Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri/Libro II/I

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Libro II - Cap. I

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Libro II Libro II - II
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CAPITOLO PRIMO.

Si notano le cose più ragguardevoli vedute

nell’isole di Rodi, Stanchio, Scio, e Città

di Smirne.


E
Ssendo già pronta la barca, vi montai il Sabato 10. di Ottob. per girne a Bichier. Vi giunsi verso mezzogiorno, e diedi la lettera di raccomandazione all’Agà del Castello, il quale parlò al Rais della londra per lo mio imbarco. Indi convenuto del nolo, feci prestamente porre le mie valige su la nave, che già era alla vela; siccome in fatti di là a due ore cominciò a far cammino, con prospero vento, che durò tutta la notte. Io la passai mezzanamente bene, perche le londre han la poppa, corsia, banchi lunghi, ed alberi come la galea; portando di più un’altro picciol’albero, e vela.

Continuò il buon vento Domenica 11. sino a mezzo dì; ma dopo cominciò a [p. 185 modifica]soffiar sì forte, e contrario, che obbligò il timido Rais, e marinari a ritornare in dietro. Giugnemmo per tanto di nuovo il Lunedì 12. nel porto d’Alessandria, due ore dopo mezzo dì, e posto piede a terra andai a fare il mio dovere con Mr. Tamborin, il quale non permise per alcuna fatta maniera, che tornassi alla nave, ed obbligommi a restare in sua casa; dove, finche durò la tavola, egli, e tutti i Francesi della compagnia, replicarono sempre i saluti per lo mio buon viaggio.

Ci ponemmo di bel nuovo in cammino il Martedì 13. con buon vento, ma dopo 40. miglia il Rais più abile a varcar fiumi, che Mari, sorpreso da vano timore, girò la prora un’altra volta verso Alessandria; in tempo che il Mare non era molto turbato, nè il vento gagliardo. Conoscendo poscia l’errore, riprese il suo cammino; ma non eravamo ancora inoltrati poche miglia, che offuscato l’intelletto dalla timidezza, ed ignoranza, ridicolosamente per la terza volta voltò la prora, e venne a pigliar porto il Mercordì 14. in Bichier. Io frattanto sentiva morirmi di dispetto, vedendomi per sì fatta balordaggine impedire il viaggio; ed avria dato volentieri qualsivoglia [p. 186 modifica]danajo, per avere imbarco su qualche nave di Cristiani, per tormi di mano a quella canaglia.

Si mosse il Giovedì 15. una gran tempesta di Mare, e di Terra, che peggiore in Italia nel mese di Decembre non avria potuto vedersi. Fece una buona pioggia Venerdì 16. onde s’ingannano fortemente coloro, i quali stimano, che in tutto l’Egitto, sia sempre il Ciel sereno ne’ tempi d’inverno; perche gli antichi, che ciò scrissero, intesero solamente dell’Egitto superiore, non già dell’inferiore.

Sabato 17. calai a terra, per divertirmi dalla malinconia dì vedermi fra Turchi, e Greci, senza potermi fare intendere. Ritornando la sera in nave, per non esservi in terra osterie, portai meco per tutta provvisione alcune uova; non trovandosi altro a comprare, perla miseria del paese.

Cominciò a rimettersi un poco il vento Domenica 18. Il Lunedì 19. cadde un’altra gran pioggia, che continuò il Martedì 20. di maniera, che serenossi affatto il Mare. Attesero i marinari il Mercordì 21. ad asciugar le vele, e prepararsi alla partenza: e in fine il Giovedì 22. uscì dalla tana il coniglio del Rais, [p. 187 modifica]animato da altre saiche, e londre, che spiegate le vele gli additavano, ch’era sicuro il cammino, e gli rinfacciavano la sua viltà. Il vento fu così forte, e favorevole, anche il Venerdì 25. che la nostra londra armata di molte vele, lasciò indietro tre saiche; e’l Sabato 24. prima di mezzo dì approdammo felicemente nel porto di Rodi, avendo fatte in 47. ore 500. miglia.

La Città di Rodi, Rhodos, o Rode, altre volte una delle più fiorite dell’Asia, è situata a 36. gradi dì latitudine. Ella si mantenne lungo tempo da Repubblica, facendosi stimare sì fattamente per Mare, ed in sì grande riputazione essendo nelle cose marinaresche; che l’Imperadore Antonino Pio non si ritenne di comandare, si dasse fine alle pretensioni I. deprecatio, D. ad I. Rhodiam de jactu. d’un tal Eudemone, giusta le leggi de’ Rodiotti. Ma essendo questa Città passata dopo sotto varj Principi, fu ceduta in fine dall’Imperador Manuele di Costantinopoli a’ Cavalieri Ospitalieri di S. Giovanni ch’ erano stati scacciati da Terra santa. Impadronitene 1 Cavalieri vi si fortificarono, e la difesero gloriosamente Maillet descrip. de l’Univers to. 2. pag. 151. nel 1444. dal Sultano d’Egitto. Nel 1480. sotto l’Imperio di Mahomet II. [p. 188 modifica]sostennero un’assedio di tre mesi, mercè il valore, e governo del Gran Maestro Aubusson; ma poi nel 1522. dopo una valorosissima resistenza, fatta pur dal Gran Maestro Adam, cadde l’Isola nelle mani di Solimano II.

Il sito di questa Città è della parte Orientale dell’Isola, parte sul piano, e parte sul colle. Ha tre miglia di circuito: le sue strade sono larghe, e diritte, lastricate di buone pietre; e nel mezzo della più grande, è una fila di marmi bianchi dall’uno estremo all’altro. In questa strada si veggono gli Alberghi, o alloggiamenti de’ Cavalieri di San Giovanni, e’l palagio del Gran Maestro. Le fabbriche sono all’Italiana, di pietra di taglio, più forte dei tufo di Napoli: le piazze, o Bazar sono provvedute di tutto quello, che produce il paese, e luoghi convicini di Terraferma, a buonissimo prezzo. Dagli edificj, si scorge chiaramente, essere stata in potere de’ Cristiani; non essendo punto diminuita la loro magnificenza per la dapocaggine de’ Maomettani, i quali non hanno tolte le memorie antiche; anzi si veggono da per tutto le armi della Religione Gerosolimitana, anche nell’artiglieria. [p. 189 modifica]

Dopo aver sentita una Messa Greca la Domenica 25. andai vedendo la Città, la quale è in fatti una buona Fortezza; poiche oltre essere, per tutto il suo circuito, provveduta di buoni cannoni, tiene tre ordini di mura, e due fossi; e dalla parte del Cartello tre. Le porte dalla parte di Terra sono cinque; però tre serrate, e due aperte, guardate da più ritirate, e ponti levatoj: e dalla parte di Mare ne sono due altre. Ella si è abitata da’ Turchi, e Giudei; poiche tutti i Cristiani Greci (che fanno il maggior numero) vivono ne’ borghi, e casini di campagna, vicino alla medesima; che fanno una vaga prospettiva fra’l verde de’ giardini, e delle vigne. I Turchi gli scacciano tutti fuori della Città nel Venerdì, per fare le loro preghiere a mezzo giorno, con le porte serrate; gastigando severamente coloro, che prontamente non escono fuori, toccato il segno.

Andai il Lunedì 26. a vedere il palagio del Gran Maestro (situato nel più alto del colle) che oggidì serve di carcere, ed abitazione a due Kam della picciola Tartaria deposti, per gelosia politica ivi tenuti in perpetua prigione dall’Ottomano; acciò se l’altro, che governa [p. 190 modifica]non si porta fedelmente, possa riporre il carcerato nel Trono, per fargli succedere il Dominante nella prigione. Entrato nel medesimo, nulla vidi di curioso, fuor che una gran fabbrica, che i Turchi lasciano andare in rovina, senza curar del riparo. La Chiesa di S. Giovanni contigua al suddetto palagio, oggi è la Moschea principale.

Si è detto di sopra, che la Città è cinta da tre muraglie, e tre fossi: ora dirò, che tiene altrettanti porti, per custodia delle sue navi, e galee. Quello, che serve alle navi, è guardato dal Bastione di S. Ermo, munito di 10. pezzi d’artiglieria, che parimente serve di fanale. L’altro contiguo, lo difendono, a sinistra un Torrione con otto piccioli pezzi; e a destra il Forte incantato, o del Moro, con 28. cannoni; però gli otto soli, che sono a fior d’acqua, portano palla grande. In uno può quasi entrare una persona; sopra il quale lessi, presso le Armi della Religione, queste parole: Opus Francisci Mantuani A. D. 1486.

Mi riferirono, che nel tempo, che su espugnata la Città, si trovarono tre pezzi di smisurata, e maravigliosa grandezza, i quali tiravano palle di pietre, che [p. 191 modifica]appena due uomini potevano abbracciarle; onde furono poi trasportati in Costantinopoli. Il Forte riferito è quadrato, con quattro picciole Torri negli angoli, e un’ottangolo nel mezzo: opra tutta della Religione. Dalla medesima all’opposto bastione, si tira una catena, per serrare il porto, il quale è poco sicuro; giacchè in tempo mio vi si perdè l’Almirante d’Algieri, e poco prima del mio arrivo un vascello, ed una saica.

Da questo porto si va nell’altro interiore, il quale è come una Darsena, e serve per legni piccioli. Egli ha due bocche, una nel mezzo, e l’altra vicino al Forte suddetto, dal quale sino alla Città è serrato di fabbrica.

In questo secondo porto su già il tanto rinomato Colosso di bronzo Atl. p. 3. descript. de Terrasanta., posto in piedi da Charete, della Città di Lyndo, (discepolo del famoso statuario Lisippo,) il quale, nello spazio di dodeci anni Plin. lib. 34. ch. 7. p. 602., lo condusse a termine, colla spesa di trecento talenti Maillet descript. de l’Univer. to. 2. pag. 286.. L’altezza era di settanta cubiti, nè v’era persona, che potesse abbracciare il suo pollice; essendo ogni dito quanto la più grande dell’antiche statue Marmot. del Afrique to. I. lin. 2. pag. 141.: di sorte che lo spazio fra le due gambe, serviva di passaggio a’ vascelli, che ivi [p. 192 modifica]venivano a dar fondo. Egli teneva in mano un vaso, nel quale allumavano molto fuoco, per servir di fanale, e scorta alle navi fra le tenebre della notte; ma dopo essere stato in piedi 56. anni, su posto giù da un terremoto; senza che i Rodiani, minacciati dal loro oracolo, avessero ardimento di riporlo in piedi: e così opra tanto maravigliosa restò intera per terra più secoli, sino al 654. che su posto in pezzi. Nel 1135. circa 1460.anni dopo la sua erezione, fu del tutto fracassato da un Capo di Saraceni chiamato Mahavia, che si rese padrone dell’isola; vendendo il metallo a un Giudeo, il quale dopo averlo fatto sbarcare in Natolia, lo fece condurre per terra in Egitto sopra di 900. cammelli.

Il porto delle galee è il migliore di tutti, per la sicurezza, e comodità. Vi erano allora tre galee, essendo l’altre due fuori, sotto il comando di Ammaza-mamma lor Generale.

Martedì 27. andai a vedere il Consolo Francese, ch’era un Greco, per fargli sapere il mio arrivo, e liberarmi col suo mezzo da qualche avania, che i Turchi avessero a farmi: non lo trovai in casa, ad ogni modo seppi, che poco [p. 193 modifica]fondamento poteva fare in lui, per esser poco stimato da’ Turchi: oltre che ivi sono coloro meno insolenti co’ Franchi.

Non avendo in che occuparmi, andai Mercordì 28. nel borgo de’ Greci, dove mi trattenni passeggiando in un’ottimo giardino, abbondante di buoni fichi, ed uve; e poi la sera ritornai a dormire nella londra.

Essendomi incontrato il Giovedì 29. col Rais, conobbi, che egli non avea troppo volontà di partirsi così presto di sua casa, trattenuto dagli abbracciamenti d’una bella Turca sua moglie. Si cuoprono le donne di Rodi, con un moccichino la fronte, e con un’altro il mento sino al naso, per modestia.

Venerdì 30. per esser il giorno delle preghiere, m’incamminai al palagio, per la strada de’ Cavalieri; aspettando sotto il Seggio, per vedere il mentovato Kam, che dovea passare nella Moschea. Alla fine comparve con un seguito di venti persone, vestite alla Tartara: egli si era di giusta statura, ed offeso solamente un poco nell’occhio destro.

L’isola di Rodi, detta anticamente Ofiusa, Asteria, Etrea, e in altre varie maniere, è lunga 140. m. Italiane. Il suo Cielo è [p. 194 modifica]temperato, ed ameno; il terreno abbondante di frutta, e vini: e sebbene non produce grano sufficiente, n’è però provveduta abbastanza dalla Natolia, lontana 20. miglia dalla banda di Settentrione. Teneva altre volte più Città, le quali oggidì si veggono ridotte in Casali; come sono Filervo, Lindo (patria dal famoso statuario, di cui è detto di sopra) Vasilica, Catavia, ed altri, abitati da miserabili Greci, da Giudei, e Turchi.

Per le continue istanze fatte al Rais della londra, si ridusse questi alla fine a lasciar la sua bella, e far vela il Sabato ultimo di Ottobre; però appena fatte due miglia fece ritorno, intenerito forse dalla ricordanza di lei. Per altro questa canaglia dì Turchi, e Greci s’intimoriscono, vedendo rinforzarsi il vento, ed operano con tanta confusione, e grida, che non sanno eglino medesimi quel, che si debban fare; di modo che dieci Cristiani, in una navigazion, servono più che 50. Turchi. Domenica 1. Novembre andai nella Chiesa de’ Padri Greci a far le mie divozioni; come anche il Lunedì 2. per la commemorazione de’ morti. Entrò nel porto Martedì 3. una saica, con una compagnia di soldati, per [p. 195 modifica]passare in Costantinopoli.

Essendo stato il Mercordì 4. a desinare in un giardino fuori nel borgo; nel ritorno una Turca mi faceva segno, che entrassi in sua casa; e camminando io senza farne conto, mi chiamava ad alta voce: però io temendo della pena rigorosa d’essere impalato, se fussi colto in tal fatto, e più del divieto di nostra Religione, me ne passai oltre pel’ fatto mio. Venne un Siciliano il Giovedì 5. ad avvisarmi, che i Turchi aveano sospetto di me, e che perciò stassi attento, che non mi facessero schiavo; non dandosi in quel paese luogo alla ragione, facendosi con sognati pretesti i Franchi schiavi: siccome era avvenuto l’anno passato a quattro Francesi, i quali s’erano partiti di Napoli di Romania, nel medesimo tempo, che l’armata andava all’assedio di Canea; e furono fatti schiavi in Rodi, col pretesto di essere spioni, e corsali. Questa novità mi pose in grande apprensione; tanto più che avea trascurato di proccurar passaporto dal Consolo Francese; avendo veduto, che per Terra santa avea camminato con ogni sicurezza, senz’esser richiesto da’ Maomettani.

Essendo le preghiere il Venerdì 6. e non badando al solito segno, tardi [p. 196 modifica]m’avvidi, ch’erano serrate le porte: e non potendo uscir fuori, mi nascosi, per timore, dentro un Torrione; dove s’era trovato da’ Turchi, senza dubbio saria stato preso, e carcerato per spione. Vedendomi adunque fra tanti perigli, andai il Sabato 7. trovando qualche altro imbarco, per esser presto fuor di Rodi; ma per mia Sventura non ve n’era niuno.

Domenica 8. per l’obbligo di buon Cattolico, andai a sentir Messa nella Chiesa medesima de’ PP. Greci, fuori il borgo, permettendomelo il Superiore. Giunse nel porto il Lunedì 9. una tartana Francese, venuta da Marseglia, per lo che molto mi rallegrai: ma il Padrone mi disse, che dovea passare in Cipro; e così perduta questa speranza, rimasi nella prima malinconia. Ne approdò un’altra, Martedì 10. che conduceva quattro mercanti Francesi da Seyde a Smirne; onde non perdendo punto di tempo, andai a parlar loro (per esser la tartana in tutto tolta in affitto da essi); ed eglino, con la cortesia propria di loro nazione, mi offersero il passaggio: incaricandomi, che subito facessi condurre le mie robe, e andassi a dormire altresì sulla nave, perche stava in pericolo di esser tatto schiavo da’ Turchi; per [p. 197 modifica]quanto loro avea detto Capitan Sanson, rinegato di Marseglia, e Vice-Ammiraglio del vascello Algerino perduto nel porto. Accettai l’offerta co’ dovuti ringraziamenti, e passai l’istessa sera a dormire nella tartana; tirando le mie valige dalla londra, con pagare al Rais l’intero prezzo convenuto.

Adunque dopo sì lunga dimora, partii Mercordì 11. verso ora di mezzo giorno. Venivano nella medesima tartana, oltre i quattro mercanti Francesi, sette Turchi, e l’Agà di Seyde, i quali aveano lasciata la nave Turchesca per la timidità del Padrone. Quel che più io notava in quei barbari, si era l’aver essi deposta quella stolida fierezza, e superbia, ch’esercitano ne’ loro navigli, dove vanno mendicando le occasioni per maltrattare, e nuocere a un Cristiano: ed erami di gran piacere vedergli nella nostra tartana, come tanti mansueti agnelli; non arrischiandosi di far le loro preghiere in pubblico, per non esporsi ad essere scherniti. Passammo a fine di 20. miglia per l’isola di Scimo, e a capo di 30. per Piscopi, Calce, e Nissaro, Isole abitate da’ Greci, e nidi di Corsali. Non potemmo passare il Giovedì 12. [p. 198 modifica]il Capo Creo, perche avevamo il vento per prora: quale continuando il Venerdì 12. e sopraggiungendo poi calma; a forza di bordeggiare, giugnemmo con tre ore di giorno, in Stanchio, Isola distante cento miglia da Rodi; costeggiando sempre la Terra ferma di Natolia.

Stanchio, Stanco, Stingo, e Stancu; o pure, secondo la lingua degli antichi, Meropis, e Cos, è un’Isola di figura bislunga, che da Oriente riguarda la Natolia, dalla quale è separata per un canale di sei miglia. Ella è famosa per aver dato al Mondo il celebre Apelle, e l’insigne Medico Ippocrate; che si narra essere divenuto sì dotto, dal leggere le tante tabelle, che portavansi nei Tempio d’Esculapio, ch’era nell’isola; imperciocchè tutti coloro, che si guarivano da qualche infermità, erano obbligati di porre in iscritto, dentro il Tempio, i rimedj, con cui s’erano guariti. Avendo posto piede a terra, per vedere un prodigioso albero, ed insieme la Città; osservai, ch’ella è situata presso al Mare, su d’una collina; e difesa da buone mura, con fosso profondo, ov’entra il Mare; e da un castello altresì ben fornito di artiglieria. Non ha porto, ma una spiaggia [p. 199 modifica]aperta serve di ricovero alle navi. Le abitazioni sono basse, ma di pietra; v’è bensì un superbo edificio, che chiamano il palagio d’Ippocrate. Ha di più un borgo ben grande dalla parte di Ponente, in cui, siccome nella Città, abitano anche Turchi, Giudei, e Greci; questi però molto oppressi da’ Maomettani. All’intorno vi sono buoni giardini, e vigne, che producono ottimi vini. L’albero prodigioso è un Platano (da’ Turchi detto Cinar) posto dentro la Città, fra la porta del Castello, e’l Bazar; e certamente, che non ha simile in Europa; poiche ponno star 4.m. uomini sotto i suoi rami, sostenuti da 36. pilieri, o colonnette, sotto le quali sono due fontane, e molti banchi fissi, per prendere il fresco.

Non partimmo l’istesso giorno, sì per aspettare il V. Ammiraglio Sanson, che s’era rimaso in Città la notte, per alcuni suoi affari; come perche il Bassà volea mandare un suo servidore imbarcato nella nostra tartana.

Sabato 14. verso mezzo dì, facemmo vela, con buon vento; che cessando indi a tre ore, fu di mestieri avanzarci col bordeggiare: ma non potemmo passar la notte l’Isole del Bassà, Carmino, e [p. 200 modifica]Lero, abitate come le altre da’ Greci.

Passammo Domenica 15. a buon’ora per Lipso, Isola disabitata; e poi per San Gio: di Parno (che per lo passato fu posseduta dalla Religione di Malta) Naccaria, Liforni, e Samos; ne i tempi antichi consecrata a Giunone, che quivi ebbe un Tempio; e famosa anche per essere stata patria di Pitagora, del fortunato Policrate, e di una delle Sibille: per tacer di molte altre Isole a destra, e a sinistra, di cui può dirsi seminato l’Arcipelago. Divenuto il vento contrario, ci obbligò di ritornare in dietro, e ricovrarci nello scoglio d’Artivò, dove sono molti porti, con fondo per navi ben grosse; con tutto ciò è disabitato, e solo vi portano i pastori a pascolarvi i loro armenti, con continuo timore di corsali. Poco prima del nostro arrivo se n’erano partiti tre vascelli, dopo la presa d’una saica; lasciando su la riva quantità di legna, delle quali fece provvisione la nostra tartana.

Lunedì 16. durando ancora l’istesso mal tempo, andarono i marinari raccogliendo frutta di mare da’ vicini scogli; ed avendo dato un riccio marino all’Agà di Seyde, quella bestia lo pose al fuoco ad arrostire, come se fusse pesce; e [p. 201 modifica]veramente a gli atti, e alle parole si conoscea ch’era selvaggio; perche portava una barba da negromante, o più tosto da caprone nudrito fra’ bruti nel bosco.

Si fece vela il Martedì 17. tre ore prima di giorno, però con poco vento; sicchè appena passammo a mezzo di la bocca di Soma, e Forni, che s’apre fra le due Isole: rinforzandosi nondimeno sul tardi, corremmo col trinchetto sino a Scio, dove arrivammo la notte, dopo un cammino di 130. m. che si contano da Stanchio a Scio. Venuto il giorno di Mercordì 18. sbarcammo tutti, ed io sui alloggiato da’ PP. Riformati Fracescani.

Il nome di Etalia fu il primo (secondo alcuni) che avesse quest’Isola: poi fu chiamata Scios, o più tosto Scyros da una Ninfa dell’antichità. I Turchi la chiamano Salzizadaci, o Sachezada, che significa Isola del Mastice. Ella si è una delle principali dell’Arcipelago, e di quelle, che fur chiamate Cicladi; avendo dì circuito 80. miglia: riguarda da Settentrione l’Isola di Metelin, da Oriente la Natolia (dalla quale è separata per un canale di tre leghe, che s’appella Stretto di Capo bianco) e da Mezzodì l’isola di Naccaria. Gli [p. 202 modifica]abitatori la dividono in due parti, cioè Aponomoia, o parte superiore, ch’è da Settentrione; e Catamera, o parte inferiore da Mezzodì. Il terreno dell’Isola vicino al Mare è ottimo; quello però più addentro terra, è affatto sterile, essendo quasi tutto nuda pietra; e non serve, che per pascoli di capre. Tra gli abitanti della Metropoli, e di 80. villaggi, se ne contano nell’isola da 100. m. de’ quali 80. m. sono Greci, e’l rimanente Cattolici, Giudei, e Turchi. Consistono le rendite di costoro nel latte, e butiro; ne’ vini, e nella seta, della quale si fa ogn’anno per lo valsente di 120. m. scudi; che si lavora, ed adopera in drappi, ed altro nell’Isola stessa, per dare occupazione alla povera gente.

La Città di Scio (a gradi 38. di latitudine) è di figura bislunga su la riva del Mare, stringendosi verso le montagne, per mancanza di sito. La circondano buone mura, con otto porte; ma la difende un Castello vicino al porto, che quantunque dalla parte di Terra abbia un largo, e profondo fosso, con due ponti, e due porte; le mura nondimeno, sono così deboli, antiche, e nude di fortificazioni, e di artiglieria, che poche ore potrian fare di resistenza. In un’angolo [p. 203 modifica]della Città, verso mezzo giorno, è un’altro Forte; con dieci cannoni; e nel mezzo un’altro, nuovamente fatto su le ruine d’una Chiesa de’ Greci.

Il suo porto è grande, però mal sicuro, col fondo molle, nel quale le ancore non tengono: nel mezzo è il fanale per sicurezza delle navi, che entrano di notte. Sono in questo porto le cinque galee dell’isola, comandate da tanti Bey, a’ quali il Gran Signore dà 12. mila scudi, per lo mantenimento di ciascheduna.

Rispetto alla picciolezza della Città, non è numero da dispregiarsi 40. mila abitanti; la maggior parte de’ quali sono Cristiani, così Latini, come Greci. Quindi vi sono altresì due Vescovi, un Cattolico, che avrà sotto di se 50. Preti, vestiti alla Romana; e l’altro Scismatico. I Turchi, e i Giudei son costretti da’ naturali ad abitar nel Castello. Le case sono di pietra all’uso Italiano, col tetto di figura piramidale coperto d’embrici. Le strade sono strette, ma con selci: e i Bazar, o piazze abbondano del tutto a buon prezzo; perché la vicinanza della Natolia supplisce a quanto manca nell’isola.

Le femmine Cristiane vanno [p. 204 modifica]all’Italiana, fuorche nel portamento della testa: portano però la gonna corta sin’al ginocchio, come le Olandesi, con crespe dalla parte di dietro, a guisa d’una cotta di Prete; ridicola veste in vero, simile a quella che portano le contadine in Ostuni, Città del Regno di Napoli. Le vedove cuoprono il capo con veli rossi; l’altre con bianchi, alzandosi all’intorno della fronte un cerchio, come il frontale francese: cade in dietro per sinistra, un fiocco della cuffia, che cuopre la testa; ciò che giunto a varj fiori, che d’ogni stagione vi pongono, forma in vero una dilettevol vista. Elleno poi sono bianchissime, e belle, molto pronte, e familiari con gli uomini; non ricusando anche le donzelle trattar con domestichezza co’ forestieri; e tutte portano il petto disonestamente scoperto.

Le Chiese principali di Scio sono cinque: il Duomo, quella de’ Padri Gesuiti, Domenicani, Cappuccini, e Riformati; oltre altre picciole dentro, e fuori la Città.

Il mastice, che si raccoglie nell’Isola, è il migliore, che possa aversi; onde il Gran Signore manda ogn’anno persona di sua casa, per assistere alla raccolta, [p. 205 modifica]con espresso divieto di non estrarsene per altra parte, che per Costantinopoli; dove la consumano i servidori, e donne del Serraglio, che ne masticano tutto dì, per rendere i denti bianchi, e’l fiato grato: e perciò i Turchi la chiamano Isola del mastice. Il cottone, che quivi si raccoglie, è anche di qualche rendita a’ naturali; trattenendosi la povera gente a lavorarlo, per guadagnarsi il vitto.

Giovedì 19. vidi, in casa del Consolo Francese, un giovane rinegato Veneziano, di buono aspetto. Costui dopo aver dette tre Messe una mattina in Scio, da Frate Agostiniano si era fatto seguace di Maometto; ma poi pentito del suo errore, pregava il Consolo a dargli modo di fuggirsene in Cristianità. In ciò faceva d*uopo di gran destrezza; perché egli era custodito in casa del Bassà, il quale avvedutosi della sua mutazione, perch? differiva di circoncidersi; l’avea fatto una mattina tagliar per forza: dicendo, che se fuggiva, voleva almeno, che lo vedessero in Italia segnato. La cagione di questa sciagura fu, che menando egli una cattiva vita nella Religione, e volendo perciò gastigarlo il suo Superiore, se ne fuggì in Scio; ricorrendo dal [p. 206 modifica]Vescovo Cattolico, acciò lo facesse perdonare dalla sua Religione: e non potendo ottenere il perdono, alla fine per disperazione si fece Maomettano. D’indi in poi travagliò sempre appresso il Bassà il povero Vescovo, accusandolo falsamente d’intendimento con la Republica di Venezia; ciò che bisognava rimediare con lo sborso di grosse somme. Spero però, che Dio illuminerà questo Religioso, sicchè venga a seguitar l’esemplo di F. Giacomo Laico Calabrese. Costui essendo posto prigione, per qualche grave difetto, dal Superiore di Eriza (picciolo Convento della custodia di Gerusalemme, posto nelle montagne della Soria) se ne fuggì in Barut, e di là passò in Seyde; nè potendo entrarvi a cagion del contagio, restò fuori con altri tre Religiosi del suo Ordine. Non manca va frattanto il Presidente di Seyde di ragionargli, e consolarlo dalle mura con la speranza, ch’avria ottenuta dal Padre Guardiano il perdono della di lui mancanza: ma continuando tuttavia la peste, nè potendo entrare, presero partito di ritirarsi nel mentre in Darbessin. Fra Giacomo, vedendo l’affare andare alla lunga, disperato ormai d’avere più ad esser [p. 207 modifica]perdonato, ritornò in Seyde ne’ principj di Maggio 1693. ed entrato nel Serraglio, dimandò di farsi Maomettano. Fu ricevuto, e circonciso: però passarono appena due mesi, che avvedutosi del passato errore, ricorse ad un P. Cappuccino Francese Superiore dell’istessa Città; dimandando umilmente l’assoluzione, e dicendo con molte lagrime, che abiurava, e detestava per sempre il Maomettismo. Rispose quegli, che bisognava fuggire in Cristianità, e che non poteva assolverlo; perché il pericolo era certo di ricadere nell’istessa dannazione, continuando a vivere fra’ Maomettani. Replicò Fra Giacomo, che egli pubblicamente confessava il suo fallo, e che volentieri morirebbe martire per la la Fede, e Religione. Perseverando sempre in questo santo proposito, e ritornato il giorno di Mercordì dal Padre Superiore suddetto, ebbe l’assoluzione, e ricevè la Comunione Sacramentale. Il giorno seguente cominciò quel buon Religioso ad esortarlo, a fuggirsene sopra qualche vascello Francese; perché non poteva esser sicuro di avere a superare la nostra umana debolezza, ed avere da Dio la grazia dei martirio. No, rispose [p. 208 modifica]Fra Giacomo, voglio morire per la Fede; e mi sento così fermo, che non temo a quest’ora nè anche la morte di fuoco, che sul principio tanto mi spaventava: soggiugnendo, datemi un Crocifisso, che domani vedrete ciò, ch’anderò a fare; fate in tanto pregar per me. Veduto, ch’era fermo nella sua risoluzione, gli diede quegli la seconda volta l’assoluzione, e Comunione.

Il giorno del Venerdì, ch’era la sesta de’ Turchi (portandosi nel petto una Croce) andò Fra Giacomo nel Bazar, dove stava molta gente; e postosi sotto un de’ piedi il turbante, e sotto l’altro la veste verde; con la Croce in mano, cominciò a predicare, e dire: che egli pentito del suo errore, voleva morire per la nostra santa Fede Cattolica; e che la Maomettana era un’inganno, e il loro Profeta un’impostore, e falso, che conduceva l’anime all’Inferno. A tai voci concorse grandissimo popolo, ed essendovi alcuno, che intendeva l’Italiano, corse subitamente a riferire il tutto al Bassà; dal quale fu ordinato, che lo menassero in sua presenza con ogni sorte di maltrattamenti, siccome seguì; rompendo eziandio quei barbari la Croce. [p. 209 modifica]Ivi giunto, gli dimandò quegli, s’era divenuto pazzo, mentre operava in sì fatta guisa. Rispose Fra Giacomo, che egli parlava da sensato; e che pazzo era ben stato, quando aveva abbracciato una legge infame. Dopo di ciò si tenne Tribunale, e da’ Francesi si proccurò, appresso il Cadì, salvargli la vita; o almeno farlo morire d’una morte, che meno lo cruciasse: ed offerendosi quegli di perdonarlo, purché confessasse aver oprato il tutto per pazzia; non volle farlo il buon Religioso, ma con intrepidezza, senza pari attese la morte. Quindi ne’ principi di Luglio, condotto in camicia, e calzoni su la porta del Serraglio; a vista di tutto il popolo, gli diede il carnefice col roverscio della scimitarra, per atterrirlo, e farlo disdire: ma non potendo, nè anche col secondo colpo, rimuoverlo dalla sua costanza; alla fine gli mozzò il capo, ripetendo poscia sul morto corpo più colpi. Il cadavere essendo stato comprato dalla nazione Francese 50. piastre, per sepellirlo; fu posto dentro la calce, acciò se ne prendessero le ossa: però a capo di tre mesi aperto il luogo, si trovò fresco, come era stato sepellito; senza che gli fusse caduto nè anche un [p. 210 modifica]pelo della barba. Questo fatto mi fu riferito da Monsieur Ripera, e da altri tre mercanti Francesi, che ne furono testimonj di veduta: e perché i Cristiani tutti di Oriente ne han fatto gran festa, non ho voluto io lasciare di farne menzione, per darne notizia a coloro, che forse non l’hanno avuta.

Venerdì 20. si mosse una gran burrasca, e tale, che obbligò i vascelli, che erano in porto a porre un’altr’ancora: ciò che durò tutto il Sabato 21. La Domenica 22. andai passeggiando per la Città, in compagnia del figlio del Consolo, e quattro altri Francesi. Mi condussero eglino in un gran cortile serrato, all’intorno del quale erano molte casette, che servivano d’abitazione alle Monache Greche. A dire il vero mi pareva più tosto lupanare, che Monistero; per la libertà, con la quale vivono quelle finte Religiose: potendo a lor bell’agio uscire per la Città; e ricever maschi dentro, ad ogni ora, e tempo, che lor torna in piacere.

Fummo Lunedì 23. con gli stessi in campagna, a vedere gli alberi, che producono il mastice, o Sakes in lingua Turchesca. Eglino sono piccioli, e si [p. 211 modifica]piegano le loro branche sino a terra, rialzandosi poi di bel nuovo in su. Per fare il mastice, danno un taglio in alcune parti dei tronco; donde, dal principio di Maggio sino alla fine di Giugno, distilla quel licore a terra; e perciò proccurano di tenere il luogo ben netto, per poternelo raccorre. Dissero, che si fa nella medesima Isola buona terebintina; però io non ne ho veduto l’albero. Andammo poi tre miglia distante dalla Città, a vedere una rocca presso al Mare, nella quale era tagliata una sedia nel mezzo, ed altre all’intorno: dicono, essere stata la Scuola di Omero; ma io giammai a’ miei dì ho letto, che Omero insegnasse.

Sono sì domestiche le pernici in Scio, che vanno il giorno per la campagna pascolando, e la sera ritornano in casa del padrone, ad un certo fischio, che loro dà: siccome ci ferono vedere in un Casale, per dove passammo nel ritorno. Avea io deliberato di passare da Scio a Costantinopoli, con altro vascello: ma Monsieur Ripera (che mi tolse dal periglio di Rodi) non mel’ permise; dicendomi, ch’era meglio di andare a Smirne a [p. 212 modifica]pigliar passaporto, ed indi fare il mio viaggio; perocchè se senza passaporto ritornava ab imbarcarmi con Turchi, o Greci, poteva di facile rimanere schiavo in qualche Isola dell’Arcipelago, in cui non si trovassero Francesi: il che essendomi insinuato anche dal Consolo, mutai parere, e mi appigliai al prudente, e sicuro consiglio, che i medesimi mi davano; tanto più ch’essendo l’inverno forte avanzato, e’l cammino di 500. m. avria potuto languir mesi in qualche spiaggia.

M’imbarcai adunque con esso loro, nella medesima tartana, il Martedì 24. ed essendo buon vento lasciammo subito a destra la Terra di Cucimel: ma vicino all’isola dello Spalmatore cessò il vento; e così la notte non ci avanzammo, che pochi passi fra Terra ferma, e l’Isola, ch’è abitata da Turchi, e Greci.

Mercordì 25.continuò l’istessa calma; e versò il tardi soffiando lentamente, passammo il Capo di Cara-bornus, lasciando a sinistra Metellin. Rinforzandosi ii vento la notte, entrammo nel golfo di Smirne, verso la quale dirizzammo la prora, per l’apertura, che da amendue le parti lascia al Mare la Terra ferma.

Di nuovo cessato il vento, il Giovedì [p. 213 modifica]26. facemmo poco cammino; però al cader del Sole ritornò forte, e contrario; sicchè a forza di bordeggiare passammo, circa la mezza notte, la Fortezza, e demmo sondo ivi da presso. Dicono, che questo Castello sia stato fabbricato 30. anni fa, perché un Giudeo appaltatore della Dogana, se ne fuggì in Cristianità, con due vascelli; nello stesso tempo, che il G. Signore, per un Bassà, mandava ordine di condursi in Costantinopoli: altri dicono, per una negativa fatta dagli Olandesi, ed Inglesi (ch’erano in porto) di servire contro i Veneziani. Or questa Fortezza è di bassa fabbrica, con due bastioni negli angoli, senza difesa di moderne fortificazioni; però è provveduta di 21. pezzi d’artiglieria, posti a fior d’acqua; e di bastante presidio. Permette il Comandante l’ingresso nel porto, ma non l’uscita senza sua licenza.

Venerdì 27. durando ancora l’istesso contrario vento, bordeggiando entrammo nel porto di Smirne, e demmo fondo su le 16. ore. Subito co’ quattro Francesi, e’l Capitano, fummo in casa del Consolo della nazione, che ci ricevè con molta cortesia, dandoci una collazione, e da bere allegramente. Licenziatomi [p. 214 modifica]dal Consolo, e dagli amici, andai a provvedermi di stanza; e ne presi una in casa d’un Francese, per mezza pezza d’otto al dì ed un quarto per lo servidore: però chi volesse risparmiare truova nella Città più Xan, o alloggiamenti grandissimi, capaci di migliaja di persone; particolarmente lo Xan-celibi coperto di piombo; e quello degli Armeni, dove alloggia la caravana di Persia; ne’ quali per una piastra d’Olanda, o poco più al mese, avrà una camera senza letto, dove si trattarà a proporzion della sua borsa.

Smirna, Smirne, Lamira, o Lamires, overo Sarchinia è situata a gr. 38. di latitudine; in sito, parte piano sul Mare Egeo (detto volgarmente Arcipelago) e parte di montagna. Si stima fabbricata dalle Amazoni l’anno del Mondo 3203. o da Teseo secondo altri Cic. Strab. e Plin.. Fu Sede Arcivescovale, e di presente è Metropoli del paese, e primo Emporio di Levante; per essere in luogo, donde bisogna necessariamente far passaggio le mercatanzie Europee, ed Asiatiche. Non è tanto la Città illustre per gli natali, e morte di Omero Io. Bapt. Nicolos Hercul. p. 3. ch. 256. (se pure egli è lecito determinare così antica quistione) come gloriosa per lo suo Santo Vescovo Policarpo, che [p. 215 modifica]scrisse sul misterioso libro dell’Apocalisse, in Smirne, Efeso, Pergamo, Thyatira, Sardi, Filadelfia, e Laodicea.

Il circuito della Città moderna sarà 4. miglia, di figura irregolare, che s’accosta alquanto al triangolo; il di cui lato dalla parte della montagna è più lungo de’ due, che s’uniscono al lido del Mare; e ciò per mancanza di terreno. Non ha vaghezza nelle sue fabbriche, perché sono case ordinarie all’uso de’ Turchi; ed alcune molto basse, e di fango, rifatte dopo l’ultimo terremoto, che spianò quasi tutta Smirne; gli Xan nondimeno, come dissi, sono magnifici, e di molta spesa. Le strade sono spaziose, e tutta la Città è un continuato Bazar, ò Fiera, dove si truova quanto si desidera; sì per lo vitto, e vestito, come per lo lusso: poiche le migliori mercatanzie d’Asia, ed Europa quivi si conducono, per vendersi a buon prezzo. I viveri però non si vendono così bassi, come in altre Città Turche; per lo gran concorso di forestieri, che fanno più di 50. m. anime, fra Cristiani Europei, Greci, Armeni, Giudei, Turchi, ed altri. Ha porto capace di più armate, dove si veggono di continuo centinaia di vascelli di più, e diverse nazioni. [p. 216 modifica]Le quattro galee proprie, sono nel porto interiore, guardato da una cattiva Fortezza, con pochi cannoni, e guarnigione.

Essendo nell’alto della Città un’antico Castello, che dicono esser fabbricato in tempo della Imperadrice Elena; andai il Sabato 28. a vederlo. Montato sulla montagna, che domina la Città, osservai a sinistra una fabbrica antica, che dissero essere stato palagio del Consiglio de’ Greci, in tempo che Smirne era Metropoli dell’Ionia, ed Asia minore. Entrato nel Castello, per la porta maggiore, che riguarda la Città; trovai a sinistra un mezzo busto di detta Imperadrice, e sotto alcuni caratteri Turcheschi, con una tomba di marmo a’ piedi: una Chiesa antica ridotta in Moschea, però tutta rovinata; e più colonne di marmo per terra. Ivi da presso si scende in un luogo sotterraneo, dove si veggono 24. grandissimi pilastri, che sostengono alcune volte: il pavimento ben lastricato dà a divedere, essere stata cisterna per servigio del Castello. Il circuito di questo è quasi d’un miglio, a modo di Anfiteatro, con sei Torri semplici dalla parte della Città; essendo rovinate le altre dal lato opposto. In sì fatto spazio si veggono per terra molte [p. 217 modifica]pietre, e colonne, che dimostrano esservi state dentro più abbitazioni. Nella piazza del medesimo dicono, che S. Policarpo fu posto ad esser divorato da’ Leoni.

Nel ritorno che feci, a piedi del monte vidi una fabbrica molto antica, che dà a credere, esser stato un Forte della vecchia Città; della quale dalla parte Settentrionale restano poche mura, che l’ingiurie de’ tempi non hanno ancora abbattute. La moderna però è tutta aperta.

Vivono con molta splendidezza i Consoli di Francia, d’Inghilterra, e d’Olanda in magnifiche case alla marina; perocchè simil carica in luogo di sì gran commercio, e di tanti ricchissimi mercatanti, è loro di non picciol guadagno.

Vi sono tre Conventi per l’amministrazione de’ Sacramenti a’ Cattolici; uno de’ PP. Gesuiti; l’altro di Cappuccini (dove fui Domenica 29. a udir la Santa Messa) che per esser Francesi, sono mantenuti dal loro Re; e’l terzo di poveri Padri Osservanti Veneziani, che vivono miserabilmente; oltre varj Monasterj di Greci, e Sinagoghe di Giudei.

Lunedi 30. andai poco fuori della Città, a divertirmi alla caccia, che ivi è [p. 218 modifica]copiosa di cignali, cervi, ed altri quadrupedi, oltre le pernici, francolini, tordi, anitre, ed altri volatili senza novero: e ciò senza alcun timore de’ Turchi, perché i Franchi in Smirne godono tutta la libertà possibile; vestendosi a lor piacere alla Francese, o all’Italiana; e girando per dentro, e fuori; per terra, e per acqua senza soggezione, nè impedimento. Corrisponde la pesca alla caccia, e le frutta del Mare a quelle di Terra, che in vero sono di eccellente bontà, e sapore, particolarmente le melagrane, che superano molto quelle di Napoli; e se ne portano a Costantinopoli le saiche piene per mercanzia. Vi si raccoglie eziandio scamonea, oppio, noce di galla, e valenada.

Tutti questi diletti, e divertimenti sono contrappesati dall’amarezza, che cagiona l’abitazione dell’istessa Città; in cui la malignità dell’aria produce febbri pestilenziali, ne’ mesi spezialmente di Maggio, Giugno, e Luglio: e per l’intolerabile caldo, che si sente nella state, rende nojosa la stessa vita. S’aggiunge a ciò la frequenza delle pestilenze, e de’ terremoti, che se mancano in uno, non lasciano di farsi sentire nel seguente anno; sepellendo gli abitanti, e spianando le case. [p. 219 modifica]

Martedì 1. di Decembre andai a vedere le quattro galee della Città, governate da un Bassà con titolo di Comandante; mentre il governo della Città è tenuto da un Cadì. Mi servii per interprete di un Giudeo, che io teneva a mia posta, per poca mercede al giorno; imperocchè i Giudei sono in istato così misero, ed abbietto nelle Terre de’ Maomettani, che per poco stipendio si tengono felici. Parlano eglino con faciltà Spagnuolo, perché la lor lingua materna non è altra, che la Spagnuola corrotta: e perciò chi che sia sapendo questa favella, può camminare facilmente per le parti di Levante; incontrandosi per tutta la Turchia, e Persia Giudei, che a buon prezzo faranno il mestiere d’interprete. Il medesimo adunque mi condusse Mercordì 2. a vedere le Dogane della Città, che sono due; una grande, detta del commercio, in cui si pagano i diritti della gran quantità di sete crude, che gli Armeni portano da Persia; e poscia i Franchi trasportano in Europa, insieme col cottone filato, camellotti, cuoi, lana, rabarbaro, ed altre mercatanzie: l’altra Dogana, che si chiama di Stambul, posta nell’angolo sinistro dell’interiore seno del [p. 220 modifica]porto; comprende il traffico di Costantinopoli, Salonichi, ed altri luoghi di Turchia. Amendue sono meno rigorose delle nostre Europee; essendovisi aperti i miei forzieretti, senza veder altro, che la superficie, e con molto riguardo: nella Soria però le sperimentai rigorose, registrandovisi il tutto con pessima maniera.

Il Giovedì 3. essendo andato a udir la Messa nella Chiesa di S. Antonio de’ Osservanti; vidi, che portavano un morto in processione, con Croce innalborata avanti, e vestiti i Religiosi di Cotta, come si costuma in Italia; ciò che altrove non permettono i Turchi. Or dovendo io passare in Costantinopoli, e bisognandomi un salvocondotto, o passaporto per lo viaggio, fui il Venerdì 4. dal Consolo d’Inghilterra; ed avendogli preso a dire, ch’era del Regno di Napoli, suddito di S. M. Cattolica, collegata colla Corona d’Inghilterra; non mi fece passare innanzi, avendo già conosciuto quel che io domandava; ma interrompendomi con autorevol parlare, rispose: Io non posso concedere protezione; e si guardi del Consolo Francese, acciò sapendo, che siete Napoletano, non vi faccia fare qualche strapazzo da’ Turchi. Io che lo vidi [p. 221 modifica]parlare in maniera, che non così di facile si sarebbe rimosso dalla sua negativa, subitamente mi licentiai; ed essendo andato dal Consolo di Olanda, ebbi la stessa risposta. Non sapendo altro che fare, me n’andai al Consolo di Francia; e dettogli con chiarezza chi, e donde era, e’l desiderio di avere un passaporto per Costantinopoli; con molta cortesia me lo concedette.

Cadde sì gran quantità d’acqua il Sabato 5. (oltre quella de’ passati giorni) che in Italia si sarebbe detta tempesta; ciò che mi tenne buona parte del dì confinato in casa, con una malinconia da morire. La notte cresceva l’inquietitudine a cagion d’alcuni Ebrei, che abitavano vicino la mia camera, e si alzavano bene spesso a recitare le loro impertinenti orazioni; che sono sempre nojose, ma spezialmente nel Venerdì, e Sabato, che passano in una continuata veglia: di maniera che alle volte usciva fuori della stanza, per non sentirgli.

Domenica 6. essendosi nella Chiesa de’ PP. Cappuccini esposto il Santissimo, si predicò in lingua Francese; assistendovi il Consolo, e’l Vescovo di Scio (ritirato in Smirne per l’imposture [p. 222 modifica]fattegli dal rinegato Veneziano) con una copiosa audienza di mercanti Francesi, e Capitani di vascelli. Non venendo all’ora solita il Giudeo in casa, fui a trovarlo nel Xan, dove abitava: all’uscire che feci, il Servidore del Caragì Bascì, o Capo degli esattori del tributo (che stava avanti la porta) mi dimandò, se io era Portughese (intendendo con tal parola s’era Giudeo) e rispondendogli, che nò; non volle darmi credenza, e mi condusse preso avanti il suo padrone; il quale facendomi l’istessa dimanda, ed io replicandogli, ch’era Francese franco di tributo; volle il pegno, che poi mi su fatto restituire subito dal Consolo.

Erano alla vela per Livorno tre vascelli Ragusei Lunedì 7. ma il Consolo di Francia impedì la partenza, col pretesto, che di là portavano poi a Smirne panni d’Inghilterra, e di Olanda; però altri dicevano, ch’egli volea mille piastre da ciascheduno per lasciargli partire; di che ne portarono quegli le doglianze all’Ambasciadore Francese, nè so qual risoluzione ne riportassero. Fui il Martedì 8. nella Chiesa de’ PP. Gesuiti, per vedere un’amico, col quale volea consigliarmi per la buona [p. 223 modifica]direzione del mio viaggio. La Chiesa era terminata, ma il Convento, o Casa attualmente si fabbricava; abitando frattanto i Padri in stanze di legno. Per loro mantenimento hanno concessione di prendere 50. piastre per ogni vascello, che viene con bandiera di Francia.

Mercordì 9. desinai con Monsieur Ripera, in casa del quale lasciai le mie robe sino al ritorno. Venne la mattina del Giovedì 10. l’Agà di Seyde a vedermi; al quale avendo fatto dare la cioccolata, il buon satiro, che mai non avea gustato simil bevanda (o che la medesima gli alterasse la testa, o i fumi del tabacco) si lamentò di me fieramente; dicendo, che gli avea dato licore per farlo impazzire, e perdere l’intendimento: e certo, se l’alterazione continuava, m’avria dato quel disgusto, che meritava, per aver dato cioccolata ad un’asino. L’Agà però dice esser nipote del Visir Kiupurlì; e si lusinga poter occupare quella gran dignità; come se non gli bisognasse altro, che l’esser nipote di colui, per ottenerla.