Il Canzoniere (Bandello)/Alcuni Fragmenti delle Rime/CLXXXIII - Stancar si può la lingua in dir, begli occhi

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CLXXXIII - Stancar si può la lingua in dir, begli occhi

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CLXXXIII - Stancar si può la lingua in dir, begli occhi
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CLXXXIII.

È la terza, ed ultima, Canzone degli Occhi, in cui esalta la Mencia.


Stancar si può la lingua in dir, begli occhi,
     Le vostre grazie e doti,
     Ma non già tutte, n’io restar mai sazio;1
     Ch’un pensier vuol Amor ch’ognor mi fiocchi
     5In mezzo l’alma, e noti2
     Cose a lodarvi di gran tempo e spazio.
     Ond’io lodo, e ringrazio3
     La sua virtù, che m’ha di Voi sì accenso.
     Che d’altro mai non penso,
     10Nè parlar posso, che di vostra fiamma,
     Benchè ne scriva appena una sol dramma4.
Tolto di me v’avete sì l’impero,
     Ch’ad ogni vostra voglia
     Quel di me fate che vi piace, e aggrada.
     15Ed io di Voi contento più non chiero5,
     Nè vuo’ ch’altra mai voglia
     Quest’alma, fin che ’l corpo in terra cada.
     Voi di virtù la strada
     Prima m’apriste col tremante raggio,
     20Onde timor non haggio6
     Smarrir la via, poi ch’ei m’è fatto guida,
     Tant’è vostr’alma luce chiara e fida.
Per Voi la vita, or non mi spiace, ch’era
     A me noiosa, e a sdegno,
     25Quando viveva peggio assai che morto.
     Occhi beati, senza cui si spera
     Indarno gir al segno7,

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     Che di riposo scopre il vero porto.
     Ond’io, ch’accese porto
     30Vostre dolci faville in mezzo l’alma,
     Con così cara salma8
     Vommene lieto, e d’alto desir vago,
     Nè più di basse voglie il cor appago.
Veggio, begli occhi, che temprate in modo
     35Il fuoco, ond’io m’incendo,
     Che d’eterno gioir mi fate erede.
     E sì m’acqueto, e dolcemente godo,
     Che chiaro pur comprendo,
     Che questa gioia, ogn’altra gioia eccede.
     40E tengo ferma fede,
     Che s’io son vivo in tant’affanni e pene
     Da Voi non d’altro viene;
     Che da’ bei vostri raggi, e lor aita
     Nasce il vigor, che mi nodrisce in vita.
45Vile era, anzi pur morto prima ch’io
     Del vostr’altiero sguardo,
     Luci serene, avessi ancor contezza.
     Ma com’il vago lume m’infollìo9
     Col fuoco, ove sempre ardo,
     50Ratto conobbi allor la mia bassezza;
     Ed ebbi per certezza,
     Che chi per Voi sospira, al vostro fuoco
     Come s’infiamma un poco,
     Si cangia tutto, e tutto si trasforma
     55E nova prende qualitate, e forma.10
Lasso! se l’ombra poi pel fragil velo,
     Ond’io vo’ basso e grave,
     In me di Voi la luce non ombrasse,
     Amante mai non visse sotto ’l cielo
     60Vita dolce e soave,

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     Ch’al mio piacer di dietro non restasse.
     Ma le mie forze casse11
     Di virtute al gentil vostro gran carco
     Fan che nel dir son parco,
     65Per ciò che cosa Voi divina e santa,
     Ed io vile e mortal di terra pianta.
Pur ciò ch’io scorgo, e spesso in carte spiego,
     Così m’acqueta il core,
     Ch’altro non bramo, tanto mi diletta,
     70Nè mai dal mio voler punto mi piego,
     Che ’l vostro gran favore
     Ogni dolcezza, ed ogni pace alletta.
     Nè credo che perfetta
     In terra senza Voi più cosa viva,
     75Perchè da Voi deriva
     Tutto quel ben, che qui s’agogna e cerca,
     Che vostra grazia, non tesoro merca.
Già l’ho ben detto, Amor, che la mia lingua
     Non è bastante, e forte
     80De’ begli occhi scoprir la gran virtute.
     E se talor avvien, che ’n me distingua
     La lor beata sorte,
     Onde dipende sol la mia salute,
     l’veggio allor che mute
     85Sarìan le lingue dotte, ed ispedite12.
     Perch’ a’ begli occhi unite
     Son tante grazie, e parti sì divine,
     Ch’umano ingegno non vi scorge il fine.
Tu viverai con l’altre13,
     90Povra Canzon, tra queste canne e rive
     Delle bell’acque vive.
     Ed io col fuoco di bei raggi ardenti
     Starò per far i giorni miei contenti.

Note

  1. Vv. 1-3. Stancar la lingua, cfr. Petrarca: «Stancar la penna», Canz., LXXIII, v. 91. — N’io, nè, nè mai io.
  2. V. 5. Noti, è il precetto dantesco da noi già riportato nella nota al v. 32, Canzone LIX.
  3. V. 7. Reminiscenza dantesca: «Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio», Inf., VIII, v. 60, e petrarchesca: «Et al Signor ch’i’ adoro e ch’i’ ringrazio», Canz., son. CCCLXIII, v. 12.
  4. V. 11. Una sol dramma, una minima parte, confronta Dante: «Senz’essa non fermai peso di dramma», Purg., XXI, v. 99.
  5. V. 15. Non chiero, arcaismo, non chieggo.
  6. V. 20. Haggio, ho, altro arcaismo.
  7. V. 27. Gir al segno, al cielo; già detto in canzone precedente, v. 53. Svolge in modo prolisso il concetto sobriamente espresso dal Petrarca in esordio, Canz., LXXII, vv. 1-9.
  8. V. 31. Cara salma, peso, delle dolci faville. La rima è tolta dalla corrispondente canzone petrarchesca: «Vostra mercede, i’ sento in mezzo l’alma |. . . . . . . . . . | La qual ogni altra salma», Canz., LXXI, 76-78.
  9. V. 48. M’infollìo, mi rese folle d’amore, m’invaghì; cfr. sonetto XV, v. 7.
  10. V. 55. Qualitate e forma, si nobilita com’è detto più sopra, v. 45.
  11. Vv. 62-63. Casse, prive di virtù.
  12. V. 85. Dotte ed ispedite, al contrario della sua che, modestamente, sottintende incolta e tarda.
  13. V. 89. Con l’altre due precedenti.