vostra ed a ciascuno di voi in particolare. Accettate adunque il toro, e sagratelo, e pregate per Agrigento e per esso Falaride: non ci fate partire senza questa grazia, non fate a lui questa offesa, non private il Dio di un dono che è un capolavoro d’arte e un monumento di giustizia.