Il Parlamento del Regno d'Italia/Antonio Ranieri

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Antonio Ranieri

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Liborio Romano Stefano Gallina

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deputato.


Dovendo parlare di un uomo della mente e del patriottismo del Ranieri, cui, bisogna dichiararlo aperto, l’Italia va debitrice di libri tanto dotti quanto ispirati dal più sviscerato amore di lei, di un uomo infine di cui Leopardi fu l’intimo amico, non si saprebbe essere abbastanza esatti, nè abbastanza estesi. Quindi è che precedendoci a guida un’operetta scritta con molta sapienza, e calore del signor Francesco Chieco, della quale avremo più d’una volta occasione di citare intieri squarci, ci faremo intorno a questo chiaro e benemerito personaggio quel più e quel meglio che potremo.

Il Ranieri è nato in Napoli, da famiglia agiata e civile, il dì 8 settembre del 1806, e studiò in quella università, fino al 1820 in cui, dopo il tradimento di Ferdinando I di Borbone, il giovinetto, che dava già ombra a quel governo sospettosissimo, veniva dal padre allontanato dalla città nativa, per visitare Roma, Bologna e Firenze.

In questa metropoli, nella quale allora eransi refugiati tanti illustri italiani, quali il Colletta, il Pepe, il Poerio e il Tommaseo, il Ranieri si fece uno studio particolare di perfezionare i suoi apprendimenti filologici, nel tempo stesso in cui apparava la saviezza e la fermezza civile, da quegli egregi che frequentava assaissimo, e che ebbero a concepire di lui le più liete speranze.

Dopo un breve soggiorno a Bologna, durante il quale, ebbe lezioni da quel sommo linguista che era il Mezzofanti, il Ranieri passò in Francia, ove ebbe ad amici oltre gl’italiani Botta, Scalvini ed Ugoni, i francesi Guizot, Cousin, Constant, Villemain, e Thiers, ma sovra ogni altro, il Tracy, il Lamennais e Lafayette, assistendo assiduamente alle lezioni, che alcuni di questi sommi davano alla Sorbona.

Ranieri, durante il suo soggiorno, fu testimonio della celebre rivoluzione di luglio, la quale valse a [p. 1011 modifica]produrre una durevole impressione nel di lui animo, e a dargli speranza ch’essa potesse, come disgraziatamente non accadde, influire sui destini d’Italia.

Passato quindi in Inghilterra, ove si trattenne alcun tempo per conoscere le cose le più notevoli e gli uomini i più distinti di quell’illustre paese, si recò a visitare la Germania, fermandosi in Berlino e in altre città tedesche, a studiarvi i vari sistemi, filosofico-storici, che resero celebri quelle università.

Dopo così lunghi viaggi, Ranieri avrebbe voluto finalmente rientrare in patria, se non che il Governo borbonico, il quale lo teneva d’occhio durante le sue lunghe peregrinazioni in terra straniera, informato delle amicizie illustri contratte dal giovinetto, non si spaventasse di ciò ch’egli avrebbe potuto per avventura fare, una volta che fosse rientrato nel regno, converti il consiglio di viaggiare che aveva dato d’apprima, in un esilio assoluto. Contesogli di tal maniera il soggiorno della nativa città, il Ranieri si restitui a Firenze, la città sua prediletta, da dove faceva frequenti escursioni a Pisa, in una delle quali, ebbe occasione di avvicinare quel sommo italiano che era il Leopardi, col quale non tardò a legarsi in istrettissima amicizia. È in questo punto, e su questa importantissima fase della vita del Ranieri, che noi cederemo la parola al Chieco, che la descrive con la maggior esattezza.

«Leopardi, tutti lo sanno, era un tronco umano che penava e pensava. Il padre suo, amicissimo del Canosa, d’abbietta memoria, autore di un catechismo, in cui definisce gli uomini, cose di re, come i polli di chi li compera, uno dei capi della setta dei Calderari, avaro, quantunque agiatissimo, e pieno di mal talento verso il figlio che aveva opposte inclinazioni, negava a questo, fuori della casa paterna, tanto quanto necessitava a farlo vivere, ancorchè modestissimamente. Leopardi adunque, povero, deforme di corpo, esulcerato l’animo di dolori e delusioni, increscioso a se, ad altrui, aveva necessità di un’amicizia piena di annegazione assoluta, la quale gli facesse sopportare quella vita, che era morte lenta del corpo, e martirio continuo della mente.

[p. 1012 modifica]«In ogni parte d’Italia l’amicizia è affetto potente, per gl’Italiani di Napoli è passione: nati sotto un sole che brucia, educati vicino ad un vulcano perenne mente ignivomo, si direbbe che il loro cuore partecipi dell’uno e dell’altro; il Napoli l’amicizia è vulcano per chi la sente, è sole benetico per chi ne fruisce. Ranieri conobbe Leopardi e per quell’istinto ordinario dei generosi che più amano quanto più chi imprendono ad amare è immeritatamente destituito d’affetti e di speranze, l’amò come rarissimamente suolsi amare. Ottenne, dopo lunga insistenza, di tornare a Napoli; e perchè si credeva quell’aria poter recare giovamento all’amico contemporaneamente affetto da tisi e da idrope, lo condusse seco sperandone benefici effetti. Nei paesi di Napoli al settentrionale sorge la collina di Capodimonte, lieta d’aranci, di fiori e d’aure miti; colà Ranieri fattasi compagna nel generoso officio la sorella Paolina, condusse in un suo casinetto l’amico Leopardi. Quando l’una delle infermità che travaglia vano la vita di quel grande infelice dava tregua al suo corpo affranto, allora, a trovar rimedio all’altra, una villetta del parentado di Ranieri, nelle falde del Vesuvio, accoglieva i tre amici.

«I miei lettori che avranno senso di gentilezza, comprenderanno e ammireranno, considerandolo, questo esempio stupendo d’amicizia e annegazione: erano due esseri che si sacrificavano per un altro! - Al povero ammalato si mandava buona ogni fantasia; gli si faceva venire il pane dalla città distante tre leghe, si faceva andare a letto la mattina, levarsi la sera e desinare a mezzanotte, vivere fra le tenebre tra le quali nascondeva con fiero pudore il suo dolore e la sua infermità. Lo si circondava dei medici i più bravi; o poi si lottava non solo contro il suo male, ma anche contro lui stesso, giacchè abusava di tutto; se gli si permetteva il caffè, ne beveva venti tazze.

«Venne il 1836, e con esso il colera; Leopardi ne fu sbigottito ed incominciò a presentire la sua prossima fine, tutte le sue lettere di quel tempo lo mostrano.

«Come fra le acque sconvolte dell’Oceano i marinai si adoperano a salvare il legno diletto su cui [p. 1013 modifica]crebbero e corsero gli spazi interminati dei mari, e quanto più i marosi offendono la nave, e tanto essi con maggiore alacrità, si consigliano a salvare se e la casa galleggiante; così a misura che il corpo di Leopardi si disfaceva, Ranieri e sua sorella moltiplica vano, l’intelligenti ed amorose cure, pietosi di lui e di sè, che senza di lui restavano derelitti, Un’illustre italiano scrisse che in due occasioni la donna si mostra veramente sublime: vicino ad una culla e presso al letto d’un infermo; e a chi ben riguardava, sublime al certo doveva sembrare la giovinetta Paolina Ranieri presso il letto di dolore del gran moribondo. Amorevolissima, previdentissima, piena di annegazione, ella non si allontanava un momento dal letto dell’infermo, e s’ella era soddisfatta quando Leopardi, ammirato, le diceva: «Paolina mia, tu mi fai dimenticare la Paolina di Recanati? l’Italia deve ricordarsi ed essertene grata, che le supreme consolazioni a Leopardi furono pôrte da lei».

Questi mori il 14 giugno 1837.

«Il colera inferociva a Napoli, e per la grande quantità, tutti i morti seppellivansi alla rifusa in fosse indistinte; uno dei potenti, il ministro della guerra, morto in quei dì, andò nella fossa comune. Ma che cosa non può carità d’amico? Leopardi ebbe sepoltura separata. A chi muove in Napoli per la incantevole riviera di Chiaja, si presenta a destra di Mergellina, scavata sotto al monte una grotta detta di Posilippo, oltrepassata, s’incontra un villaggio chiamato Fuori-Grotta, nella chiesuola di quel villaggio, intitolata a San Vitale, a sinistra di chi entra,, posa il corpo di Leopardi.

«Sulla facciata del monumento di marmo, è questa iscrizione dettata da Pietro Giordani:

Al conte Giacomo Leopardi recanatese
filologo ammirato fuori d’italia
scrittore di filosofia e di poesia altissivo
da paragonarsi solamente col greci
che finì di xxxix anni la vita
per continue
malattie miserissima
fece Antonio Ranieri
per sette anni fino all’estrema ora congiunto
all’amico adorato, mdcccxxxvii.


[p. 1014 modifica]«L’amicizia che finisce colla vita di chi si ama è abbietta ostentazione, e quando non si vive coll’amico estinto, e l’estinto con noi, l’amicizia è vanità che pare affetto.

«Quella di Ranieri sopravvisse a Leopardi. Sono secoli parecchi, che la terra e contristata da un sodalizio inverecondo, il quale ha per istituto di fare le tenebre colå ov’è la luce. Ov’esso è il delitto regna, dov’esso passi lascia una striscia di sangue versato per ire fraterne, da esso attizzate; suo cibo è per la calunnia, suo intento, l’abbrutimento universale, il quale fine santifica qualunque mezzo. Avendo la coscienza della propria abbiezione, quando non può nuocere diversamente agli onesti, li fa credere pari a sè, il che è atroce; vi ha forse vituperio maggiore del l’esser detto gesuita?

«Quando Leopardi morì, cotesto sodalizio il volle far credere dei suoi! Sarebbe stata lusinghiera vittoria per esso mostrare alle genti, come un filosofo quale Leopardi, si fosse convertito in gesuita; l’umanità intera ne sarebbe arrossita, ma il sodalizio inverecondo appunto perciò avrebbe trionfato.

«Ranieri provvide all’onore oltraggiato dell’amico, commettendo al Gioberti, non potendolo lui, pel luogo in cui viveva, la vendetta del grande defunto.

«Dopo aver salvato il corpo di Leopardi da sepolcro ignoto, dopo aver salvato il suo onore dalla più nefanda macchia che possa deturpare onore di uomo, Ranieri amico perfetto, provvide alla fama ed alla gloria dell’estinto.

Nel 1845, pei tipi di Le-Monnier aa Firenze, pubblicò in due volumi le opere di Leopardi riordinate secondo l’ultimo intendimento dell’autore, premettendovi una notizia intorno agli scritti, alla vita ed ai costumi di esso, breve, ma stupendo lavoro.

«Cosi Antonio Ranieri compiva i suoi offici d’amico verso Leopardi che amo tanto, e a cui serbò perenne nell’animo un culto d’amore e d’ammirazione».

Per discorrere adesso del Ranieri, in quanto allo scopo politico al quale ha mirato nelle sue opere storiche e filosofiche, è necessario, che noi ricordiamo [p. 1015 modifica]brevemente al lettore, come in Italia, dal momento in cui, questa gran madre delle nazioni, si è ridestata dal sonno letargico nel quale l’avevano immersa le corruzioni cortigianesche dei suoi tirrannidi, cioè, dopo il primo impero francese, e le tremende catastrofi, che, durante quello, succedettero, e di cui l’Italia stessa fu sovente il teatro, si «livise in due scuole filosofico letterarie, le quali entrambi, prefiggendosi quella meta che era pure la ricostituzione del nazionalismo italiano, intendevano a quella meta stessa per due diversissime strade.

E primi a mettersi in una via, la quale pure conduceva, secondo essi, al fine desiderato, furono coloro i quali credettero opportuno di contrastare con tutte le loro forze quella scuola derivata dalla filosofia del secolo XVIII, filosofia generatrice della rivoluzione del 1789, e di tutti i grandi avvenimenti che la susseguirono. Quella filosofia, obbiettarono gl’instauratori della nuova scuola, se da un lato poteva vantaggiare le menti colte, spogliandole d’ogni irragionevole prudenza, e proclamando la dignità ei diritti dell’uomo, non poteva dall’altro canto, che tornare pregiudichevole alla massa del popolo, il quale vivendo più di sentimento che di ragione, non poteva accettare quelle teorie emancipatrici senza andare a passo precipitevole verso lo scetticismo e quell’inerzia fatalissima ai popoli, come quella che li trascina troppo spesso alla servitù.

Il primo organo di questa scuola, che fu detta lombarda, fu quel periodico il Conciliatore, che ebbe a collaboratori molti dei più distinti tra gli scrittori del nostro tempo; campioni principali di esso furono i Manzoni, i Grossi, i Pellico, e più tardi nel campo storico e speculativo, i Cantù, i Balbo, i Troya e i Gioberti.

Dall’altro canto sorse una associazione nella nostra penisola, la quale si elevò a custoditrice della vecchia tradizione italiana, quella tradizione trasmessaci da Dante in poi, passando per Macchiavelli, ed altri sommi, mediante la quale si riteneva il passato come il più fiero nemico dell’unità e della nazionalità [p. 1016 modifica]d'Italia, non che di tutte le libertà che la maturezza dei tempi indicava dover esser concesse ai popoli.

Principali fautori di questa seconda scuola detta Toscana, furono i Guerrazzi, i Nicolini, ed il Mazzini stesso, nonchè il Giusti e il Ranieri.

Questi, esule ancora, aveva visitato l’Inghilterra nella sua prima gioventù, come avemmo luogo di menziorarlo al principio di questa notizia, e colà aveva visitati attentamente gli istituti di beneficenza; tornato in Napoli, volle visitare a lor volta, i numerosi stabilimenti di carità della grande metropoli italiana, ed ebbe ad inorridire dell’enorme differenza, che esisteva tra i primi amnirabilmente tenuti, e i secondi in cui si vedeva dominare, ogni sorta di pessimo abuso.

Il Ranieri credette utile di far testimone, per così dire, il mondo della corruzione di ogni sorta che a volto scoverto regnava in quella branca dell’amministrazione, come in tutte le altre del regno di Napoli, e pubblicò un suo romanzo intitolato: Ginevra, o l’orfana dell’Annunziata, che è libro scritto in lingua purissima, e in cui si rinviene conoscenza profonda del cuore umano, caratteri spiccati, e stupendamente ritratti.

Questo libro, pubblicato in Isvizzera, ebbe molte edizioni, e fu causa dell’imprigionamento dell’autore, al quale, i reggitori di Napoli, non potevano perdonare di avere svelato a quel modo le infamie che si praticavano da essi, o dai loro dipendenti.

Tuttavia si temette che più tardi, il dotto scrittore, non fosse per rivelare altre nefandità di quello sgoverno, e si giudicò opportuno, dopo quarantanove giorni di prigionia, di cavarlo dal carcere.

Abbiamo già detto come il Ranieri fosse uno dei più ardenti campioni della scuola toscana; a sostenere meglio il suo intento, ed a dimostrare che se l’Italia è stata, durante molti secoli, il campo su cui gli stranieri sono calati a contendersi e a dividersi le sue spoglie, il merito debba attribuirsene al passato. Egli scrisse la storia d’Italia dal V al IX secolo, ossia da Teodosio a Carlomagno.

Del qual libro, se ci riesce impossibile di dare [p. 1017 modifica]un'analisi come vorremmo, minutissima, non possiamo tuttavia trattenerci dal riportarne la conclusione.

Questa si riferisce all’epoca, in cui papa Stefano, comprendendo di quanto nocumento fosse il maritaggio di Carlomagno con la figlia di Desiderio re dei Longobardi, Ermengarda, gliela fece ripudiare, con immorali mezzi, e trasse l’imperatore in Italia a danno di Desiderio.

Ecco, questa notevolissima conclusione:

«Cosi acciocchè il pontefice romano potesse divenire principe secolare e regnare, cadde in Italia la potenza reale dei Longobardi che intendeva in ogni modo a riunirla per dar luogo ai nuovi ordini che la dividevano inevitabilmente per undici secoli. Sorse in quella vece la potenza imperiale dei Franchi, non in Italia, perchè mai poscia quest’imperatore non dimorò in Italia, ma fuori. Questa potenza imperiale non concesse diritti all’Italia sopra nessuna nazione, ma dettevi pretesto a molte nazioni di avere alcun diritto sopra di essa. Il quale pretesto quante sventure, quanto sangue e quanta serviti fruttasse all’Italia lo sa il mondo intero, senza bisogno delle mie storie. Caddero i Longobardi italiani per dar luogo ai Franchi stranieri, i quali tramandarono ad altri stranieri, e questi ad altri ancora un titolo che, vano per tutt’altro, fu efficacissimo solamente a insanguinare l’Italia, dalle Alpi al l’estrema Sicilia.

«E il dire che i Longobardi alla fine del secolo VIII non fossero italiani, ma stranieri, è cosa tanto scempia che quasi, anzi certamente non merita risposta veruna. Ogni gente che va a conquistarne un’altra, salvo il caso in cui le diverse religioni, e l’intolleranza di esse vietassero la mistione delle razze, il qual caso non è il nostro, prende, dopo una o al più due generazioni, la lingua ed i costumi della gente conquistata; perchè il più vince il meno, e i conquistatori sono sempre un piccolissimo numero verso i conquistati. Questa è legge eterna del genere umano alla quale non potevano essere un’eccezione i Longobardi. Allora, ancorchè il conquistatore abbia ridotto in uno stato misero e servile il conquistato, la quistione dopo [p. 1018 modifica]una o due generazioni potrà essere fra il signore e il servo, fra il nobile e il plebeo, ma non più fra il nazionale e il forastiero, potrà essere una questione di ordine sociale ma non più una questione d’indipendenza nazionale.

«In effetto, alla caduta di Desiderio i Longobardi erano già tanto italiani che la corte di Roma, a malgrado dell’immensità del suo sdegno, non potette cacciarli d’Italia, perchè il pretendere ciò alla fine del secolo VIII, sarebbe stato tanto assurdo, quanto sarebbe stato il pretendere al XII, di cacciare gli Arabi e i Normanni di Sicilia. Solamente potette operare che, invece di obbedire a Desiderio, eletto da loro, e nato in Italia, ma nemico al pontefice, essi obbedissero a Carlo, eletto dai Franchi è nato in Germania, ma amicissimo a quello.

«Laonde si conclude, primieramente che se i Longobardi fossero stati veramente stranieri, la corte di Roma, cacciando Desiderio e chiamando Carlo, non avrebbe già ottenuto di cacciarli d’Italia, ma li avrebbe soltanto costretti a mutare dinastia, il quale mutamento sarebbe stato poco meno che indifferentissimo ai Romani italiani oppressi da quelli; e in secondo luogo ch’ella, in sostanza, non che sottrarre i Romani italiani ai Longobardi stranieri, sottopose anzi i Longobardi italiani ai Franchi stranieri......

«E però sarebbe da desiderare che cessasse l’ipocrito zelo di alcuni che, nutrendo nel fondo del loro petto pensieri alieni da ogni vivere libero e civile, vanno, quasi sfogo all’impeto loro, contro quello straniero medesimo che trionfo in Italia sulle ali delle loro teoriche spargendo tanto loro veleno contro i Longobardi, per avventura loro progenitori. Questo veleno dovrebbero spuntarlo contro a certi altri stranieri, verso i quali si mostrano più che agnelli mansueti.

«Quel Carlo che stanca da undici secoli tutte le penne le più instancabili d’Europa, fu grande non per sè stesso perchè nulla di grande mi riesce di scorgere nell’indole sua malvagia e crudele, ma fu grande come simbolo di un’èra novella. Però questo titolo di grande ch’egli non ebbe mai, mentre visse, gli fu conceduto [p. 1019 modifica]soltanto due secoli dopo la sua morte, cioè quando la posterità potè cominciare a comprendere quale elemento della storia del genere umano egli era destinato a rappresentare.

«L’apparizione di Carlo segnò il termine di quel grande ordine d’invasioni, onde travagliò tutta la terra dal IV all’ VIII secolo; il quale travaglio fu certamente l’effetto di cause che oltrepassano i confini fatali del l’intelletto umano. Dopo Carlo nessun popolo non cangiò, insino a noi, la sede che si aveva scelta; e solo furono veduti i Normanni solcare l’oceano come quei radi lampi, che solcano ancora il cielo dopo il cessare della tempesta.

I quattro secoli che intercederono fra Alarico e Carlo furono, nell’ordine politico, quello che i grandi diluvi furono nell’ordine naturale. Carlo appari come l’iride in sul cessare di quel diluvio, e come l’iride è in sè stessa una muta refrazione di raggi solari, ed appare alle genti una viva promessa di serenità, così Carlo fu in sè stesso un fiero ed ambizioso sicambro, ed apparve al genere umano l’iride della nuova età che spuntava.

«Di questa età, la quale in comparazione dell’antica e della presente, ci piacque di nominare media, furono ultimi frutti il secolo XV e XVI in Italia e in Francia, in Inghilterra e in Germania il secolo XVII. Ora pare che i maravigliosi rivolgimenti del secolo XVIII e del presente XIX sieno principio ad un terza età, le cui conseguenze, visibili soltanto ai nostri posteri, scioglieranno l’antico problema se la specie umana sia nata a rigirarsi eternamente in sè medesima fra le stessi coipe e gli stessi dolori, e se il desiderio indomito che ogni uomo trasporta in sè dalla culla alla tomba d’una felicità che finora non fu mai sulla terra, sia non un’illusione per la promessa d’una verità alla quale non si giungerà che per un lungo ordine di secoli e di sciagure».

Questa citazione che noi abbiamo fatto della conclusione dell’istoria del Ranieri, sarà stata gradita ai nostri lettori, i quali avranno potuto giudicare che essa come la lingua in cui è scritta, sia delle più [p. 1020 modifica]pure, come lo stile, ne sia chiaro e scorrevole. Essi non potranno d’altronde non ammettere come cosa maravigliosa, che trent’anni or sono, a Napoli potesse concepirsi e scriversi un’opera di quella fatta. Invano però, si tento di pubblicare quell’opera nella metropoli napoletana, e solo nel 1841, vide la luce a Bruxelles. Non diremo qual polemica sconcertasse quella pubblicazione, e come i gesuiti ne flagellassero l’autore, di articoli violenti, su gran numero di giornali.

Nel 1840, Leopoldo II ebbe la buona ispirazione di confidare al Ranieri la cattedra di storia nell’università di Pisa. Allora questi scrisse i Prolegomeni di una introduzione allo studio della scienza storica, che erano una specie di prolusione alle lezioni di storia che intendeva dare in quella università. Ma, recatosi il gran duca di Toscana a Napoli, fu presto dissuaso da Ferdinando II di chiamare a professore in Pisa un uomo della qualità e dei sentimenti del Ranieri.

Più tardi, questi pubblicò in Napoli un’operetta, che eragli chiesta da alcuni cittadini, amicissimi suoi, e deputati degli asili infantili di quella città. Ei la scrisse sulla loro preghiera, onde servir potesse ad un tempo, di bene morale a quei fanciulli come libro di lettura, e di bene materiale, vendendosi il libro a beneficio degli asili stessi. Questo libro fu intitolato Frate Rocco.

Diciamo ora qualche cosa della vita politica del nostro protagonista.

Egli, mediante i suoi viaggi, e le sue buone opere trovandosi avere sconcertata la propria fortuna economica, fecesi avvocato, e divenne ben presto uno dei più famosi nel foro. Quando nel 1846, Pio IX salì al pontificato, e che fu un momento creduto in Europa, che dovesse dal papa venir il risorgimento d’Italia, il Ranieri, non pose mai fede nell’efficacia e nella costanza dell’iniziativa papale, e perciò non prese parte alla rivoluzione dell’anno 1848. Ma, al contrario, dopo il 1859, egli cominciò a preparare l’opinione pubblica in Napoli, agevolando così per sua parte, la maravigliosa liberazione che ebbe luogo nel 1860. Nel 6 settembre infatti, Ranieri fu il primo di quei sessanta patriotti, che il comitato nazionale di Napoli, [p. 1021 modifica]inviò incontro al celebre dittatore. Più tardi, gli fu conferita la sopraintendenza del reale albergo dei poveri, ch’egli avrebbe accettata, senza, bene inteso, percepirne gli emolumenti, quando tuttavia gli si fosse concesso facoltà abbastanza larghe per fare importanti riforme. Ma questo non avendo ottenuto, egli credette dover rifiutare l’incarico. Nominato professore di storia in Milano, e di filosofia dell’istoria nell’istituto di perfezionamento in Firenze, avrebbe accettata quest’ultima cattedra, ove non avesse avuto ugual nomina per l’università della patria, Napoli, cui naturalmente dette la preferenza, sempre però, rinunziandone lo stipendio.

Si sa, come egli non accettasse la carica di consigliere di Stato, concessagli dal conte di Cavour, e la dignità di senatore, conferitagli dal ministero Rattazzi, fiero del mandato affidatogli dai suoi elettori di Napoli, che aveanlo eletto a rappresentare al Parlamento nazionale.

Il Ranieri è assiduo alle sedute della Camera o al lavoro degli uffici, avendo preso posto al centro sinistro.