Il Parlamento del Regno d'Italia/Cesare Cantù
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deputato.
Anche qui, avendo troppo a dire dell’uomo di lettere e dello scrittore storico, siamo costretti a dir poco, se non vogliamo uscir fuora dei limiti che omai ci sono assegnati. Possiamo noi fare un’analisi delle opere storiche e letterarie del Cesare Cantù? chi non le conosce d’altronde? chi non le ha studiate, chi non le ha almeno percorse, chi non ne ha inteso parlare? chi non ne ha vedute delle critiche elogiose troppo o troppo severe?
Ci limiteremo a constatare che all’estero, in Germania, in Francia sopratutto, si rende più giustizia al Cantù che non gli se ne renda in Italia e si ammirano colà assai più i suoi scritti, e la gioventù studiosa vi si esercita sopra e vi medita molto più che nol faccia la nostra.
La mente del Cantù è possente, è vasta; la di lui volontà è ferrea, per ciò che riguarda almeno la costanza nel lavoro intellettuale. Non v’ha impresa per colossale che sia, la quale valga a sgomentarlo, e che incominciata ei non conduca a termine con una prontezza e una coscenziosità ammirabili. Si rimprovera allo storico di aver dato alla narrazione dei fatti quel tal colorito che si direbbe il riflesso delle di lui opinioni, e de’ suoi desideri.
In verità noi non comprendiamo come seriamente possa muoversegli tale accusa. E qual è lo storico che ha agito altrimenti? chi non vede, e quindi non dipinge nomini e cose attraverso la lente che le nostre disposizioni e impressioni ci ha messa dinanzi agli occhi, bisogna non sia già un mortale, come tutti gli altri, ma un essere di natura molto diversa dall’umana. Se noi passiamo ad esaminare l’arte dello scrittore, non abbiamo che lodi da porgere a Cesare Cantù. Il suo stile non è forse dei più spontanei, la sua lingua non è purissima; ma l’espressione è energica e va bene addentro agli eventi e ritrae maravigliosamente le cose.
Dette queste poche parole a mo’ di appreziazione, noi passiamo subito a ciò che ci riguarda più specialmente, intendiamo dire, a trattare della parte politica rappresentata in qualsiasi modo da Cantù nelle vicende italiane.
Il Cantù nel 1848, non fece grandi cose, ma si mostrò buon patriota, e si guadagnò la stima, e l’affetto della gioventù. L’Austria lo prese in uggia e quando accadde la funesta restaurazione del governo dell’aquila a due teste, al Cantù convenne fuggire da Milano, e cercare asilo in Piemonte.
Più tardi si tollerò ch’ei rientrasse, e gli si lasciò, quasi a favor segnalato, introdurre la propria istoria dei Cent’anni in Lombardia.
Venuto l’arciduca Massimiliano a reggere il Lombardo-Veneto, questi fece delle graziosità al nostro storico, il quale forse, ne fu alcun poco lusingato, mentre non si può negare che il principe austriaco, non possieda l’arte difficile (soprattutto pei principi di quella casa), di sapersi guadagnare gli animi.
Il Cantù accettò qualche pranzo, assistè a qualche ricevimento di corte, e tanto bastò per comprometterlo in faccia al partito nazionale lombardo.
Si fu in quel torno, che incominciarono a spargersi le voci, certamente fondate, le quali attribuirono al giovine arciduca, il disegno di distaccare il regno Lombardo-Veneto dall’Impero Austriaco, per erigerlo in Stato autonomo di cui egli avrebbe avuto la sovranità. Si parlava di concedere una costituzione sufficientemente liberale al nuovo ducato, che d’altronde avrebbe volentieri stretti vincoli di amicizia col Piemonte, e con gli altri Stati d’Italia, i quali si fossero avviati con sincerità nella strada del costituzionalismo e del nazionalismo federativo.
Questo progetto, si assicura, fosse stato comunicato al Cantò dal principe stesso, il quale, aggiungesi, avrebbegli dato commissione di studiare quali fossero le impressioni di coloro tra i più ragguardevoli lombardi di sua conoscenza, cui egli lo comunicasse, e di vedere, se fossevi modo, di persuaderli, ad appoggiare un piano, che sembrava offrire probabilità di una realizzazione pronta e sicura.
Il Cantù a cui questa apertura dal lato del principe sembra essere stata fatta immancabilmente, ha egli, sì o no accettato l’incarico di buon grado, e qual uomo persuaso e guadagnato al progetto? e stà che effettivamente, siasi dato attorno nell’intento propostosi dall’arciduca, onde guadagnargli proseliti?
Noi non possiamo in verun modo rispondere a tali domande, nè, sino a un certo punto, sembraci valga la pena che lor si risponda. Gli uomini i quali giudicano certe azioni dei loro simili, anche i più onesti, ed avveduti, dietro la regola degli avvenimenti compiuti, senza por mente alle circostanze, e ai tempi nei quali coloro sul conto dei quali sentenziano, hanno potuto commettere quelle tali azioni, sono gente, che dan saggio, o di mal volere, o di poca esperienza delle cose di questo mondo.
A chi si rivolga col pensiero, a ciò che era l’Italia nel 1858, quando appunto si sparsero le voci di quell’ambizioso disegno dell’arciduca Massimiliano, non può poi recare tanto disdegno e meraviglia il fatto, sia pure avverato, che il Cantù credesse cosa buona, e se non buona, meno peggiore, quella di distaccare ad ogni modo il Lombardo-Veneto dall’Austria, dandogli liberali istituzioni, e un esercito nazionale. Non poteva egli accadere, ed anzi, non era egli da supporsi, che il Cantù ammettesse, e fosse disposto a favorire quella combinazione come un avviamento a cose migliori? Ma si è detto, dopo il 1859 ben inteso, e si dice anche adesso, a più forte ragione, era un’insania, il trattare con un principe austriaco, ed era una stoltezza il contribuire alla formazione di un novello statucolo, come se l’Italia, non fosse stata già a sufficienza appezzata. In verità, anche questa obbiezione, non ha agli occhi nostri, maggior valore, di quello che possa averne una profezia fatta dopo che l’avvenimento è accaduto. Chi poteva predire nel 1858 gli eventi miracolosi del 1859 e del 1860? Ammettiamo pure, del resto, che il Cantù avesse sbagliato, ma da uno sbaglio ad una colpa, vi è gran divario, e ci pare che tanta animosità sollevatasi contro di esso, non solo sia stata soverchia per lo sbaglio, ma quasi abbia oltrepassato i limiti della punizione, che avrebbesi potuto infliggere alla colpa.
Noi altri Italiani, tra i numerosi difetti che abbiamo, possediamo quello capitalissimo, di perseguitare di una gretta invidia coloro tra noi, i quali emergono dalla folla, e si estollono, fosse pur di un capello, al disopra del livello comune. A costoro un forestiero renderà giustizia sovente, un italiano, non mai. Invece farà ogni sforzo, per denigrare la qualunque opera onde essi crebbero in fama; e se quell’opera ha in sè tanta vitalità che basti a resistere a quegli attacchi, allora non si farà più guerra allo scrittore, al pittore e al maestro di musica, ma si muoverà assalto alla vita politica, e ove non basti alla vita privata di quelli. È un brutto vezzo, e che ha deplorevoli conseguenze; ma disgraziatamente, da Dante in poi, in Italia accade sempre così. Dunque ritengasi pure, che il tolle generale sollevato contro il Cantù da certa gente, e ingrossato da cert’altra, ha una grandissima ragione d’essere nella elevazione alla quale quel dotto e illustre ingegno, è pervenuto.
Intanto che cosa si è fatto? Lo si è inasprito, lo si è quasi per davvero sviato dal retto sentiero, tanto che, in oggi, forse, ei rappresenta alla Camera un’opinione isolata e non degna della sua grande intelligenza e del suo incontestabile patriotismo.
Ad ogni modo, noi ci lusinghiamo che Cesare Cantù, non voglia in veruna guisa dar ragione ai suoi avversari d’ogni natura, e che sappia non dipartirsi, neppure per brevi istanti, da quei due grandi principii che sono: l’unità e l’indipendenza della nazione.
Alle notizie e riflessioni generali da noi sopra espresse intorno al chiaro personaggio di cui ci avevamo preso l’impegno di parlare, crediamo bene aggiungere quei particolari più precisi, attinti ad ottima sorgente, i quali serviranno a completare e a rendere più espressiva l’effigie morale del celebre storico.
Suo primo lavoro letterario fu una novella in ottava rima, intitolata Algiso o la Lega lombarda. Celebrava in quella, la federazione delle città italiane, che riuscirono a discacciare il dominatore tedesco; federazione giurata in un convento, e guidata da un frate a riedificare Milano distrutta da Barbarossa. Libertà, unione italiana, avversione allo straniero, supreminenza religiosa, furono fin da quel punto, le ispirazioni di tutti gli alti, e di tutti gli scritti del Cantù. Ove alcuni lo rimproverano di essersi conservato uguale attraverso a tanti mutamenti, altri giudicano che il merito di una vita d’uomo, come di un essere d’arte, sia l’unità.
È un fatto, che il Cantù si serbò fedele alla libertà, quando il farlo non poteva in veruna guisa rassomigliare ad una speculazione; subì prigionia due volte (1834 e 1849) e due volte fu dagli Austriaci esigliato; i suoi libri stampò sempre nello Stato ove le aspirazioni italiche non erano solo una speranza, ma una fede inconcussa; mai dai dominatori stranieri ebbe impieghi ed onori.
Le opere sue parlano continuamente dell’Italia: oltre l’istoria che di questo paese nostro tessè specialmente — la prima e l’unica che dei primordi geologici conduca la nazione fino alla giornata di Magenta — quando duravano i tempi della schiavitù egli esibiva alla gioventù esempi di virtù cittadina, proclamava la patria italiana, e i personaggi non denotava mai dal paese natio, ma diceva: Alfieri italiano d’Asti, Colombo italiano di Genova, Galileo italiano di Firenze. Il suo capitolo sulla Patria, ch’è nelle letture giovanili, non richiede nè una variazione, nè un’aggiunta dopo i nuovi destini d’Italia. La sua Preghiera del bambino divenuta a buon dritto popolare, raccomanda a Dio la patria, e ch’egli induca gli oppressori di essa a mitigarsi, e l’arricchisca di cittadini savi e operosi.
Commentando i Promessi Sposi, talmente nel governo spagnuolo ritrasse l’austriaco che meritò un processo.
Nella Margherita Pusterla delineò i processi di Stato, e mostrò qual debba essere la resistenza che all’abuso del potere abbia ad opporre la virtù.
Come già lo dicemmo ci sarebbe impossibile di analizzare le innumerevoli opere sue; ma non dobbiamo lacere ch’esse si ristampano di continuo tradotte in tutte le lingue, anche dopo trent’anni, anche dopo il cambiamento sociale avvenuto, anche dopo l’effettuazione di quei concetti e di quei desideri espressi allo stato d’aspirazione nei libri del Cantù.
Come un pontefice fu a capo della lega lombarda, così il Cantù intendeva che un papa fosse pure alla testa della rigenerazione italiana.
Ed ecco come avvenne ch’egli fosse uno dei principali fondatori di quel partilo neo-guelfo che osteggiò l’Austria in nome della libertà religiosa e dell’unione italiana; idea ch’esso, come abbiam detto, desumeva dal fatto della lega lombarda, ma che più tardi due illustri piemontesi innestarono sul trono regio rendendola così attuabile.
Venuta la pienezza dei tempi, Cantù nel Parlamento italiano sostenne la libertà dell’insegnamento, della carità e delle opere pie, della Chiesa, se non che pretendeva si avesse maggior rispetto alle tradizioni, ed alla stretta legalità che non comportino tempi in cui si compiono grandiose e radicali rivoluzioni.
Colla perseveranza dei principî spinta forse un po’ troppo lungi, e colla rigidità di opere che osiamo tuttavia sostenere rette e patriottiche, si può non acquistar grazia agli occhi di molti, sopratutto in un’epoca di gran sommovimento e di straordinarie transazioni; ecco perchè il Cantù ch’ha il nome il più popolare nella letteratura odierna, l’autore il più stampato, il più letto, e il più studiato, sia inesorabilmente, tuttodì bersagliato dalla stampa periodica e da non pochi avversato.
Egli però sa non iscoraggiarsi e sostenere con serenità il disgustoso fardello dell’impopolarità, disgustoso tanto più per il Cantù, il quale è uomo dal profondo sentire e dalla nobile e possente ambizione e che in un tempo non lontano dal presente era tanto amato, rispettato e ammirato, quanto si affetta adesso di tenerlo in non cale e di avversarlo.
Noi gli facciamo plauso di questa sua fermezza e di questa serenità in faccia alle contumelie e alle persecuzioni dei suoi nemici; noi approviamo ch’egli non lasci perciò di continuare gli importanti suoi lavori storici, e che voglia ad ogni modo assidersi al banchetto nazionale.
Abbiamo in altre circostanze manifestato qual sia la nostra maniera di pensare intorno alle astensioni in generale e sulle astensioni politiche in ispecial modo.
Crediamo che l’uomo non possa fare niente di peggio che segregarsi in certo qual modo dal consorzio dei suoi simili negando loro il contributo dell’opera sua qualunque poi ella possa essere.
Il Cantù è persona di troppa elevazione d’intelletto per non comprendere questa grande verità e per bouder la patria a cagione dei numerosi detrattori che in essa si annidano. Senza dubbio egli guarda più in alto e più lungi, e sa che la voce di chi gli grida contro oggidì non si spingerà che ad una ben meschina distanza nell’immensità del futuro, ove il di lui nome avrà senza dubbio un eco possente.
- Testi in cui è citato Cesare Cantù
- Testi in cui è citato il testo Storia di cento anni
- Testi in cui è citato Dante Alighieri
- Testi in cui è citato il testo Algiso o la Lega lombarda
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