I monumenti e le opere d'arte della città di Benevento/Dell'arco trionfale a Traiano/Esame particolare delle sculture dell'arco di Benevento, facciata rivolta alla campagna

Da Wikisource.
9. Esame particolare delle sculture dell’arco di Benevento: facciata rivolta alla campagna

../Esame particolare delle sculture dell'arco di Benevento, sotto il fornice ../Esame particolare delle sculture dell'arco di Benevento, quadri minori IncludiIntestazione 16 aprile 2023 100% Da definire

9. Esame particolare delle sculture dell’arco di Benevento: facciata rivolta alla campagna
Dell'arco trionfale a Traiano - Esame particolare delle sculture dell'arco di Benevento, sotto il fornice Dell'arco trionfale a Traiano - Esame particolare delle sculture dell'arco di Benevento, quadri minori

[p. 127 modifica]Ed ora passiamo ad osservare la facciata rivolta alla campagna.

Nono quadro grande (il più basso, a destra dell’osservatore, sulla facciata esterna) Tav. XXII.

Questo quadro si svolge in quattro piani. Nel primo son tre figure, fra cui Traiano, il quale è il primo verso la destra dell’osservatore nella sua imponente toga, già descritta nei precedenti quadri; ha ambo le mani rotte, ma si scorge che avea la sinistra impugnata a trattenere il solito rotolo o le solite tavolette e la destra distesa verso l’altro personaggio che è nello stesso piano.

Questi è scolpito sull’altro estremo del quadro, in atto di incedere verso l’Imperatore, tenendo il corpo gravato sul sinistro piede e col destro levato alquanto come per muovere il passo. Egli è alto, snello e di giovanile aspetto; ha sul capo una pelle con testa di leone, che gli scende a covrir le spalle, e sul petto gli si annoda con le due zampe anteriori; porta una specie di tunica stretta alla cintura, col gonnellino più corto del ginocchio, ma senza maniche, laonde gli resta scoverti ambo le braccia e il lato destro del petto, e solo gli covre appena la spalla sinistra; porta ai piedi una specie di calzari poco diversa dei romani e senza alcun ricamo, nè trasparenza, nè fettucce eleganti, come poeticamente asserisce Rossi. Ha le braccia, ora monche, abbassate. A destra di costui è un cane mastino con collare, sebbene Rossi voglia a forza crederlo una pantera, la quale cosa non mi sembra nè verosimile, nè opportuna.

[p. 128 modifica]

Fra i due personaggi descritti, nel secondo piano, si mostra un uomo che con la sinistra mano, ora mancante, tratteneva per la briglia un cavallo, molto guasto dal tempo, perchè gli mancano tutto il muso e la gamba destra, che si elevavano in tutto rilievo dal marmo. Altri otto personaggi sono ripartiti in tre piani del quadro, tutti ad una foggia vestiti, cioè con tunica e chlamys frangiata, affibbiata sul petto, tutti con la medesima calzatura ai piedi, e quasi tutti armati dei soliti fasci di verghe laureati. Onde non parmi esatta la distinzione che ne fa Rossi di stranieri e romani.

Sul fondo del quadro, sulla sinistra del riguardante, si vedono scolpiti due alberi, messi dall’artista per indicare che il fatto si svolge in campagna. Rossi si diffonde a discorrerne, e opina che quelli sieno due piante di loto, forse per il preconcetto disegno di dimostrare che l’azione ha luogo sui confini della Siria, cui assegna quella specie di pianta; però il loto non è pianta arborea ma graminacea, nell’ordine delle leguminose1.

Vero è che vi ha un’altra pianta di alberetto o frutice ritenuta da varii autori per il loto degli antichi Lotofagi: è il loto vero (Zizyphus Lotus), cui avrebbe alluso Plinio col suo passo: »Eadem Africa, quae vergit, ad nos, insignem Loton gignit, quam vocant Celtin... tam dulci ibi cibo ut nomen etiam genti, terraeque dederit, ecc.» Ma i Professori Tenore e Pasquale2 ritengono che neppur questo sia il loto Africano di Plinio, perchè dà un frutto piccioletto, nè tanto polposo, nè tanto dolce da poter essere atto a nutrire popoli, come quello che descrive Plinio.

Ma, a parte ciò, le piante che sono scolpite nel presente bassorilievo non si possono confondere con questo alberello, da alcuni ritenuto per il loto, imperciocchè quest’ultimo ha il frutto tondo, piccioletto e i rami spinosi, mentre nelle piante scolpite nel nostro quadro in esame mancano affatto le spine, e il frutto è a campanello, grandicello, molto ben distinto. Le due piante son chiaramente due peri.

Questo quadro presenta pure qualche difficoltà nella [p. 129 modifica]interpretazione del soggetto. Rossi lo intitola3 «Legazioni Orientali a Traiano», ed opina che il personaggio dalla pelle leonina sia Arbando, giovane di bellissimo aspetto, figlio di Abgaro, re o principe di Edessa nella Osroena, nella Mesopotamia, venuto a nome del padre all’Imperatore a portargli regali e proteste di amicizia, allorchè questi era sui confini dell’Armenia per punire alcuni principi, fra cui Cosdroe, re dei Parti, e Partamasire, re dell’Armenia, che gli si erano ribellati4. E fu in questa occasione che tra gli altri regali spediti a Traiano si ammirò un cavallo ammaestrato il quale s’inginocchiava dinanzi alle persone, ove gli fosse comandato di farlo5. E se la ipotesi di Rossi trovasse accoglienza favorevole, potrebbesi pur ritenere che il cavallo scolpito nel marmo nostro fosse proprio quello ammaestrato di cui lasciò memoria Dione. Una difficoltà insormontabile vi è in ammettere tali ipotesi: se il nostro Arco si riferisce alle sole Germaniche e Daciche imprese, come vi potrebbero essere rappresentate le Partiche? Ei conviene soffermarsi alquanto su alcune particolarità di questo quadro, pria di azzardare qualsiasi ipotesi. Innanzi tutto alle spalle dell’uomo dalla pelle leonina sul capo non vi son forestieri, come vorrebbe Rossi, ma due personaggi vestiti affatto alla foggia romana, come gli altri del quadro, e del tipo identico nella fisonomia.

L’uomo dalla pelle leonina sul capo è egli un messaggero o legato, o pure è tutt’altri? In molti monumenti romani occorre spesso di imbattersi in personaggi con il capo coperto alla sudetta maniera, massime nei quadri che decorano l’arco di Costantino, ma che si riferiscono alle azioni di Traiano6. Il Montfauçon7 dice che così andavano vestiti gli ufficiali vexilliferi e signiferi e i primipili o primi centurioni8; e di fatti portan tutti le insegne militari. Vi ha di quelli barbati e di quelli imberbi; il [p. 130 modifica]personaggio del nostro quadro, però, non porta nulla, o almeno niente appare che abbia portato, giacchè ha rotte ambo le mani.

Eguale figura occorre vedere sovente in molte monete e medaglie antiche9, e molte fiate vedesi lo stesso Ercole in istatue, medaglie e bassorilievi così rappresentato10 con o senza barba11. Ciò che è curioso è questo, che il nostro personaggio ha moltissima simiglianza con un busto di Iole o Onfale, amante di Ercole, scolpito in un medeglione riportato dal Montfauçon12. Al modo stesso in questo medaglione vedesi Iole con tutto il destro braccio e la mammella destra denudati, e la veste pendente dall’omero sinistro per di sotto la mammella stessa.

Svolgendo lo stesso Montfauçon13 mi imbatto in una figura che ad un di presso risponde al nostro personaggio, e che proietta alquanta luce, a creder mio, sulla quistione presente. È quella di un uomo giovane, nudo, appoggiato ad un bastone, con la pelle di leone sul capo e con un cane ai piedi. Fa parte delle otto statue che decorano i nicchi del piedistallo del monumento detto colonna di Cussì, dal villaggio omonimo nell’Auxois in Francia, ove trovasi. L’autore che lo riporta, a proposito della mitologia dei Galli, suppone che esso rappresenti Adone; ma poco dopo confessa la sua poca dottrina nella conoscenza della mitologia Gallica, e mette in dubbio che possa esser questi, pel fatto specialmente che porta la pelle di leone sul capo.

Ho detto che questa figura del monumento di Cussì proietta della luce sulla quistione, ed eccomi a provarlo.

Io penso che questo quadro esprima una marcia di Traiano in provincia. Sappiamo che egli amava di camminar piuttosto a piedi, anche nelle lunghe marce, e di far condurre appresso il suo cavallo: «Pedibus iter faciebat semper cum exercitu, instruebatque milites, quoties proficisceretur, eosque variis modis ductabat. [p. 131 modifica]Pedibus non aliter quam illi, transibat flumina, etc.14» E con molta eloquenza Plinio gli dice:15 «Dividono e sbarrano la Germania dai paesi circonvicini, oltre le immense distese di terra, i Pirenei, le Alpi ed altri monti. Ora per tanto spazio di terra conducendo voi, o meglio traendo a volo (tanta era la velocità!) le legioni, non pensaste nè a cocchio nè a cavallo. Un palafreno così mediocremente bardato vi teneva dietro, non per sussidio della marcia, ma per decoro, e confuso con gli altri cavalli, come quello che da voi non si usava, se non allora che, riposando negli alloggiamenti l’esercito, voi con le celeri corse sollevavate del vicin campo la polvere.»

Ed è questa una marcia addirittura in Germania? Mettendo in relazione il precedente passo di Plinio con la presenza di quel personaggio dalla pelle leonina sul capo e il cane ai piedi, che trova riscontro nel citato nume Gallo del Montfauçon, parmi trovare valido sostegno a tale mia ipotesi. La quale non si troverebbe che in apparente contraddizione con le due distinte regioni, la Gallia e la Germania, conoscendosi che una parte dell’attuale Germania un tempo si confondeva con la Gallia16, e che non sempre i paesi di confine venivano nettamente delineati. Anzi devesi notare pure che Colonia Agrippina faceva parte della Gallia Belgica17; e in detta città si trovava Traiano allorchè Adriano, come vedremo a suo luogo, gli portò la nuova della morte di Nerva18.

Stimo pure che quel personaggio possa essere un Ercole giovine, messo a riscontro delle fatiche e dei travagli di Traiano; quasi l’artista avesse voluto esprimere che solo quel nume avrebbe potuto compiere così grandi azioni fra mezzo a sì difficili ed ardui perigli; o pure che quel dio, tutelare della famiglia Ulpia19, assisteva il glorioso Principe. E neppure fa ostacolo alla mia ipotesi il vedere Traiano qui effigiato con la toga, imperciocchè [p. 132 modifica]egli qui non è rappresentato in mezzo ad un fatto d’armi o sul campo, ma in marcia, fra popoli soggetti all’impero, e gli accresceva maestà quell’abito grandioso. Lo stesso Plinio ci fa apprendere che era costume di Traiano rintuzzare tal fiata l’alterigia del nemico più con la toga che con le armi, hostilemque terrorem non armorum magis, quam togarum ostentatione compescere20.

Rossi congettura che il personaggio togato, che è immediatamente alle spalle di Traiano, sia il Console Sura; ma come puossi giustificare questa ipotesi? Degli altri personaggi è inutile intrattenersi, non presentando nulla di speciale rispetto ad altre figure simili degli altri quadri.

Decimo quadro grande (il più basso a sinistra, in riscontro al precedente) Tav. XXIII.

Proviamoci a descrivere da prima il quadro, e poscia ad indagarne il soggetto.

Nel piano più rilevato si vedono due figure, tra cui quella di Traiano sulla sinistra del riguardante. Egli, che è nella sua ricca toga, e porta nella sinistra mano le tavolette (non il volume, secondo vuol Rossi), manca della testa e dell’avambraccio destro. Dalla direzione del braccio scorgesi con chiarezza che aveva la destra mano distesa verso il personaggio che gli sta di contro nello stesso piano.

Questi ha barba ispida, e, sebbene abbia il volto alquanto guasto dalle ingiurie del tempo, si appalesa subito per uno straniero essendo di un tipo affatto differente. Anche nel vestire si differenzia dai romani, poichè porta una tunica, che non arriva ai ginocchi, ligata alla cintola, una sopravveste o mantello con fibbia sull’omero destro, alti calzari ai piedi, quasi a mezza gamba, ligati da corregge intrecciate dalla punta del piede alla sommità del calzare stesso. Manca dell’avambraccio sinistro, ed ha disteso il destro sino a tener molto prossima la mano all’Imperadore, o in atto di porgergliela, o piuttosto in atto di giurare, non ravvisandosi più totalmente integra. Son degne di nota in questa figura la somma espressione, la prontezza e naturalezza della mossa, la notomia delle gambe e dei ginocchi.

[p. 133 modifica]

Tav. XXII.

[p. 135 modifica]

Alle sue spalle sono altre tre figure di stranieri, una nel secondo e l’altre due nel terzo piano, vestite alla foggia medesima del primo, senza alcun divario. Hanno tutti e tre la barba, e quello nel secondo piano, immediatamente dopo il primo, ha aspetto alquanto giovanile e simpatico. La testa di quest’ultimo è scolpita con molta arte e naturalezza.

Tra l’Imperadore e il primo degli stranieri spicca maestoso nel secondo piano un personaggio con folta e riccia barba, con ricciuta chioma adorna d’una corona di rami di quercia. Ha denudati l’omero e il braccio destro, che asconde dietro Traiano, non meno che tutto il petto e la pancia sino al pube; solo dall’omero sinistro gli scende un manto che gli avvolge il resto del corpo sino a mezza gamba con ripiegamenti maestosi e artistici da mostrare evidenti le stupende linee della coscia, del ginocchio e della gamba destra; così pure è bellamente e virilmente scolpita la parte denudata. Nella sinistra mano regge i fulmini fiammanti. Poggia il corpo tutto sul destro lato, nascondendo la gamba sinistra indietro nell’atteggiamento di affidarsi ad un bastone che abbia fermato sotto l’ascella. Le avarìe del marmo non fanno ben distinguere più questo particolare.

Questo personaggio (è importante rilevarlo) volge le spalle al seguito imperiale e la faccia ai quattro stranieri.

Dietro a lui, alla sinistra dell’Imperadore, si mostra la testa di un romano, con capelli crespi ma non arruffati, formanti sul fronte una specie di corona o cresta. Essa è spiccatamente somigliante a quella del personaggio che abbiamo visto21 nel quadro dell’ingresso in Roma (Tav. XV.), il secondo verso la sinistra del riguardante, sulla soglia dell’arco scolpitovi, e dell’altro personaggio che abbiam pure notato nel quadro XVII alla destra dell’Imperadore, col piè destro inoltrato e lui riguardante con atto di sollecitudine e interesse22. È lo stesso personaggio, sicuramente storico, a giudicare dalla persistenza del suo iconicismo in tutti e tre i quadri. L’artista ebbe in mente di raffigurarvi lo stesso individuo, il primus lictor. Potrebbe essere questa [p. 136 modifica]coincidenza una chiave per ispiegar meglio gli avvenimenti scolpiti in questi tre quadri. E (cosa assai curiosa, se non strana addirittura) nientedimeno Rossi23 prende questa figura per quella di una femmina, e arriva a supporre che sia Plotina! Oh il preconcetto! Si scusa con le erosioni del marmo; ma dove sono esse e così gravi in questa figura da nasconderne il sesso?

Alle spalle di Traiano, sul margine del quadro, notasi un littore con i soliti fasci, la solita tunica e la consueta chlamys frangiata, allacciata sul petto con ricca fibbia a disco cilindrico raggiato a otto rami con altro dischetto nel centro. Ha corta e riccia barba, capelli crespi. Con la sinistra regge i soliti fasci laureati, e nella destra mano porta qualche cosa che oggi non più ben si ravvisa. Bella è la sua testa, stupenda la mano destra, la cui notomia è scolpita con sommo magistero.

Molti altri romani, recanti gli stessi fasci laureati, e alla foggia solita vestiti, vedonsi scolpiti sul di dietro e sul fondo del marmo, verso la sinistra. Sul piano men rilevato del quadro, dietro e sul capo dei quattro stranieri, è scolpita una pianta di quercia, di bellissima fattura, i cui rami portano a volta la ghianda, a volta la sola cupola vuota, senza la prima. Anche questo è un doppio simbolo, cioè che la scena si svolge in campagna e nella stagione di autunno, allorchè le ghiande cominciano a cadere.

Ora è tempo di venire alla spiegazione del soggetto. Rossi ha fatto anche questa volta un po’ di poesia, giacchè egli intitola questo quadro «L’Armenia ridotta in provincia», e più propriamente ritiene che esso rappresenti il celebre incontro, tramandatoci da Dione24, di Partamasire con Traiano. È a considerare diverse cose. Partamasire, fratello di Cosdroe, si era messo in possesso dell’Armenia col favore dei Parti, di cui era re lo stesso Cosdroe, non curante del diritto che spettava a Roma di conceder la corona o di dare il suo assentimento. Ciò indispose Traiano, che mosse tosto verso l’oriente per punirli tutti. Era egli appena arrivato in Atene, e già quei Principi, a placarne l’ira, gli avevano spediti messaggi e regali.

[p. 137 modifica]

Ma ciò non scosse la determinazione di Traiano, il quale proseguì il cammino verso la Siria ed entrò nella capitale, Antiochia, nel gennaio o nell’ottobre dell’anno 113 dell’era volgare. Di poi si spinse verso l’Armenia, ove fu incontrato da Arbando, figliuolo di Abgaro, e poi da questi stesso, su intercessione del figlio, il quale col suo bello aspetto seppe placare gli sdegni del romano Principe. E proseguendo ancora la sua marcia gli fu reso omaggio a Satala, città dell’Armenia minore, da Anchialo, re degli Eniochi, della Circassia, verso il Mar Nero. Partamasire, vedendo la cattiva parata e la sottomissione dei più, e ascoltando forse i consigli del figliuolo di Marco Giunio, governatore della Cappadocia, si decise a recarsi incontro a Traiano. Se non che questi, sdegnosamente il trattò, e non volle riceverlo che in pubblico, in mezzo al campo, essendo egli assiso sul trono, e facendogli deporre ai suoi piedi la corona reale. Per siffatta mortificazione ricevuta Partamasire pregò gli fosse concessa una particolare udienza dal potente di Roma, che gliel’accordò, ma senza restituirgli la corona, anzi dicendogli che l’Armenia sarebbe rimasta sotto un governatore alla immediata dipendenza dell’impero. E per dargli maggior soggezione, Traiano, assisosi di nuovo sul trono, e fattolo richiamare, alla presenza di tutti fece manifesto il discorso fra loro tenuto in privato. Partamasire impetrò nuovamente il perdono e il diadema con promessa di giurare omaggio e fedeltà, ma non trovò ascolto, e se ne partì con gran mortificazione sotto buona scorta di romani. Proseguendosi poi la guerra, fu disfatto e ucciso, per la qual cosa l’Armenia divenne provincia di Roma.

Questo celebre avvenimento della vita di Traiano fu scolpito nell’arco di Roma, e oggi lo si ammira ancora in uno dei quadri dell’arco di Costantino25.

Ora Rossi comincia dal ritenere che Partamasire sia il personaggio che è fra Traiano e il primo degli stranieri, e si diffonde a discorrere sulla di lui vestitura. L’ho detto già, Rossi questa volta ha fatto sfoggio di poesia, sino a scambiare Giove per Partamasire. È quella stessa figura di Giove che abbiamo già [p. 138 modifica]ammirata nel quadro dell’apoteosi di Marciana. Il suo volto a quegli somigliantissimo, la corona di quercia, a lui sacra, sul capo, le stesse vesti, i fulmini fiammanti che porta nella sinistra mano lo mostrano sicuramente. E poi non notò Rossi il posto che questi occupa nel quadro, l’atto di rivolgere il viso allo straniero che s’avanza pel primo, la sicurezza che faccia parte del gruppo dei romani e non già degli stranieri? Per la qual cosa l’azione che si svolge è quella che io già preannunciai nella descrizione del quadro, cioè di un giuramento di sottomissione e di ubbidienza all’Imperadore, innanzi il sommo Giove, che l’artista ha voluto con sano criterio scolpire per il maggiore intendimento del soggetto e per dimostrare che l’atto solenne si compiva sotto il patrocinio del Padre degli uomini e degli Dei.

E poichè quegli che giura è il personaggio che si avanza, tenendo la mano destra protesa orizzontalmente in direzione del nume, devesi ritenere che egli sia, tra i protagonisti del quadro, il principe straniero e non altri.

Ma è egli Partamasire? Per vero dire, nel quadro non v’ha alcuno accenno ai particolari che la storia ci ha tramandati del celebre incontro: nè il trono augusto, nè Traiano assiso su questo, nè Partamasire che depone la corona, come si vede scolpito nel citato quadro dell’arco di Costantino. E noi abbiamo più volte notato quanti e quali sieno i particolari che l’autore del monumento nostro ha introdotti in ogni quadro per la fedele e più chiara significazione del soggetto.

Ma poi, come ho notato discorrendo del quadro precedente, se il nostro Arco si riferisce alle sole azioni Germaniche e Daciche, se la dedicazione di esso è stata fatta sotto gli appellativi di Germanico e di Dacico, e pria che le Partiche imprese fossero compiute, come puossi ammettere la spiega che ne dà il Rossi? Io penso piuttosto che questo quadro rappresenti la sottomissione di Decebalo, re dei Daci, nella prima guerra Dacica; tanto più che26 nell’ottobre di quell’anno 102, e appena dopo questa guerra, Traiano, correndo la sua tribunizia potestà V, riportò il titolo di Dacico. [p. 139 modifica]

Tav. XXIII.

[p. 141 modifica]

Ci dice pure Dione27, parlando della prima vittoria di Traiano contro Decebalo e della relativa sottomissione e pace: «Has conditiones Decebalus deductus ad Traianum invitus accipit, eumque prostratus ad pedes veneratur.» E se l’artista non ci ha rappresentato il momento descritto da Dione, può bene intendersi che abbia voluto tramandarci quello in cui Decebalo giura sottomissione e fedeltà al Romano Imperatore. Spiegano quest’atto solenne la mossa del principe straniero e la presenza del sommo Dio. Il riscontro dell’autunno, stagione in cui ebbe luogo la pace, con la presenza delle querce con le ghiande avvalora l’ipotesi mia.

Nè vi fa contrasto la foggia di vestire di Decebalo e dei suoi compagni, giacche, se è vero che nella colonna Traiana i Daci sien quasi sempre scolpiti con una specie dei nostri calzoni, vi son pure nella colonna istessa esempii di soldati nemici dei Romani vestiti della medesima tunica e del medesimo mantello dei quattro stranieri del nostro quadro28. E sebbene dica il Montfauçon29 che i Daci nel vestire poco si differenzino dai Parti, mi riconferma che i nostri stranieri sien Daci il notare la calzatura con i lacci intrecciati sul davanti dalla punta dello stivale all’alto del gambale simile a quella di uno dei Daci scolpito nella colonna Traiana30. È vero che lo stesso autore31 soggiunge che questa calzatura, detta barbara dai Romani, era comune ai Daci, ai Parti, ai Galli ed ai Germani, ma il riscontrarsi nella colonna Traiana portata da un guerriero Dacico mi conforta.

Undicesimo quadro grande (al di sopra dell’imposta dell’arcata, a destra dell’osservatore) Tav. XXIV.

Questo è uno dei quadri più importanti dell’Arco di Benevento, sia dal lato artistico che da quello storico. Il lettore mi sia benigno di un po’ di pazienza, e pria mi segua nella descrizione.

A destra del riguardante, sul limitare del quadro, vedesi la simpatica figura di Traiano. Veste la tunica e il paludamento, fermato con fibbia sull’omero destro, tunica e paludamento che [p. 142 modifica]sono concepiti, disegnati e scolpiti con rara maestria negli avvolgimenti delle pieghe, da lasciar trasparire di sotto bellamente le linee del corpo. Egli ha la destra mano mancante, e nella sinistra stringeva il rotolo o le tavolette, perchè oramai poco o nulla più se ne ravvisa. Quanta naturalezza ed espressione e proporzione in questa figura di Traiano!

Nell’opposto limite del quadro si erge maestosa una figura di donna, portante sulle ricche chiome, annodate in artistica treccia sul di dietro, una corona di alloro e su di questa l’altra turrita. Ha lunga veste stretta dal solito cingolo, che Rossi32 attribuisce alle spose, senza por mente che le altre donne che figurano nei varii quadri di questo monumento lo portano al modo stesso; e per di sopra una sopravveste grandiosa, che ricadendole dall’omero sinistro e passandole per di sotto l’anca destra, va a ripiegarsele in avvolgimenti e pieghe stupendi per di sopra l’avambraccio sinistro. Al braccio destro, mutilato di tutto l’avambraccio, porta un bracciale; e con la sinistra mano regge una specie di scettro quadrangolare, la cui cima è rotta, e se ne ravvisa il prosieguo attaccato al marmo, all’altezza del fronte di lei. Chi ella sia lo vedremo di poi.

A fianco a lei, sulla sinistra, nel secondo piano, vedesi la marziale figura di nerboruto militare, nelle stesse vesti che abbiamo notato portare Adriano nel quadro XVIII. Ma quegli porta qualche cosa di più, cioè un elmo crinito in testa, un ampio scudo ovale, infilato con correggia al sinistro braccio, ed ai piedi, sino a mezza gamba, ricchi coturni ricamati con rovesci sul dinanzi di teste di animali. Volge il braccio destro per di dietro la precedente figura di donna, sulla cui spalla poggia la mano. È rivolto a lei, e par che la sospinga e l’inciti frettoloso verso Traiano. Dalla incisione può desumersi la bellezza virile e il pregio artistico di questa marziale figura di guerriero, non che del gruppo nel suo insieme e nei particolari.

Dinanzi alle tre descritte figure, e propriamente tra il guerriero e Traiano, sono due graziosi fanciulli, un maschio ed una femmina, l’uno affatto ignudo, in ginocchio, l’altra, più prossima [p. 143 modifica]

Tav. XXIV.

[p. 145 modifica]a Traiano, con lunga veste, stretta col solito cingolo alla vita, e molto somigliante a quella che portano le due vittorie dei timpani (Tav. X e XI), in atto di muovere il passo. È evidentissimo che ambedue si volgano alla descritta donna, cui par che manifestino la loro gratitudine. Peccato che ad entrambi manchino le braccia quasi per intero. Ma non per tanto, pur così mutilati, son due pezzi ammirabili di scultura, il primo per la somma maestria del nudo, la seconda per la eleganza dei ripiegamenti delle vesti, ed entrambi per una commoventissima espressione di movimento e di vita. Par che dai loro labbri escano addirittura le parole.

Lor dinanzi vedesi scolpita in tutto rilievo una cornucopia ricurva, conica, con la cima rotta attaccata alla veste della descritta matrona; e di dietro ad essa un tronco verticale ricurvo, piramidato quadrangolarmente, scolpito anche in tutto rilievo. Rossi prende questi due pezzi per una prora biforcuta di nave, mentre il primo è una cornucopia e il secondo un pezzo di aratro. Ei vede pur dei flutti. Con la prora di nave è naturale che veda anche le onde! Ma se qualche cosa di più che il solito terreno è scolpita in quel posto, essa non accenna per nulla a dei flutti, per fortuna dei due poveri fanciulletti, i quali, altrimenti, starebbero nell’acqua, con poca verosimiglianza e nessuna ragione plausibile. Invece quel rilievo rappresenta un pezzo di terreno aratorio, coltivabile, il cui significato intenderemo fra breve.

Nel terzo piano, fra il guerriero e Traiano, è scolpita una figura di donna con la veste stretta dal cingolo e la sopravveste, identiche affatto a quelle dell’altra donna descritta. Ha sul capo il casco dall’orlo superiore ondulato, che abbiamo già visto portarsi da Cerere nella tav. XIX; e non porta al di sotto di esso alcuna corona di frondi. Con la sinistra mano, che è la sola che scorgesi, sostiene una lunga e acuta cornucopia piena di frutta, fra cui vi ha pere, mele ed una pina. Ella è rivolta alla precedente donna.

Al di dietro di lei, alla destra di Traiano, scorgesi la testa di un’altra donna con eguale acconciatura del capo (non diversa, come vuol Rossi33) dell’ultima descritta. [p. 146 modifica]

Un uomo togato è alle spalle della prima figura muliebre sul margine sinistro del quadro, rispetto al riguardante, nel secondo piano; e nel più basso rilievo sono scolpiti varii littori vestiti della solita chlamys frangiata e recanti i noti fasci e la consueta scure.

È tempo di venire alla spiegazione del soggetto di questo quadro. Rossi opina che rappresenti le nozze di Adriano con Sabina, pronipote di Traiano (essendo ella figlia di Matidia Augusta, che a sua volta era figlia di Marciana, sorella dell’Imperatore), raffigurati dal guerriero e dalla matrona che gli è a lato, e vi fa coincidere la istituzione dei fanciulli alimentari. Accettando fin da ora la seconda parte, io escludo affatto la prima, per molte ragioni che svolgerò a suo tempo.

Quello che apparisce in modo assai evidente in questo quadro è la sudetta istituzione dei fanciulli alimentari. Questa veramente fu fatta per primo da Nerva, il quale dispose che in tutte le città d’Italia, a spese del pubblico erario, fossero alimentati i fanciulli orfani d’ambo i sessi, nati da poveri genitori, ma liberti34. E Traiano, degno in tutto d’essergli succeduto nell’imperio, volle estenderla ancora più, per soccorrere in parte alla grande miseria delle città, esauste dalle vessazioni del fisco sotto i predecessori, «riconoscendo essere il fisco simile alla milza, la quale crescendo fa dimagrire tutte le altre membra35»; pensiero degno di un Principe illuminato, e dai nostri moderni reggitori messo affatto in oblio! Si aggiunga l’amore grandissimo che egli nutrì per i fanciulli, come sappiamo per bocca di Plinio nel Panegirico36 e di Sifilino37, il quale ricorda le varie leggi di protezione e tutela della loro sorte e del riguardo per essi. Quest’ultimo ci dice che Traiano «civitatibus Italiae multa largitus est ad educationem liberorum, in quos magna beneficia contulit.» E Dione Cassio38 «In puerorum alimenta, in Italia dumtaxat, multa elargitus est.» E di fatti il Panegirista soggiunge che i [p. 147 modifica]fanciulli sovvenuti furono cinquemila circa: Paulo minus, patres conscripti, quinque millia ingenuorum fuerunt, quat liberalitas principis nostri conquisivit, invenit, adscivit39.

Ecco poi come era istituita la ragione alimentaria: «Cesare dava ad ogni città una somma di sesterzii, e rimetteva al governo di essa l’investirla a chi le piacesse dei suoi cittadini. Un Quaestor Kalendarii, o pecuniae alimentariae, creato per ciò, raccoglieva dai privati le usure, e le distribuiva ogni mese a quanti e quanto gli avesse ordinato la repubblica. Ognuno che prendeva il danaro dalla città le obbligava a maniera d’ipoteca i suoi fondi, ma prima di Costantino tale obbligo o pegno terminava colla vita dei possessori, questo imperadore stabilì che passasse agli eredi. Nell’erario pubblico v’era un registro, che teneva i nomi dei possessori, quelli dei fondi ipotecati, dei quali s’indicavano con diligenza i confini, dippiù il valore di ciascuno di essi, e la somma per la quale lo aveva ipotecato: se erano più fondi, e per conseguenza più somme ricevute, alla fine dell’articolo di ciaschedun possessore si faceva la somma dell’estimo e delle partite: finalmente al margine se ne notava quanto dovesse per quelle, all’uscita di ciascun anno. Da questo tabularium od archivio pubblico estraevano copie, che facevano incidere in bronzo, appiccandole nei luoghi pubblici delle città, o nelle basiliche, o nelle piazze, o nei bagni: le formole usate in queste tavole sembrano dipese dall’arbitrio. Il primo di tali bronzi uscì di sotterra in Velleia, terra del Piacentino, ed ebbe per commentatori il Gori, Muratori e Maffei, ed ora è stato con maggior diligenza pubblicato la quarta volta dal chiarissimo De Laura. Il secondo a questo simigliante ed egualmente prezioso è apparso tra le ruine del bagno di Bebiano. È forza che la rappresentata penuria dei cittadini muovesse Cesare a volerla beneficata fra quelle città che prima sperimentarono la munificenza di lui40

Affinchè il lettore non rimanga desideroso di maggiori chiarimenti, aggiungo che la città di Bebiano restava in questa [p. 148 modifica]provincia di Benevento in quella parte del tenimento di Circello, a confine con quello di Reino, mio paesello nativo, ove si dice Macchia, e dove la mia famiglia possiede pur dei terreni. Ora avvenne che il cav. Giosuè d’Agostini, nativo di Circello e poi trasferitosi in Campolattaro, avendovi acquistati altri terreni e frequentando quei luoghi, ebbe occasione di comprare da alcuni contadini di cognome Mastrocola la sudetta tavola di bronzo, di cui tratta il Garrucci, da essi trovata fra i ruderi di quelle anticaglie, le quali nella maggior parte ancora aspettano di essere dissepolte con buona pace di Garrucci.

Dunque la tavola di bronzo trovata fra i ruderi della nostra Bebiano, e che ora trovasi, mi pare, al Museo Kircheriano di Roma, si riferisce, come quella di Velleia, alla istituzione filantropica dei fanciulli alimentari. Chi è vago di saperne di più consulti l’opera notata di Garrucci, quelle che egli cita intorno alla tavola di Velleia, non meno che l’opera di Secondo Giuseppe Pittarelli su quest’ultima41.

È pur merito dell’opera presente quì ricordare che in Roma nel 1872, presso la colonna di Foca, fu scoverto un bassorilievo, ritenuto dell’epoca di Traiano, che ricorda pure la liberalissima istituzione, e che Selvatico42 suppone giustamente sia appartenuto ad un arco, che egli dice trionfale, ma che poteva essere anche onorario.

Ed ecco come la storia e la fortuna degli scavi di antichità abbiano concorso a renderci manifesto il significato del quadro che stiamo esaminando.

Quest’atto di altissima munificenza e liberalità si trova sovente scolpito in qualche medaglia, avendo il Senato di Roma voluto tramandarne ai posteri memoria imperitura. Ve ne ha di quelle dove sul rovescio vedesi una figura di donna, «rappresentante l’Italia, la quale nella man destra ha una spiga di frumento e sul braccio sinistro il corno ubertoso; le sta dinanzi in piedi un fanciullo indicante la specie di quelli che da Cesare furono provveduti. Di sotto leggonsi impressi i seguenti [p. 149 modifica]caratteri: ALIM. ITAL. (Alimenta Italiae) perchè chiaramente apparisca il pensiero espresso nel presente impronto43.» Vi ha delle altre dove i genitori presentano al Principe i fanciulli sovvenuti, o dove questi gli si presentano soli44.

Questo avvenimento memorabile vedesi scolpito pure in un quadro dell’arco di Costantino, di quelli che si appartenevano all’arco di Traiano in Roma45, e ne terrò discorso in seguito.

Per la qualcosa all’artista che ha ideato il nostro monumento non poteva sfuggire sicuramente questa tra le più benefiche e liberali azioni dell’immortale Principe, e volle e seppe eternarla nel quadro presente. Come bellamente egli l’abbia tradotta nel marmo andrò ora a dimostrare.

Osservo pria di ogni altra cosa che l’opportunità di scolpire sul marmo una sì celebre istituzione non dovè sembrare tanto evidente che in questo luogo, quì, in provincia, dove parte di essa ebbe la sua splendida applicazione, come l’ha dimostrato la tavola Bebiana, illustrata da Garrucci, essendo prossimi i terreni dove fu ipotecata parte di quelle somme delle quali il munificentissimo Principe dispose a favore di tante migliaia di infelici fanciulli.

Quel lembo di terra sul quale sono i due fanciulletti con la cornucopia e l’aratro sarebbe soggetto degno della più splendida poesia! Io non so se possa desiderarsi maggior sentimento nell’artista che ha tradotto sul marmo sì memorabile e filantropico atto. La cornucopia che versa il danaro su un pezzo di terra, l’aratro che lo solca e lo fende, i due fanciulletti che vi stanno su, dinotano ad un tempo che da questo pezzo di terra, da quel lavoro, da questo danaro doveva prodursi l’alimento di quei fanciulli. La terra la prestava il proprietario, che prendeva il danaro a mutuo dal Principe, il lavoro il colono, il capitale del lavoro il munificentissimo Principe.

La donna dalla corona turrita e dallo scettro è l’Italia, che doveva goder di quel benefico istituto; e a lei si volgono i due pargoletti, per significarle, ad un tempo, la gioia e la gratitudine [p. 150 modifica]verso il magnanimo Imperatore. Che Ella simboleggi l’Italia io lo desumo, oltre che dal sentimento chiaro di per sè del quadro, da una medaglia di Antonino Pio46, nel cui rovescio vedesi una figura muliebre cinta di corona turrita e portante nella sinistra lo scettro, con la scritta al di sotto: ITALIA. Trattandosi degli alimenti Italici, siccome in tutte le medaglie che vi si riferiscono vedesi scritto ALIMENTA ITALIAE, all’artista sembrò utile, a chiarire meglio il concetto, scolpire in questo quadro la figura dell’Italia, cui il benefizio di quest’ottima istituzione riferivasi. Non volendosi accettare questa ipotesi, può pensarsi pure che ella rappresenti Cibele, che porta sul capo la corona murale onde Lucrezio disse47: Muralique caput summum cinxere corona, poichè gli antichi ritenevano che la Terra, lo stesso che Cibele, fosse il sostentamento, la nutrice delle città48. Essa era nominata pure Bona Dea, perchè la ragion prima, la causa del nostro sostentamento; Fauna, perchè era la protettrice degli animali; Fatua, perchè si credeva che i neonati non avessero emessi i primi vagiti innanzi di toccar la terra49. Ora, dopo tutto ciò, questa ipotesi pure potrebbe correre.

Similmente io penso, col raffronto di una quasi identica effigie scolpita su una medaglia con la scritta in giro: MARTI PACIF. (A Marte Pacifero), e di altra con l’effigie di Marte Vincitore50, che la figura del guerriero sia quella di Marte; giacchè non soltanto dovean crescere i cittadini per la maggior ricchezza della patria, ma eziandio per la sua fortezza. Onde ebbe a dire Plinio51: «Questi (i fanciulli), che sono il nerbo della guerra e l’ornamento della pace, son mantenuti con quello del pubblico, e si avvezzano ad amar la loro patria, non pur come patria, ma eziandio come lor nutrice.» E avea detto precedentemente52: «affinchè fino dall’infanzia da voi nutricati [p. 151 modifica]ritrovassero in voi il padre comune; crescessero a spese vostre, se crescevano al vostro servizio, e col vitto da voi loro prestato arrivassero a poter militare sotto di voi…»

Così pure, oltre al doppio simbolo dell’Italia e di Marte, della patria e della di lei difesa, cui quei fanciulli avrebbero concorso, notisi ancor l’altro della felicità che dal connubio poteasi sperare con la certezza degli alimenti: «I benestanti sono consigliati a mettere al mondo dei figliuoli da premii grandi e da pene non inferiori: quanto ai poveri il solo motivo di farli nascere è un principe buono. Se questi con la sua splendidezza non solleva e non mantiene coloro che sulla fiducia di lui furono generati, affretta la ruina dell’imperio e quella della repubblica. In vano il Principe trascura la plebe, fa conto dei grandi, chè questi saranno un capo senza corpo, e che non reggerà sotto il suo peso. Ora è facile il congetturare qual abbiate provato piacere nell’essere accolto dai viva dei padri e dei figliuoli, dei vecchi e dei bambini. Queste furono le prime voci che fecero arrivare alle vostre orecchie i piccoli cittadini, ai quali volendo voi somministrar gli alimenti faceste quest’altra massima grazia che astretti non fossero a dimandarli. Sebbene quello che supera ogni cosa si è, che voi siete si fatto che riesce dolce ed utile sotto di voi l’aver dei figliuoli.» E soggiunge53: «È veramente uno sprone assai acuto a divenir padre il generar figliuoli sulla speranza degli alimenti: Magnum quidem est educandi incitamentum, tollere liberos in spem alimentorum

Quest’ultimo concetto vedesi sotto altra forma espresso nel quadro citato dell’arco di Costantino, cioè di una femmina che accenna con le mani al suo seno pregnante e di altri tre personaggi che recan dei pargoletti a ringraziare il magnanimo Imperatore.

Nel nostro quadro, invece, è questi che addita all’Italia, alle genti i due pargoletti accolti sotto le grandi ali della sua carità.

Ed egli non mostra nessuna pompa del grande atto benefico; invece si appalesa modesto, serio, in dimessa tunica, e paludamento di campagna, avendo l’artista voluto tradurre il concetto [p. 152 modifica]che il Principe sia stato nelle provincie d’Italia, e forse in questa medesima nostra regione a compiere l’atto solenne. Per tal guisa notisi come ogni particolare concorre a rendere più sublime l’espressione del quadro.

Analogamente, quale un simbolo della fecondità sembra debba intendersi l’altra figura muliebre dalla cornucopia piena di frutta, giacchè in molte medaglie la si vede così rappresentata54; sebbene il Montfauçon55 dica che soltanto sulle medaglie delle imperatrici la si veda scolpita, per non essere stata compresa la fecondità nel novero dei numi.

Si potrebbe obbiettare però che tal simbolo nelle citate medaglie è accompagnato da figure di fanciulletti; ma nel nostro quadro sarebbe stato un pleonasmo, essendovi già i due pargoletti poco innanzi la figura in quistione.

Dopo tutto ciò non concedo neppure che quel guerriero che io raffiguro per Marte possa essere Adriano, il cui fedele ritratto abbiamo già veduto ed ammirato nel quadro XVIII, e rivedremo in altri due ancora. Egli è rappresentato nel nostro monumento sempre dall’aspetto giovanile, aitante, dal collo lungo, della barba molto corta, crespa, ma non irsuta, dai capelli ricci, corti, non lunghi e negletti come li porta il guerriero del presente quadro, e dal naso aquilino, non camuso.

Se poi sotto le sembianze delle tre figure allegoriche muliebri si ascondano Piotina, Marciana e Sabina, cioè la moglie, la sorella e la pronipote di Traiano io non discuterò. Solamente osservo che, se queste tre auguste donne debbansi o possansi ravvisarvi, convien supporre che Plotina sia la figura d’Italia, perchè a Lei spettava il posto più convenevole ed una parte più nobile del quadro.

E, poichè ho accennato che nell’arco di Costantino evvi un quadro con lo stesso soggetto dei fanciulli alimentari, mi corre l’obbligo di far notare la grande differenza che passa tra quello e il quadro presente del nostro monumento. Mentre in quello di Roma io trovo povertà di composizione, per essere le figure [p. 153 modifica]

Tav. XXV.

[p. 155 modifica]situate in due piani orizzontali e mal disposte, con poca verosimiglianza; per contrario nel nostro vi ha un effetto così drammatico, così naturale, così giustificato da trasparirne più che chiara e manifesta l’azione. Dunque non ha ragione Quatremère de Quincy di dire che appena i quadri dell’attico del nostro Arco sieno alla pari di quelli dell’arco di Costantino56, se io ho potuto dimostrare che il quadro presente, che fa parte dell’intercolunnio esterno, sia superiore a quello corrispondente dell’arco di Roma. Ma egli scriveva, come hanno scritto gli altri, senza aver visto il nostro insigne monumento!

Vorrei non staccarmi ancora da questo bellissimo e importantissimo quadro per farne saggiare al lettore tutti i pregi più ascosi; ma qualche cosa lascio al suo acume, al suo gusto, al suo sentimento, pregandolo di tener fermo alcun poco lo sguardo sui due fanciulletti. Più belli, più squisitamente modellati, più graziosi e più vivi io non credo possansi desiderare.

Dodicesimo quadro grande (al di sopra dell’imposta dell’arcata, a sinistra del riguardante). Tav. XXV.

Le figure di questo quadro, in numero di undici, sono disposte in quattro piani. Nel più rilevato verso i margini sono due personaggi; quello a sinistra è in tunica e paludamento fermato con fibbia sull’omero destro, cioè nelle identiche vesti che porta Traiano nel precedente descritto quadro. Egli è monco della destra mano e del relativo antibraccio, e appena si ravvisa che nella sinistra abbia dovuto reggere qualche cosa, o il solito rotolo o le tavolette. Il bersaglio dei monelli gli ha portato via una porzione del cranio; ma non pertanto avanza del volto quanto basta per poterlo individuare con coscienza. Egli è nè più nè meno che Traiano. E dire che Rossi lo ha preso per una guardia pretoriana! Non ha posto mente, innanzi tutto, giusto l’osservazione che ho fatta altrove, che, la figura dell’Imperadore si trova sempre sul limitare esterno del quadro, verso la cantonata, non mai nel mezzo del quadro. E poi il volto, le proporzioni, le vesti, l’atteggiamento, l’essere a lui rivolti tutti gli altri personaggi lo individuano nettamente per il protagonista del quadro. [p. 156 modifica]

L’altro personaggio che è nell’estremo opposto ha pure la tunica e il mantello, rimboccato sul di dietro in artistici avvolgimenti. Questo mantello ha un particolare degno di nota, cioè un cappuccio conico, come lo portiamo ancor noi oggi attaccato al colletto dei nostri mantelli, e lo portano i monaci. Era la veste che i romani chiamavano cuculus, la quale fu detta pure Bardocucullus e cucullus Bardaicus dai Bardi da cui traevano origine i Galli, onde Marziale ebbe a scrivere:

Gallia Santonico vestit te bardocucullo57.

Donde la cocolla dei nostri frati. Questo mantello era chiuso sul dinanzi del petto, e lo si infilava introducendo la testa nello scollato. Lo si usava d’inverno. Egli regge nella sinistra una specie di scettro quadrangolare, di cui al presente avanza una porzione, simile a quello che porta la figura dell’Italia nel quadro antecedente, e che non mi pare possa essere, secondo vuol Rossi, la vite (vitis dei latini), che portavano i centurioni quale insegna, al modo stesso che i littori le verghe58. E con la sinistra regge il vessillo o labaro frangiato che abbiamo osservato altrove. Egli è in atto di muover frettoloso verso Traiano, cui dirige lo sguardo. Nell’insieme e nei particolari questa è una delle più belle figure scolpite nell’Arco. Le proporzioni del corpo, la stupenda notomia delle parti nude, la naturalezza e spigliatezza della posa, la grazia dell’insieme, l’espressione del volto, sono i pregi che io ravviso in essa.

Nel secondo piano sono tre altre figure, delle quali due nel mezzo del quadro. Di esse quella più prossima a Traiano è in abito da guerriero, identico affatto a quello che indossa Adriano nel quadro XVIII, e per conseguenza tralascio di descriverlo. Egli ha viso molto giovanile, capelli crespi, adorni di una corona di alloro. Ha la destra mano mancante, con il relativo antibraccio, ma si scorge che doveva accennare al vicino personaggio, mentre gli posa sul capo la sinistra, e si rivolge a Traiano. Rossi, [p. 157 modifica]non avendo ben ravvisato questi nella prima figura verso la cantonata, ha preso addirittura una cantonata con dire che il giovane guerriero sia Traiano. Esso, invece, è Adriano, quasi imberbe, come potè essere pria di una certa età, in cui si crebbe la barba, secondo abbiam visto. E non mancan monete e medaglie in cui vedesi effigiato imberbe, come in un rovescio, dove leggesi scritto: SECVR. AVG COS III. La eleganza del portamento, le forme più svelte del corpo, il volto più gentile, men tondo di quello di Traiano, i capelli crespi che questi non ebbe, nè ha negli altri quadri, ben dimostrano che egli sia Adriano.

Ho detto che egli posa la sinistra sul capo della figura che gli è accosto. Questa è di un giovane imberbe, che porta la solita tunica e il mantello, di cui con la sinistra regge un lembo, che gli scende rovesciato dall’omero. Manca della destra e di tutto l’antibraccio. È ritto, a piè giunti, in atto rispettoso ed umile di chi è introdotto alla presenza di un superiore e gli vien presentato. Le sue vesti non differiscono da quelle del personaggio che reca lo scettro e il labaro.

Tra questi due giovani, alle spalle del primo di essi, si vede scolpita nel terzo piano una figura muliebre, cinta la testa di alloro e di corona turrita. Ella è rivolta pure a guardare in direzione di Traiano.

Alle spalle di costui, nel secondo piano, è la terza figura, che accennai, di uno dei soliti littori con la chlamys frangiata, affibbiata in petto, e con il solito fascio laureato e la scure. Così vedonsi pure le altre figure scolpite nel più basso piano del quadro.

Il lettore noti la bella composizione, l’armonica disposizione dei personaggi, che l’occhio abbraccia tutti in un colpo, senza alcun disturbo dell’unità di concetto; ed ammiri la solita spiccata loro espressione, per cui sembra che la vita li animi addirittura. Questo quadro è di un effetto drammatico bellissimo.

Che cosa esso esprime? Rossi l’intitola l’incoronazione. Vediamo di provarci a intenderne il significato. Ma, pria di tutto, un po’ di storia.

Allorchè, per la congiura di Eliano Casperio e le molestie e gli insulti di costui, l’Imperadore Nerva si decise ad adottare Traiano e ad associarselo nell’imperio, questi si trovava in [p. 158 modifica]Germania; e fu ai 18 di settembre, secondo alcuni, o ai 27 o 28 ottobre, secondo altri, dell’anno 98, dopo una segnalata vittoria riportata nella Pannonia. Il Senato nello stesso giorno gli conferì i titoli di Cesare e di germanico59; indi a poco ebbe quello d’Imperadore e la tribunizia potestà: Simul, filius, simul caesar, mox imperator, et consors tribunitiae potestatis, et omnia pariter, et statim factus es60. Nerva, come vedemmo, gli scrisse di suo pugno: Telis Nerva tuis lachrymas ulciscere nostras61.

Non era peranco giunta a Traiano la nuova di essere stato appellato Cesare e Germanico, che gli pervenne quella della proclamazione imperatoria, e poco appresso l’altra della morte di Nerva e dell’esaltazione assoluta al trono62, tanto che egli ignorava ancora una cosa quando la nuova dell’altra gli perveniva63. Egli allora aveva circa quarantaquattro anni64, che collima con le espressioni di Plinio65; «quella maturezza di età fin’ora non punto dichinante e quella chioma, non senza una grazia degli Iddii, anticipatamente adorna dei contrassegni della vecchiaia

In quel tempo Adriano, parente di Traiano, alla cui tutela venne affidato da suo padre, giovanissimo ancora, si trovava nell’alta Germania. Egli, appena ebbe sentore della morte di Nerva, corse il primo ad annunziarla a Traiano, che stava in Colonia, sebbene Serviano gli avesse contrastato questo onore, con fargli rompere il veicolo che lo avrebbe dovuto trasportare. Ma Adriano fece il viaggio a piedi, ed arrivò pria del messaggio di Serviano66.

Ora possiamo meglio intendere il nostro quadro; il quale non rappresenta la incoronazione, mio eruditissimo Rossi, ma nè più e nè meno che il sublime momento dell’annuncio a Traiano di tutti quegli onori, di tutti quei titoli, di tutte le riferite liete [p. 159 modifica]novelle. L’artista con leggiero anacronismo (se pur vi si riscontra) vi ha messo in iscena Adriano, già pervenuto all’Imperadore, il messo di Serviano, arrivato di poi e presentato da Adriano, l’inviato del senato con lo scettro e il labaro o insegna imperatoria.

Per tal guisa il guerriero non può essere Traiano, perchè troppo giovane, mentre questi aveva già circa quarantaquattro anni; egli è, per contrario, Adriano, allora giovanissimo come abbiam visto. L’Imperatore è il personaggio che sta sull’estremo sinistro del quadro, verso la cantonata, nel maggior rilievo. Tutti i personaggi gli dirigono lo sguardo, è evidentissimo. Egli occupa il solito posto in tutti i quadri in cui è scolpito. Il messo di Serviano è evidente nel giovane che modesto e rispettoso è introdotto da Adriano alla presenza del nuovo Imperadore. Lo scettro e il vessillo che reca l’altro personaggio sull’estremità destra del quadro indicano che egli sia il messo del Senato e che gli porta la nuova dell’esaltazione al trono. La donna dietro questi due ultimi non è Plotina ma la Pannonia, che in cotal rappresentanza noto scolpita in una medaglia del Causei67 e in altre del Montfauçon68. E questa ipotesi concorda con le espressioni di Plinio, parlando dell’adozione69: «Erano dalla Pannonia capitati i lauri, volendo con ciò gli Dei che i principii di un invitto duce fossero dal segno di una vittoria nobilitati

L’artista romano, l’ho detto e l’abbiam visto provato sin’ora, non trascurò mai nella scultura storica i più piccioli particolari che valessero a chiarire l’azione. E così, trattandosi qui di avvenimenti che si svolgevano in Germania, non mancò di scolpirvi la figura simbolica della Pannonia, per dinotare il luogo dell’adozione, e la causale del dramma. Allo stesso modo non trasandò di vestire il messaggiero e il legato di Roma dell’abito del luogo, cioè del cucullus, come abbiam veduto di sopra.

Dunque, piuttosto che seguir Rossi, il quale definisce questo quadro l’incoronazione, io stimo meglio definirlo l’esaltazione di Traiano all’impero. [p. 160 modifica]

Tredicesimo quadro grande (dell’attico, a destra dell’osservatore) Tav. XXVI.

In questo quadro entrano in azione dieci figure, disposte in quattro piani. Nel primo, in maggior rilievo, nel solito posto, cioè verso il margine esterno e colle spalle rivolte alquanto alla cantonata, vedesi la maestosa figura di Traiano. Veste la tunica ed il paludamento fermato da fibbia sull’omero destro nella stessa guisa in cui è scolpito nel quadro dell’esaltazione (Tav. XXV) in quello della istituzione dei fanciulli alimentari (Tav. XXIV) e in quello del congiario (Tav. XX.). Soltanto che questa volta il paludamento gli ricade in più maestose e artistiche pieghe sul davanti e sul braccio sinistro, lasciandogli scoverto appena il destro. Rossi vede una fodera di pelli di fiere col vello apparente negli orli di questo paludamento. Il principe ha tutti e due gli antibracci rotti, laonde non si ravvisa più l’azione delle mani; ma si può congetturare che nella sinistra avesse retto il solito rotolo o le solite tavolette, ed avesse rivolta la destra verso la prossima figura genuflessa. Porta i coturni piuttosto alti. Si appoggia tutto sul destro piede, sollevando alquanto il sinistro ed inclinando il ginocchio da quella parte in una naturalissima movenza, che traduce con molta chiarezza l’azione drammatica. Il suo volto è molto espressivo ed improntato di quella serietà che gli danno gli storici; e, se non fosse per il vandalismo che gli ha rotto il naso, sarebbe questa testa un gioiello preziosissimo; come è preziosa tutta la figura nell’insieme e in ogni minuto particolare. Composizione, disegno e plastica si sono uniti in bell’armonia a far di questo pezzo scultorio uno dei più belli del nostro monumento.

Dinanzi a lui, nello stesso piano, è scolpita una figura di donna genuflessa. Ha la solita veste senza maniche delle romane, col cingolo alla vita annodato sul seno, ed una sopravveste maestosa che in graziosi e artistici avvolgimenti le circonda il corpo nella maniera che meglio delle parole esprime al vivo il disegno. Ha scoverto il piè destro munito di sandalo. Una corona di alloro le circonda le chiome, sulle quali non porta alcuna fascia, come ritiene Rossi. Ha rotti ambedue gli antibracci, ma da ciò

che avanza intendesi che ella distendeva le mani all’Imperadore. [p. 161 modifica]

Tav. XXVI.

[p. 163 modifica]Non è esatto però quel che dice Rossi, che ella avesse premuta una delle mani sul petto in segno di giuramento. I pregi di questa figura non son da meno della precedente.

Nei due estremi inferiori, alle spalle dei due descritti personaggi, nel secondo piano vedonsi scolpite due figure muliebri, le quali si elevano dalla base del quadro dalla cintola in su, mentre il rimanente del loro corpo sembra affondarsi. Sono entrambe quasi affatto denudate, e solo verso la loro sinistra apparisce un lembo di manto; entrambe han le chiome discinte. Quella a sinistra, alle spalle della donna genuflessa, ha sul cocuzzolo una specie di copertura; e poichè manca totalmente del braccio destro e il sinistro le si asconde dietro il corpo della donna genuflessa, non se ne possono intendere bene l’atto e le movenze. L’altra, sebbene abbia la mano diritta mancante, mostra rivolgerla al vicino Imperadore, da cui chiede pietà; e nel contempo con la sinistra regge un ramo molto folto di pianta lacustre. Una canna acquatica le è scolpita a sinistra sul lembo del quadro.

Alle spalle della prima di queste due figure, sull’altro lembo, a sinistra dell’osservatore, in maggior rilievo che la dietrostante prossima figura, è scolpita una robusta quercia.

Nel medesimo secondo piano alla destra dell’Imperadore, nel mezzo del quadro, scorgesi un personaggio dalla testa meravigliosamente scolpita, che a prima giunta si giudica essere sicuramente affatto iconica, per somma naturalezza, vita ed espressione. Ha il fronte alto, i capelli un po’ corti. Porta la tunica con le maniche rimboccate, e al di sopra la toga, non il mantello, secondo vuol Rossi, il quale si è lasciato trarre in inganno dalle pieghe, che a mo’ di fascia gli cingono la vita. Quella è una parte, è il sinus, come vedemmo, della toga, che par gli cada dall’omero destro per la concitata mossa del braccio. Con la destra premente il braccio di Traiano e con la testa alquanto china verso di lui, egli è in espressivo atto di consigliarlo a favore delle tre figure muliebri che chiedon grazia ai di lui piedi. Il suo atto, l’azione sua drammatica sono più che palesi. I pregi particolari poi di questa figura, oltre che nella evidenza scultoria della testa, risiedono nella notomia del braccio, negli avvolgimenti artistici, ma non manierati, delle vesti, nella esatta inclinazione del corpo [p. 164 modifica]verso il Principe, il quale leggermente a sua volta pure inclina il capo da quella parte per ascoltarlo. Rossi a torto vuol dare a credere che questo personaggio sia uno straniero, mentre il tipo affatto romano del volto e l’atto di grandissima familiarità devono farlo stimare un ragguardevole personaggio del seguito imperiale, o un console o un generale di Traiano. E per le altre ragioni che svolgerò a suo luogo non credo neppure che possa essere Lucio Quieto, Numida, che prestò mano a Traiano nella prima guerra Dacica70. Piuttosto vi si potrebbe scorgere Lucio Licinio Sura, console e intimissimo di Traiano, il quale sapendo poco di lettere, si serviva di lui per farsi dettar le orazioni e le allocuzioni al Senato ed al popolo71.

Riportando il nostro occhio un’altra volta sulla sinistra, scorgiamo alle spalle della matrona genuflessi e della dietrostante figura muliebre un ponte di legno, tale facendolo apparire l’elevata impalcatura, superiore di molto al piano di campagna del quadro, e il parapetto o ringhiera formato di sbarra orizzontale e di travetti disposti a V. Ne riparlerò.

Su di questo ponte, il cui prosieguo ascondesi dietro il personaggio ultimo descritto e dietro Traiano, vedonsi tre figure, le quali naturalmente elevansi alquanto al di sopra di questi ultimi. Quella di mezzo, scolpita nel terzo piano, porta la toga col semplice sinus. Ai capelli ricci e folti, alla corta barba crespa, alla sveltezza del corpo si scorge a prima giunta esser Adriano, che Rossi invece con gran disinvoltura asserisce essere il vicino personaggio scolpito alla sinistra di lui nel più basso rilievo; mentre poi al posto di Adriano crede vedere Licinio Sura. Se egli, come asserisce, avesse davvero esaminate tutte le figure da presso, non sarebbe caduto in un errore così grave. E lo dico tale, imperocchè nel nostro monumento non v’ha personaggio, dopo quello di Traiano, che si ravvisi così bene come Adriano. La sua faccia però è stata alquanto maltrattata dal bersaglio dei monelli; per la qual causa ha rotte eziandio le mani.

Si sa che Adriano figurò nella seconda spedizione contro [p. 165 modifica]Decebalo come comandante della legione Minervia, e vi si condusse così bene che Traiano lo regalò del diamante avuto in dono da Nerva72; egli è dunque ben giustificato che l’artista abbia lui scolpito in questo quadro.

Alla destra di Adriano è un uomo, non in basso rilievo come dice Rossi, ma in medio rilievo, perchè nel terzo piano, in tunica manicata e col mantello, che poco si ravvisa, affibbiato sull’omero destro. Egli si eleva dall’impalcato del ponte, scorgendosi quasi tutta la sua gamba destra fra mezzo i travetti del parapetto, e muove la sinistra gamba verso Adriano, cui appoggia la mano diritta sull’alto del braccio destro, in atto anche egli di suggerirgli qualche consiglio. Al solito, tanto il suo braccio quanto la sua tunica sono scolpiti con rara maestria. Il lettore scorgerà che Rossi non ha ragione di credere che questa figura stia a fianco della donna genuflessa, quando, e perchè si trova sul ponte e per ragion di prospettiva, deve esserne tanto lontana.

Alla sinistra di Adriano, nel più basso rilievo, è scolpito di profilo il terzo personaggio che sta sul ponte. Se ne scorge solo la testa e appena una parte del petto, onde non ben distinguesi se sia togato. Ha i capelli più lunghi sul dinanzi, con ricci che gli ricadono sul fronte, e presso che rasi sul cocuzzolo, come sogliono portarli ancora oggidì i contadini su i nostri monti.

Alle spalle di Traiano, finalmente, sono scolpiti due littori, l’uno nel terzo piano, e di esso scorgesi bene la chlamys frangiata e la mano sinistra, di ottima scultura, che regge i soliti fasci laureati e la scure; l’altro di profilo nel più basso rilievo, di dietro la testa dell’Imperadore.

Pria di procedere alla spiegazione di questo quadro, ne fo notare la bella composizione e disposizione. Vedasi come sono state ben situate la figura di Traiano e della donna genuflessa, quelle delle due imploranti nei due angoli, e poi le altre, via via che si allontanano. L’occhio le abbraccia tutte in una volta in bell’armonia. È indubitato che esso è uno dei più pregevoli quadri del nostro monumento.

Rossi, che intitola questo quadro «La Dacia vinta», erra [p. 166 modifica]anche questa volta più delle altre in molti particolari. Innanzi tutto la presenza della quercia, se indica che la scena è in campagna, non dimostra affatto che sia allo sbocco di una selva; se lo artista avesse voluto ciò esprimere, vi avrebbe scolpito non una, ma più piante simili. Piuttosto dalle ghiande puossi arguire che l’avvenimento di questo quadro si svolgeva in autunno. «I cancelli di legno in quadrati obliqui incrociati fra se, e inchiodati con grossi perni,» non indicano «gli alloggiamenti imperiali e specialmente la porta pretoria», ma mostrano ad evidenza un ponte, e forse proprio quello che Traiano fece costruire da Apollodoro sul Danubio nella seconda guerra contro Decebalo, e celebrato da Dione73, il quale lo descrive con le seguenti parole: »Iterum Traianus pontem lapideum in Danubio faciendum curavit, cum ego quidem digne admirari non queo, nam etsi Traiani sunt alia opera magnifica, tamen is pons longe omnibus antecellit. Eius pontis pilaae sunt XX ex lapide quadrato, singulae absque fundamentis, altitudine pedum CL. latitudine pedum LX. distant inter se intervallo CLXX. pedum, suntque cum fornicibus coniunctae.» Tralascio per brevità il resto della descrizione, che si riferisce alla difficoltà dell’opera.

Montfauçon74 osserva che Dione abbia esagerato e non sia stato fedele nella descrizione, giacchè, egli dice, la Colonna Traiana in Roma, nella quale tal ponte vedesi scolpito, ci mostra che esso aveva interamente di pietre quadrate solo le arcate estreme con i fortilizii e le pile intermedie, e che le arcate erano non di pietra ma di legno. E di vero in questa maniera lo si vede scolpito nella sudetta Colonna. Ma ha errato Dione? A me pare di no. Egli ci dice che le pile erano ex lapide quadrato, e soggiunge che queste erano cum fornicibus coniunctae. Dunque, le pile eran di parallelepipedi di pietre ed eran fra loro congiunte da fornici o arcate. Ora i fornici potevano essere di legno, di pietre, di mattoni, senza che il loro nome fosse cambiato; giacchè anche una centina, un’arcata di legno ben poteasi dire fornice. Ma v’ha di più. Se Dione, mentre ha detto che le pile eran di pietre [p. 167 modifica]quadre, non ha ripetuta la stessa espressione per i fornici, perchè dovremmo noi attribuirgli un pensiero che certo non fu il suo, o che almeno non espresse? Per contrario, nel riscontrarsi scolpito questo ponte sulla Colonna Traiana con le pile di pietra e le centine di legname, e nel trovarsi taciuto in Dione la natura dei materiali che componevano i fornici, io oso trarre argomento che Dione trovisi in armonia col citato monumento. Ed aggiungo qualche cosa di più. La voce fornice riguardava più la speciale forma che la materia ond’era costrutto, tanto che applicavasi talora a significar tutto il tetto d’una casa, o più particolarmente, tal fiata, quella camera che avesse avuta la copertura semicilindrica; mentre testudo e chonca indicavano quelle altre che avevano il tetto emisferico o ad un quarto di sfera. E quando si volle indicare che la camera era coverta da volto di pietra, si disse: «camera lapideis fornicibus iuncta75.» Ciò è tanto vero che ci ha lasciato scritto lo stesso Dione che Adriano76 «contra metuens, ne barbari oppressis, custodibus pontis, in Mysiam facile transirent, superiores partes eius disturbari iussit.» Dalle ultime parole del qual passo facile trasparisce che Adriano fe’ smontare i parapetti, il palco e le centine, cioè tutto quello che era di legno, lasciando le pile, le testate e tutto il resto che era di pietra.

Con questa più facile e piana interpretazione del passo di Dione si viene anche a miglior consiglio a riguardo di Adriano, che dagli storici77 è stato accusato di invidia e di gelosia nella distruzione di si classico ponte, mentre pur si sa quanto egli amava le arti, quanto fosse istruito. Forse per prudenza soltanto egli si decise a togliere le parti di legno, salvo a poterle rimettere quando il bisogno l’avesse richiesto. Certo che la grandiosità e difficoltà dell’opera dovè consistere più nella costruzione delle pile che delle centine.

Questo grandioso ponte era situato laddove il Danubio fa una doppia curva presso Severin; e Bevan78 asserisce che anche [p. 168 modifica]al presente se ne vedano l’informe muratura delle spalle sulle due sponde e i fondamenti dei piloni, ma alcuni di questi soltanto nelle magre.

Il Bergier79 reca la seguente iscrizione trovata presso Ossochora nella bassa Ungheria, fra gli avanzi del sudetto ponte: PROVIDENTIA . AVG . VERE . PONTIFICIS VIRTVS ROMANA . QVID . NON . DOMET . SVB JVGVM . ECCE . RAPIDVS . ET . DANVBIVS.

Traiano passò il Danubio appena ebbe costruito questo ponte, e celeramente fece la guerra, nella quale debellò affatto i Daci, tanto che Decebalo, per non cadere in mano dei Romani, si diè la morte; e il suo capo fu portato in Roma. Così la Dacia venne tutta in podestà del popolo Romano, e Traiano vi trasferi una colonia80.

Ora, nulla di più probabile che il ponte che si vede nel nostro quadro presente sia proprio quello famoso sul Danubio, che l’artista volle scolpire per contrassegno del luogo e chiarimento dell’azione. Come dissi, se ne vede soltanto il parapetto, che Rossi scambia per le opere di difesa degli accampamenti. Ma che sia un ponte lo dimostrano ad evidenza le due figure simboliche che emergono dalla cintola in su nei due angoli inferiori del quadro; delle quali quella a destra dell’osservatore porta nella mano sinistra un fascio di piante lacustri. E nel medesimo tempo sulla sinistra di lei è scolpita sul lembo del quadro un’altra pianta lacustre, simile a quelle che vedemmo nei due timpani esterni dell’arcata nelle tavole XII e XIII. Queste due figure simboleggiano al certo la Dacia. Soltanto io non so comprendere perchè l’artista ve ne abbia messe due se il suo pensiero non fu quello di esprimere il concetto delle due guerre, delle due vittorie Daciche. E in ciò son pure discorde dal Rossi, che raffigura in questo quadro la prima delle vittorie Daciche; mentre io stimo che esso rappresenti la seconda strepitosa vittoria.

Il citato autore, il quale divaga in varie ipotesi discorrendo di questo quadro, asserisce pure che le due figure simboliche [p. 169 modifica]sudette e quella genuflessa nel mezzo rappresentino le tre regioni in cui la Dacia, secondo lui, era ripartita, e che la figura genuflessa possa appresentare la sorella di Decebalo, fatta prigioniera da Massimo, uno dei generali romani, nella prima guerra Dacica, entro una fortezza presso la città di Sarmigetusa81. Ma sappiamo pure, e lo vedemmo, parlando del quadro XXIII, che Decebalo, dopo questa disfatta, venne egli stesso a prostrarsi ai piedi di Traiano. Ora non mi sembra possibile che l’artista abbia voluto così mal tradurre il concetto di questa prima vittoria sulla Dacia, omettendo il protagonista, Decebalo; mentre la prigionia della sorella sarebbe stato un episodio di minor conto rispetto all’azione principale.

E ciò dal lato storico; ma vi ha qualche altra cosa ancora, più rilevante, da notare. Questa figura genuflessa veste ad un di presso alla foggia delle matrone romane, e, di più, ha il capo cinto di un serto di alloro. Ora, è egli verosimile che l’artista abbia potuto così scolpire una prigioniera, sorella di un re barbaro?

Vi sono molte monete di Traiano, sul cui rovescio vedesi variamente raffigurata la Dacia vinta o umiliata82; ma non mai al modo come si vede qui scolpita. Piuttosto questa figura ha alquanta simiglianza con quella che si nota in una tavola del Montfauçon83 che egli intitola provincia soggetta, dove appunto si vede la figura del vincitore e quella della provincia soggiogata genuflessa a lui dinanzi nella maniera identica che nel quadro nostro.

Avendo già veduto che Traiano, subito che ebbe soggiogata quella regione, vi condusse una colonia, più verisimilmente il quadro presente potrebbe indicare la Dacia ridotta in provincia, anzi che la Dacia vinta. Così si spiegherebbe la corona di alloro al fronte della figura genuflessa.

Quattordicesimo quadro grande (dell’attico, a sinistra del riguardante) Tav. XXVII.

E siamo giunti all’ultimo dei quattordici grandi quadri di questo insigne monumento; ma questa volta noi proviamo una [p. 170 modifica]stretta al cuore nel vedere che vi manchi uno dei pezzi più importanti, certo proprio quello che definiva il quadro, che gli dava il vero significato. In tutte le antiche incisioni che mi son venute fra mano ho notato che vi è segnata questa mancanza, la quale io stimo prodotta da grande tremuoto dei secoli scorsi, avendo osservato che una lesione, anzi uno spaccato bene appariscente, corre in diagonale dall’attico e proprio dal quadro presente sino al fornice. Caduti da si grande altezza, i pezzi che mancano non ebbero anima pietosa che li avesse raccolti, e andarono perduti. Chi sa se il tempo li rimetterà in luce per fortuna di qualche scavo o di qualche diroccamento di muraglie vicine.

Ma, fatto notevole, mentre questo quadro è mancante del suo pezzo più importante, le figure che ne restano, meno le solite mutilazioni degli antibracci o delle mani, si mostrano nell’insieme molto meglio conservate che in qualsiasi altro quadro del monumento. E fu fortuna, perchè in questo quadro può farsi uno studio coscienzioso ed esatto dello stile e dei pregi delle sculture del nostro arco. Solo a guardarlo nello insieme esso ci attrae, ci seduce più che gli altri che abbiamo esaminati. Eleganza di disegno, bellezza di composizione, squisita finezza di esecuzione si riuniscono in un prototipo di perfezione a formar di questo quadro nel suo stile grandioso uno dei più classici gioielli dell’arte Romana. E mentre il mio occhio non è mai soddisfatto di averlo a sufficienza ammirato, e non osa staccarsene, io penso alle vuote accademie, che a volta dispensano allori immeritati, a volta sono avare di entusiasmo dinanzi ai veri capolavori dell’arte antica.

Non volendo, l’esame di questo quadro mi riporta alle considerazioni che feci di sopra. Come dissi, non è vero che i romani non abbiano avuto il gusto e il sentimento dell’arte, e che sieno stati affatto pedissequi dei greci84, imperciocchè lo aver questi chiamati in Roma a lavorare, ma obbligandoli ad una maniera affatto sconosciuta alla Grecia, attesta soltanto che se l’opera dello scalpello fu greca il sentimento però fu romano. Io non [p. 171 modifica]

Tav. XXVII.

[p. 173 modifica]intendo Hope85 quando afferma che i Romani non possederono gusto squisito per le bellezze dell’arte, nè genio inventivo, ed ebbero mente sterile quando trattavasi di creare il bello. Oh, che forse non sono ammesse le assimilazioni, le trasformazioni, le reminiscenze d’un’arte, la quale, se non declinò completamente, non si presta più, integra, ai bisogni dei tempi e delle mutate condizioni di luogo? Per contrario, l’arte d’ogni tempo non fu che l’armonico accordo di reminiscenze dell’arte trascorsa di tutti i tempi e di tutti i popoli con i bisogni attuali.

Non si è avverato mai il caso, nè si avvererà, che un’arte sia morta d’un tratto completamente e ne sia surta un’altra di getto, indipendente tutta dalla prima. Il vero artista, come il fonditore che di varii metalli prescelti con criterio forma una lega per le sue armoniosissime campane o per le sue statue, riunisce nella sua mente alcuni elementi delle varie età artistiche e li disposa mirabilmente all’opera nuova che ei va lavorando. Non è forse creazione anche questa, non è genio inventivo questo il suo?

Non mai però come nel periodo cui si riferisce il nostro monumento potrebbe dirsi che ai romani non mancava il gusto per le bellezze dell’arte e il genio inventivo, se, come abbiam visto e come sappiamo per tanti versi, proprio in quest’epoca sorgevano questo Arco maestoso, quello di Ancona, l’altro di Roma, il Foro Traiano, la Basilica Ulpia, la Colonna coclide a Traiano. E che potremmo poi dire di più dell’epoca di Adriano!

Già, queste son le solite fisime degli accademici e dei pedanti, i quali non si adattano ad intendere che l’arte si trasforma nei secoli e si modifica nei varii ambienti. Stupendo, leggiadrissimo il porticato greco, ma poteva esso bastare ai bisogni moltiplicati dei romani? Certo che no. A questi occorreva l’arco, adatto a covrir grandi vani, più capaci. Naturalmente con l’applicazione dell’arco venne trasformato tutto l’organismo e vennero variate le ordinanze architettoniche.

Ma, torniamo al nostro soggetto. Se artisti greci lavorarono, [p. 174 modifica]adunque, in questo monumento e sotto la direzione di Apollodoro, greco ancora egli, essi dovettero però armonizzare la linea ellenica alla composizione romana. Ne uscì dai loro scalpelli questo capolavoro che stiamo ancor ammirando.

Quattro figure avanzano di questo quadro, disposte in due piani, Diana nel maggior rilievo, Silvano, Cerere e Bacco nell’altro piano.

Diana, che va nel novero delle dee silvestri, detta artemis dai greci per la sua costante pudicizia, cui si volle consacrare86, figlia di Giove e di Latona e sorella di Apollo, è qui scolpita nelle sembianze sue più consuete e nelle vesti più proprie; di corpo snello, con l’abito corto, adatto per la caccia e con la faretra, siccome la descrive Ovidio:

Talia succinctae pinguntur crura Dianae,
Cum sequitur fortes fortior ipsa feras.

Porta una specie di tunica stretta alla vita dal cingolo del pudore e rovesciata sulle anche, donde poi la gonna scende sino al di sopra dei ginocchi. È la veste che ella chiede al padre Giove:

«Cingermi corte vergate gonnelle87»

Ha la manica, a mezzo braccio, lavorata a riprese con bottoncini, come la figura muliebre del quadro XVIII. Una cintura, passandole a tracollo dall’omero destro, sostiene una faretra cilindrica con orlo rilevato e coperchio emisferico sormontato da pometto. Ha nude le gambe, ed ai piedi porta alti coturni di pelle con testa di animale sull’alto del gambale. Porta la chioma semplicissima su di un volto assai gentile ed ingenuo, ed ha le poppe verginee, non molto pronunziate, coverte con pudicizia. Avendo gli antibracci mancanti, non sappiamo che cosa ella reggeva con le mani. Pare che stendeva la mano destra verso la figura principale perduta; e forse con la sinistra reggeva l’arco, [p. 175 modifica]ravvisandosi presso il gonnellino, sull’alto della coscia, un pezzetto di marmo in rilievo che poteva ben essere un estremo di quell’arma. «Salve Diana Virgo; nam Venatorius hic habitus, arcus ille quem manu tenes, et illa pharetra sagittis instructa, quam suspensam gestas ab humeris, et pectus cervina munitum pelle, et illa oris species severe mitis, austera suaviter, audax verecunde, ornata negligenter, te illa omnia virginem praedicant.88» Tutta questa descrizione risponde a capello con la nostra Diana; e se non par che ella abbia la pelle di cervo sul petto, notisi che qualche cosa di simigliante le passa di sotto l’ascella sull’omero sinistro, e si annoda con una fibbia circolare sull’omero stesso.

Io non so, nè voglio aggiungere altre parole per ispiegare i pregi speciali di questa figura, imperocchè il disegno, sebbene picciolo, ne dà sufficienti particolari. Solo fo notare l’elegante drappeggio della tunicata posa stupenda della gamba sinistra. Questa figura è molto simigliante ad una che riporta il Montfauçon89.

Diana era ritenuta anche la custode dei porti e delle vie, come dai seguenti versi di Callimaco90 appare:

«Per terre molte e per marine prode
     In dono ti verranno are e foreste,
     E di porti e di vie sarai custode

Alle di lei spalle, proprio nell’angolo sinistro del quadro (destro rispetto al riguardante) è la maschia figura di Silvano, così detto dalle selve cui presiedeva91, il quale da lungi, se non si è ben accorti, si scambia per Ercole.

Rossi dice sia Pane, che confonde con Silvano, mentre furon due distinte deità silvestri92, sebbene altri abbian fatta pure la stessa confusione. Se amendue furono rappresentati con il corpo mezzo umano e mezzo caprino dall’ombelico ai piedi, al primo non manca quasi mai l’attributo suo speciale, la siringa, [p. 176 modifica]istromento musicale primitivo di sua invenzione; di più non lo si ritrova scolpito in sembianza totalmente umana. Per contrario Silvano è raffigurato talvolta con l’intero corpo umano, come nel nostro monumento vedesi e nel Montfauçon93; ed a somiglianza di Pane reca in mano un ramo di pino o di cipresso con il relativo frutto. Veramente Pane dovrebbe portare un ramo di pino e Silvano quello di cipresso, l’albero a lui sacro, nel quale egli mutò il suo diletto fanciullo Cipresso, di cui ammazzò il cervo94; Virgilio95 disse:

Et teneram a radice ferens Sylvane cupressum.

Ma, come nei citati esempii del Montfauçon, talfiata lo si trova che reca un ramo di pino con le pine attaccate.

Nel nostro quadro egli è scolpito di forme molto virili, maturo, ma non vecchio come vien descritto da Pomey96, nè così basso della persona, come lo stesso autore vorrebbe. Ha folti e ricciuti così la barba come i capelli, ricinti di un serto di pino o di cipresso. Una pelle di capra o di cervo gli covre tutto il corpo, e un lembo ne scende sin quasi sopra il ginocchio sinistro, mentre la testa di detto animale gli pende sul petto dallo stesso lato sinistro. Con la mano manca sostiene un grosso ramo di pino, portante due pine. Ai piedi ha una calzatura affatto simile a quella di Diana. Egli pure rivolge il guardo verso la figura distrutta.

Le bellezze di questo Silvano risiedono principalmente nella perfetta scultura della testa, nella squisita notomia del ginocchio e della mano sinistri, che son le parti più appariscenti.

Alla destra di Diana è scolpita Cerere. La vedemmo altra fiata nel quadro XIX; ma questa volta ha qualche variazione. Qui, come allora, ella è raffigurata aitante della persona, pur venerabile, con la sua veste lunghissima, stretta dal cingolo alla vita e rimboccata due volte al di sotto delle anche; pur con la face [p. 177 modifica]nella mano sinistra; ma sul capo ha solamente un serto di spighe, essendo ella la vaga

«Ritrovatrice de la bionda spiga97».

Però questa volta ella ha qualche contrassegno più caratteristico, la turgida mammella che scappa fuori dallo sparato della veste «protentisque mammis turgente sinu98».

La elegante bellezza del di lei corpo doveva imitare le bellezze spettacolose della terra, allorchè la natura le prodiga i suoi doni; il fulvo dei capelli il color dorato delle spighe, giunte al colmo della maturità; le mammelle pien di latte la provvidentissima cura del nutrimento, così come le donne e le piante per i loro frutti, onde venne detta eziandio Dea Alma ed Altrice; la face è quella che ella accese al fuoco dell’Etna, nel rapimento di Proserpina per parte di Plutone e di cui illumina tutte le cose99.

Di lei Ovidio cantò100:

Prima Ceres unco gleba dimovit aratro,
Prima dedit fruges, alimentaque; mitia terris;
Prima dedit leges. Cereris sunt omnia munus.

Non si ravvisa che cosa recava nella man destra, perchè l’ha rotta; forse vi potea portare un manipolo di papaveri, secondo il suo costume101.

L’elegante profilo del volto e di tutto il corpo, la ricchezza dei ripiegamenti della stola fan di questa figura un vero capolavoro. Quale purezza di linee, quale espressione, quale studio di proporzione si ravvisano in essa!

Le sta a destra un bellissimo Bacco, di cui avanzano soltanto la testa e parte del busto. Esso è raffigurato ignudo, con un tenue panno che gli pende ripiegato dall’omero sinistro. Sul capo [p. 178 modifica]ha un serto di vite con foglie e grappoli d’uva, e con la sinistra sostiene elevato al di sopra della testa di Cerere un elegante tirso dai nastri svolazzanti, sormontato da una pina formata di foglie di edera. Con quanta eleganza ha la mano intesa a reggerlo!

Egli ha volto ilare, assai giovanile, alquanto femminilmente scolpito. Peccato che siasi perduta la più gran parte del suo corpo, giacchè egli è là proprio d’appresso dove il marmo è mutilato.

Questi è il Bacco cantato da Ovidio102:

. . . Tibi inconsumpta inventa;
Tu puer aeternus, tu formosissimis, alto
Conspiceris coelo; tibi, cum sine cornibus adstas,
Virgineum caput est.

Egli era detto Liber e Liber Pater, a liberando, e come Dio liberator era adorato in tutte le città libere quale simbolo della libertà. Fu detto pure Triumphus, perchè i soldati nei trionfi, nello ascendere al Campidoglio, esclamavano: Io triumphe!103

Rossi crede distinguere Plotina in Diana, Adriano in Silvano e Marciana in Cerere, ma a parer mio non vi è fondamento. Per Adriano in ispecie è proprio un assurdo il supporlo nelle sembianze di Silvano, giacchè (lo dissi nell’esame del quadro dei fanciulli alimentari) egli non era così grave e corpulento, nè così irsuto, ma di volto gentile, aitante della persona, ed aveva barba e capelli ricci, non folti e irsuti. Però chi prendesse ad esaminare questa testa e quella del militare nel quadro dei fanciulli alimentari troverebbe tra loro una simiglianza perfetta; onde è a supporre che un altro personaggio storico sia in ambedue i quadri scolpito sotto il doppio simbolo.

E se spingesse l’esame anche al personaggio che vedemmo scolpito nell’angolo destro (rispetto all’osservatore) del quadro XVI, e che dissi poter rappresentare Plinio Secondo, ed all’Ercole del quadro XIX, scorgerebbe del pari che essi sono somigliantissimi alle due figure sudette.

[p. 179 modifica]

Azzardo una ipotesi: fosse egli Plinio Secondo questo personaggio proteiforme? Già sembrommi riconoscerlo nel quadro del giudizio dell’eredità di Tirone (tav. XVI). Ora, se quest’ultima ipotesi ha valore, mentre ha base storica perchè egli intervenne in tal giudizio, e se non si nega la simiglianza della presente con le altre accennate figure degli altri quadri, può ritenersi che sia anche egli qui scolpito sotto le sembianze di Silvano, sapendosi, oltre a ciò, il suo amore per la campagna e per le sue ville.

La figura di Cerere è simigliantissima pure a quella del quadro XIX, e quindi non potrebbe ella essere Marciana, tanto più che somiglia eziandio alla figura muliebre del quadro XVIII.

Riserbomi far meglio questi raffronti allorquando le impalcature degli anditi nei prossimi restauri del monumento permetteranno un più minuzioso lavoro di comparazione.

Rossi intitola questo quadro: voti pubblici per Traiano e sue ricreazioni in campagna. Mancando le altre figure del quadro, fra le quali proprio il protagonista, ogni ipotesi sembrami azzardata. Malamente, però, a creder mio, il sudetto autore suppone che la figura del protagonista mancante sia Traiano, imperocchè questo quadro, come il corrispondente sulla facciata interna dell’attico (tav. XIX), doveva contenere soltanto deità. Ne poi vi sarebbe stato spazio sufficiente in quel tratto che è rotto per allogarvi quelle figure e quegli utensili dei voti o sacrifizii che egli vi suppone.

Ben diversamente da ciò che pensa lo stesso autore sono scolpiti tre voti di Traiano a Silvano, a Diana, a Marte e ad Apollo nell’arco di Costantino104. Neppure mi sembra ben giustificata l’altra ipotesi delle ricreazioni in campagna, a giudicar soltanto dalla presenza dei sudetti numi campestri. Piuttosto stimo che ognuna di quelle deità debba esprimere, sotto le apparenze di un simbolo, un fatto speciale della vita di Traiano.

Rossi vedeva il lato debole della sua seconda ipotesi nella mancanza di campagna, di sfondo, di prospettiva, di alberi nel quadro presente, ma asserì non pertanto, che ciò non metteva [p. 180 modifica]nulla in essere. E pure questa obbiezione è molto seria, giacchè abbiam visto nei quadri esaminati che non vi manca quasi mai qualche cosa di simile per definire o chiarire il luogo della scena.

Voti pubblici nò, ricreazioni campestri di Traiano neppure; piuttosto questo quadro può significare il consesso di tutte le deità tutelari della famiglia Ulpia, all’oggetto di esprimere col loro simbolo le grandi azioni di Traiano esplicate per mezzo della sicurezza, della libertà, della floridezza dell’agricoltura e del commercio, della costruzione e restauro delle vie nelle provincie; alla maniera stessa che nel quadro XIV vedemmo raffigurata l’amministrazione civile di lui in Roma105. Ricordandoci che Callimaco chiama Diana, tra l’altro, custode delle vie, che ella è con le altre deità campestri di questo quadro rivolta alla campagna, cioè alle provincie, che da quest’arco moveano le vie per l’oriente, si ha buon argomento per ritenere più la mia ipotesi che quella di Rossi.

Ma, ripeto, nel dispiacevole incontro di un quadro mutilato, io non oso azzardare giudizii, nè metter fuori altre ipotesi.

Note

  1. Storia illustrata del regno vegetale del dott. Aloisio Pokorny, versione ital. di Teodoro Carnel, Ermanno Loescher, 1871, pag. 102.
  2. Atlante di Botanica Popolare, ecc. Vol. III. pag. 280, a tergo, Napoli presso Raimondo Petraroia edit. 1881-86.
  3. Op. cit. num. 852.
  4. Muratori, Annali d’Italia, vol. I. pag. 422, Napoli Mariano Lombardi, edit. 1869.
  5. Muratori, op. cit. ivi— Sifilino, compendio di Dione, nella vita di Traiano.
  6. Bellori, op. cit. tav. 24, 26, 27, 51, 44.
  7. Op. cit. pag. 74 del tom. II.
  8. Aula, op. cit. vol. I. pag. 207.
  9. Paolo Pedrusi, I Cesari in medaglioni, tav. XX, fig. V. e VI.
  10. Montfauçon supplemento all’op. cit. tom. I. tav. XLVIII, LIII, fig. 1 e 3; la stessa opera tom. I. tav. CXXIV, fig. 1, tav. CXXX, fig. 2, tav. CXXXVI, fig. 2 e 3.
  11. Id. op. cit. tom. I, pag. 199.
  12. Op. cit. tom. I. tav. LXXXIX, fig. 4, e testo pag. 224 e seg.
  13. Op. cit. tom. II. del supplem. tav. LIX, e pag. 227 del testo.
  14. Sifilino, Comp. di Dione, nella vita di Traiano.
  15. Paneg. capit. XIV.
  16. G. L. Bevan, Manuale di geografìa antica, prima traduzione Italiana, Firenze, G. Barbera, 1889, pag. 58 e 652.
  17. Bevan, op. cit. pag. 669 e 671.
  18. Muratori, op. cit. nella vita di Traiano.
  19. Vedi pag. 99
  20. Panegirico, capit. LVI.
  21. Pag. 83.
  22. Pag. 93.
  23. Op. cit. cap. 1144 e 1145.
  24. Sifilino, op. cit. nella vita di Traiano. Muratori, Annali d’Italia, edizione cit. vol. 1. pag. 420 e seg.
  25. Bellori, op. cit. tav. 31.
  26. Muratori op. cit pag. 402 del vol. I.
  27. Sifilino, Comp. di Dione, nella vita di Traiano.
  28. Montfauçon, op. cit. tom. IV. tav. XVI, fig. 1.
  29. Op. cit. tom. III. pag. 82.
  30. Lo stesso, tom. III, tav. VLVI fig. 2.
  31. Op. cit tom. III, pag. 65.
  32. Op. cit. num. 349.
  33. Op. cit. num. 363.
  34. Muratori, op. cit. nella vita di Nerva.
  35. Muratori, op. cit. nella vita di Traiano.
  36. Capit. XXVI, XXVII e XXVIII.
  37. Sifilino, Comp. di Dione, nella vita di Traiano.
  38. Nella vita di Traiano.
  39. Capit. XXVIII.
  40. Antichità dei Liguri Bebiani, raccolto e descritto dal P. Raffaele Garrucci della Comp. di Gesù— Napoli, Gaetano Nobile, 1845. pag. 18.
  41. Della celebratissima tavola alimentaria di Traiano, scoperta nel territorio Piacentino l’anno MDCCXLVII, Dalla Reale stamperìa, Torino MDCCXC.
  42. Op. cit. vol. I. pag. 302.
  43. Paolo Pedrusi, I Cesari in metallo grande. Tom. VI, pag. 242, tav. XXVI, fig. 1. e Pittarelli, op. cit. tav. II.
  44. Autori ultimi cit. il 1.° tom. II. tav. XXXII. fig. 3 e 4, il 2.° tav. I. e II.
  45. Vedi Bellori, op. cit. tav. 30.
  46. Pedrusi, op. cit. Tom. III, tav. X, fig. X. e pag. 151.
  47. Lib. 6.
  48. Montfauçon, op. cit. Tom. I. pag. 6.
  49. Pomey, op. cit. pag. 173.
  50. Pedrusi, op. cit. Tom. IV. tav. IV, fig. III, e tav. X. fig. XII.
  51. Paneg. capit. XXVIII.
  52. Id. capit. XXVI.
  53. Paneg. capit. XXVII
  54. Pedrusi, op. cit. Tom. IV. tav. IV. fìg. VIII. E Montfauçon. op. cit. Tom. I. tav. CCVI. fig. 1, 2, 3 e 4.
  55. Luogo ultimo citato pag. 333.
  56. Vedi a pag. 53 di quest’opera.
  57. Aula, op. cit. tom. II. pag. 42.
  58. Id.op. cit. tom. I. pag. 208.
  59. Muratori, op. cit. vol. 1. pag. 387.
  60. Plinio, paneg. cap. VIII.
  61. Sifìlino, comp. di Dione, nella vita di Nerva.
  62. Murat. luogo ora citato.
  63. Plinio paneg., capit. IX.
  64. Muratori, luogo ultimo citato.
  65. Paneg. cap. IV.
  66. Muratori, op. cit. vol. 1. pag. 388.
  67. Op. cit. tom. II. pag. 93, tav. 17.
  68. Op. cit. tom. III, parte I. tav. CXIII.
  69. Paneg. capit. VIII.
  70. Sifilino, comp. di Dione, nella vita di Traiano — Muratori, op. cit. id.
  71. Muratori, id.
  72. Muratori, op. cit. nella vita di Traiano.
  73. Sifilino, comp. nella vita di Traiano.
  74. Op. cit. Tom. IV. pag. 186, tav. CXV.
  75. Calepinus septem linguarum alla voce Fornix.
  76. Sifilino, compendio di Dione, nella vita di Traiano.
  77. Muratori, op. cit. nella vita di Traiano.
  78. G. L. Bevan, Manuale di Geografia Antica, Firenze, Barbèra, 1889, pag. 711, in nota.
  79. Histoire des grandes chemins de l’empire romain; e nota 2a alla lettera IV del libro VIII di Plinio Secondo a Caninio Rufo, ediz. cit.
  80. Sifilino, comp. di Dione, nella vita di Traiano.
  81. Rossi, op. cit. num. 461. Muratori, op. cit. nella vita di Traiano.
  82. Pedrusi, op. cit. Tom. II. tav. XXX e XXXI.
  83. Supplem. all’opera citata, Tom. IV. tav. XX, pag. 42.
  84. Pag. 43 e 70.
  85. Storia dell’architettura, traduz. dall’Inglese in Francese di A. Baron e prima italiana dell’Ingegnere Gaetano Imperatori, Milano, Paolo Lampato 1840, pag. 48.
  86. Pantheum Mythicum, op. cit. pag. 209.
  87. Callimaco, Inno a Diana, traduzione di Dionigi Strocchi. Barbera, ediz. diamante, 1869.
  88. Pantheum Mythicum, op. cit. pag. 209.
  89. Op. cit tom. I. tav. LXXXVII. fig. 4.
  90. Inno a Diana, da poco citato.
  91. Pantheum, op. cit. pag. 201.
  92. id.op. cit. pag. 197 e 201.
  93. Op. cit. Tom. I. pag. 173 e seg. tav. CLXXVII, fig. 1, 2 e 3.
  94. Opere e luoghi ultimi citati.
  95. 1, Georgica.
  96. Pantheum Mythicum, pag. 201.
  97. Callimaco, Inno a Cerere, traduz. ed ediz. citate.
  98. Pomey, op. cit. pag. 178.
  99. Pomey, op. cit. pag. 182.
  100. Metam. 5.
  101. Pomey, op. cit. pag. 178.
  102. Metam. 4.
  103. Pomey, op. cit. pag. 62 e 63.
  104. Bellori, op. cit. tav. 33, 35, 37 e 39.
  105. Pag. 78.