Il Parlamento del Regno d'Italia/Roberto d'Azeglio
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senatore.
Niun italiano havvi che ignori quanto benemerita della patria sia la famiglia Tapparelli d’Azeglio. Colui del quale ci accingiamo a descrivere la vita è uno dei membri di quella i più notevoli, e cui a buon dritto deve maggior riconoscenza il paese.
Roberto d’Azeglio, figlio al marchese Cesare, è nato in Torino dalla marchesa Cristina Murazzo di Biansè, nel settembre del 1790.
Il padre, uffiziale nell’armata piemontese, emigrò, quando accadde l’invasione francese, dopo essere stato fatto prigioniero e aver temuto di perdere la vita sul patibolo sotto l’efferato governo del Robespierre, che nella sua rabbia di percuotere l’aristocrazia, non si appagava di sterminare la francese, ma, ove il potesse, sacrava pure a morte i membri di quelle delle altre nazioni.
Stabilitosi con tutta la famiglia in Firenze, il marchese Cesare d’Azeglio inviò i figli Roberto, Prospero e Massimo nel collegio Tolomei di Siena, ove stettero sino al 1807 e dove ricevettero un’ottima educazione.
Ben presto però tutta la famiglia fu costretta di rientrare in Piemonte e il giovine Roberto dovette recarsi a Parigi, ove fu nominato ad un posto di auditore presso il Consiglio di Stato.
Aggregato dapprima alla sezione di finanze, di cui il conte di Fermont era capo, venne rapidamente promosso dalla 3.a alla 2.a classe, quindi, passato a far parte dell’amministrazione centrale dei ponti e strade, ebbe missione di recarsi nell’agro romano onde ispezionare i lavori intrapresi dal governo per l’essiccamento delle paludi pontine; per ultimo, fu addetto al ministro di polizia, e inviato in qualità di commissario nella città prussiana di Lauenburg che l’impero francese erasi aggiudicata.
Colà giunto al momento dei rovesci delle armi Napoleoniche, egli corse fieri pericoli per parte delle popolazioni mal sofferenti del dominio francese, e dopo varie vicende potè ridursi in patria per dedicare i proprî servigî alla dinastia di casa di Savoja. Entrato nell’esercito piemontese in qualità di capitano, fece tutta la campagna contro la Francia, assistendo alla presa di Grenoble e all’occupazione di tutto il Delfinato e di parte della Provenza.
Cessata la guerra, il marchese Roberto potè finalmente secondare le proprie inclinazioni e darsi a tutt’uomo a coltivare gli studî delle lettere e delle arti belle, per le quali si sentiva particolarmente disposto. Lo studio della pittura l’occupò precipuamente ed ei ben presto vi fece tali progressi da dovere essere stimato dai conoscitori meglio che un semplice dilettante. Ma tali amene discipline non distoglievano l’animo dell’Azeglio da più maschie aspirazioni. Egli fin dalla caduta dell’impero Napoleonico vezzeggiava l’idea della liberazione d’Italia da ogni dominazione straniera, e comprendendo che per conseguire tale intento era d’uopo potersi stringere attorno ad un Principe di stirpe nazionale, che avesse, in certa qual guisa, servito d’emblema, di centro e d’efficace soccorso al risorgimento italiano, era uno dei primi che volgeva gli occhi desiosi sul Principe di Carignano, e lo giudicava atto alla parte capitale nella sublime impresa.
Noi non rifaremo qui l’istoria dei funesti avvenimenti del 1821. Diremo solo che l’Azeglio, il quale aveva dovuto staccarsi dal padre per aderirvi e si era anche affigliato alla setta dei Carbonari onde meglio riuscire nell’intento, compromesso, insieme ad altri molti, dovette esulare in Francia, ove restò parecchi anni soggiornando a Parigi e frequentando colà la società degli uomini i più riguardevoli nelle scienze e nelle arti.
Rientrato in patria nel 1826, il marchese d’Azeglio riprese a coltivare gli studî letterari ed artistici, finchè salito sul trono di Sardegna Carlo Alberto, che faceva una particolare stima del nostro protagonista, egli si ebbe la carica di direttore della regia Pinacoteca, creata, può dirsi, quasi unicamente da lui, che fece che le sale del palazzo Madama, ora destinate agli uffizî del Senato, e allora occupate dal Debito pubblico, fossero consacrale a raccogliere i capolavori dell’arte.
Nè a ciò si tenne pago il d’Azeglio, che creato l’istituto, provvide a compierlo in molte parti nelle quali appariva tuttavia difettoso, e a fargli allogar somme convenienti pel restauro de’ quadri e pell’acquisto di quelle opere che sembravano maggiormente opportune ad ornarlo e arricchirlo.
Una volta poi che la regia galleria fu, sotto ogni riguardo, una delle cospicue che possiede l’Italia, che tante di stupende pur ne possiede, il d’Azeglio ebbe il pensiero, di cui nol si può abbastanza encomiare, d’illustrarla con un’opera che facesse fede in patria e fuora delle dovizie in essa contenute.
Il re Carlo Alberto accettava la dedica di tale opera, corredata di magnifiche incisioni e edita dal Luciano Basadonna, la quale veniva alla luce in un lungo periodo d’anni e veniva completata in quattro enormi volumi in foglio.
Congiungeudo alle doti della mente quelle più dolci del cuore, quando nel 1855 il cholera morbus infieriva a Torino, il d’Azeglio, sfidando animoso il più fiero dei pericoli, si presentò nelle sale del Lazzaretto a servir d’infermiere, dando un nobile esempio che fu seguito da altri animosi.
Il re Carlo Alberto, ch’era tal uomo da comprendere e da apprezzare tutti i nobili sacrifizî e le prove del più alto coraggio, fece complimentare espressamente l’Azeglio di quel suo atto di sublime devozione, e il municipio di Torino gli offriva una medaglia d’oro espressamente coniata, e in pubblica deliberazione votatagli dall’intero Consiglio.
Ma a tanto non si limitava la feconda operosità di quest’uomo, che comprendendo quale e quanta influenza abbia l’educazione della donna delle classi popolane sull’incivilimento di queste classi, egli diede opera attiva a fondare delle scuole per le fanciulle adolescenti, scuole nelle quali ei prestava il proprio concorso per l’ammaestramento, e che ben presto furono molto frequentate, e dalle quali uscirono molte giovinette istrutte in modo da essere in grado da ammaestrare altri. Allato a questa scuola il marchese d’Azeglio ebbe ben presto fatto sorgere quella dei giovani adolescenti, ed altra infantile, che non tardarono pure a prosperare assaissimo e a ridondare in grande utilità per la città di Torino.
Non farà adunque maraviglia che un tal uomo, stretto in amicizia coi Balbo, coi Gioberti e con altri che primeggiavano in Piemonte, e in cui il Re poneva moltissima fiducia, avesse una gran parte nel movimento che precedette le riforme del 1848.
Egli fu che indusse il ceto dei commercianti a presentare un indirizzo al Re, indirizzo da lui redatto, nel quale si lo supplicava, non solo di concedere la costituzione, ma si lo invitava a muovere la guerra all’Austria, offrendogli la propria pecunia e i proprî averi (sono parole dell’indirizzo) per sopperire alle spese della guerra.
E quando questa guerra fu dichiarata, era intendimento del d’Azeglio di recarsi al campo per porsi al fianco del Re; se non che questi credè più utile che un uomo di sì provvido consiglio stesse in Torino, ove poteva per avventura essere alla patria e al monarca di maggiore utilità che nol fosse sul campo.
Nè dobbiamo tacere che nelle prime elezioni ch’ebbero luogo nel regno, il d’Azeglio fu scelto da ben sei collegi qual rappresentante.
Volendo discorrere con qualche esattezza della parte principalissima ch’ebbe Roberto d’Azeglio agli avvenimenti che prepararono ed ajutarono alla concessione delle franchigie costituzionali nel 1848, noi stimiamo far cosa grata al lettore citando un brano, che a ciò appunto si riferisce, della biografia dettata dal Briano e che abbiamo riscontrato essere della più schietta veridicità.
«Eransi già fatti parecchi tumulti, ora per volere una guardia cittadina, ora perchè i gesuiti fossero cacciati dallo Stato, dove ferveva contro loro una potente animavversione. Stavano coi primi ed erano di tale opinione indirizzatori gli uomini della Concordia. Lorenzo Valerio e Riccardo Sineo, i quali, pure incalzando il governo, e indirettamente il Re, perchè cacciasse dallo Stato i gesuiti, si ristavano dal chiedere lo Statuto, purchè ciò si conseguisse. Eran corsi ai secondi gli uomini del Risorgimento, Camillo Cavour, Cesare Balbo, cui, pur facendo parte da sè stesso, s’aggiungeva l’Azeglio. Fu convenuto, per veder modo di raccogliere in uno gli opposti pareri, di fare una gran ragunata a casa d’Azeglio stesso. Molti delle due parti vi concorsero; Pietro Santarosa, Camillo Cavour, Michelangelo Castelli, Giorgio Briano pel Risorgimento, Lorenzo Valerio, Riccardo Sineo per la Concordia, Brofferio pel Messaggere Torinese, il quale, benchè fra i più caldi, stava in quest’occasione con coloro che stimavano dovere il governo largire a’ popoli franchigie costituzionali. Lunga e tempestosa fu la discussione. S’aspettavano pure i deputati genovesi, ch’erano venuti per indurre il Re a cacciare i gesuiti; ma non si sa per qual ragione furono trattenuti dal convenire a casa d’Azeglio. La cosa si ridusse dunque tra gli uomini del Risorgimento e quelli della Concordia. Camillo Cavour parlò breve e senza ambagi; Sineo e Valerio furono impetuosi. Brofferio orò senza farsi applaudire, il che era segno che non v’avea pubblico per lui. Ma l’adunanza si fece poscia così tempestosa, che convenne separarsi senza aver nulla concluso. In altra ragunata tenutasi pochi giorni dopo, fu agitata altra gravissima questione. Durava in officio ed aveva ancora grazia appo il Re quel Barelli, che ad ogni passo dato nella via della libertà, adombrava e impauriva. Il Re credevalo volentieri, benchè non lo amasse, e costui andavagli rappresentando come i popoli sabaudi, in generale, non fossero per anche maturi a quelle più larghe istituzioni che la parte esaltata (accennava a quella del d’Azeglio) voleva di presente largir loro. Era necessario vincere il mal effetto delle imprudenti parole. Fu perciò determinato doversi tentare un colpo ardito, adunando in un vasto pronunciamento l’eletta della cittadinanza, non solo della capitale, ma dei municipii della provincia. A cotale dimostrazione sarebbe commosso il governo, persuaso il Re, cessate le sue irresolutezze. Fu fermato all’esecuzione il dì 27 febbrajo. Ma l’indicare il da farsi era poco, quando incerto era lasciato il modo, incerti gli operatori. Molti proponevano, ma nessuno voleva tentare, quando fu chiesto all’Azeglio di porsi a capo dell’opera nazionale: esser egli, si diceva, già stato a capo delle due dimostrazioni anteriori del novembre e dicembre del 1847; avergli la riuscita impresa della emancipazione acattolica e israelitica procacciata buona nominanza nel popolo: esser egli conto nella città e nelle provincie, conto al Re per antica devozione e famigliarità, al governo per politica temperanza, alla cittadinanza per energia di volere e di propositi; il porsi egli a capo del popolo, importare ne fossero rimossi uomini avventati e fautori di disordini, che si sapevano aspirarvi e dai cui eccessi potessero guastarsi i disegni della parte pensante e moderata: sotto la sua iniziativa, più probabile il buon esito, perciò non poter egli non arrendersi alle generali istanze in così gravi contingenze. Cedette l’Azeglio a un dovere patrio e acconsentì; scrisse subito una circolare ai municipî, acciò, con quanti più potessero adunare accorressero alla capitale il 27 febbrajo distinti dai propri gonfaloni, per fare una dimostrazione onorevole al Re, e chiedergli che concedesse un governo costituzionale ai suoi popoli. Fra i capi dei municipî, gli uni aderirono, altri si peritarono e tacquero, altri fecero aspre rimostranze. Ben comprendeva l’Azeglio essere più che insolito, inaudito il suo ardimento, e più che mai in uno Stato di così severa ereditaria regolarità amministrativa, qual si era il Piemonte; ma pensò che a casi estremi occorrevano estremi rimedî: pensò essergli il pubblico assenso incoraggimento, il pubblico bene discolpa. Se non che, quasi per provvidenza dei cieli, avvennero tra la presa risoluzione e il compimento tai fatti, che ben mostrarono essere talora un nobile ardimento, la più savia delle deliberazioni. Il 29 gennajo re Ferdinando di Napoli, dopo lungo contendere entrato ultimo nella via delle riforme, pubblicava uno Statuto pel Regno. Carlo Alberto a quell’annunzio capì che più non era da titubare: avvertito il municipio, spronato da Pietro Santarosa e l’8 febbrajo leggevasi su per gli angoli di Torino le basi d’uno Statuto costituzionale pel Piemonte.
«Nondimeno il Re era stato fino all’ultimo così geloso dell’autorità sua, che, anco poche ore prima che apparisse in pubblico l’aspettato scritto, voleva che ogni assembramento di popolo si sciogliesse, acciocchè da niuna forza esterna paresse il suo volere costretto. Era per conseguenza tuttavia arduo all’Azeglio e pericoloso il destare per le provincie un tale incendio, che avrebbe potuto aver per disapprovatore lo stesso Re e farlo forse tornare addietro dai primi propositi. A tutti, e per testimonianza propria o per tradizione, è noto il grandioso ordinamento, il fiero spettacolo e il felice esito di quella veramente festa popolare per la ricuperata libertà. La dimostrazione del 27 febbrajo, interrotta da un altro prodigioso annunzio, la caduta di Luigi Filippo in Francia e la proclamazione della repubblica, non sarà mai cancellata dalla storia. Solo le intelligenze superficiali la dissero una mostra appariscente, senza sostanza e senza significato. Gli uomini seri vi riconobbero un fatto grave che rivelò al popolo la sua forza, convinse il Re della verità del voto nazionale, ne cessò le esitanze, aprì gli occhi al governo, e atterrì i nemici delle libere istituzioni che forse speravano vederle soffocate nel loro nascere. Tanto che alcuni giorni dopo il fatto, quando compiuta con buon successo l’impresa, e applaudito dalla popolazione, avea l’Azeglio da tutti gli ordini della cittadinanza feste, conviti e dimostrazioni, per cui era a quei giorni un lungo tripudio per la città, il conte Barelli, chiamatolo una mattina al ministero degli affari interni, gli dichiarava che la condotta da lui tenuta il 27 febbrajo era stata atto di fazioso, e che il governo avrebbe dovuto sostenerlo più anni nella fortezza di Fenestrelle. L’Azeglio gli rispondeva sorridendo: «Vostra eccellenza è ancora in tempo!» Egli pensò fra sè che, se il fatto riusciva a male, il detto del ministro si sarebbe avverato. Gli dichiarava poi (e ciò malgrado suo, senza dubbio) che il Re volendo premiare la sua coraggiosa devozione gli conferiva il grado di maggior generale della Guardia nazionale, ond’era capo supremo il Duca di Savoja.
Egli è adunque chiaro da quanto abbiamo qui sopra riprodotto e che, come già avvertimmo, è pienamente in ogni suo particolare conforme al vero, che al Roberto d’Azeglio si deve in gran parte riconoscere il vanto d’aver affrettato, se non più, il desiderato momento in cui i popoli del Piemonte furono emancipati da quella rigida e dispotica tutela, all’ombra della quale avevan piuttosto vegetato che vissuto fino al 1848.
Quando poi la guerra nazionale fu bandita da Carlo Alberto, il d’Azegiio non tardò un minuto ad offrire il proprio braccio ed il senno onde combattere il nemico dell’indipendenza italiana. Se non che il principe ereditario lo invitava dal canto suo, con una lettera che poniamo nell’originale francese sotto gli occhi ai lettori, lo invitava, diciamo, a recarsi al quartier generale stanziato in Alessandria.
Ecco la lettera:
«Cher Marquis,
«Le Roi me charge de vous dire que lundi il sera à Alexandrie. Si vous voulez venir le rejoindre, il vous verra arriver avec plaisir; je suis persuadé que vous pouvez nous être d’une grande utilité.
«Je peux partir d’un moment à l’autre, de manière que je ne peux plus m’occuper pour à présent de la milice communale. Dites au ministre que vous partez pour suivre le Roi, afin que ceux qui doivent s’occuper de la milice s’en occupent.
«Mon cher, il me semble que tout va bien. Je vient de recevoir une lettre du Gouvernement provisoire qui demande qui je presse le Roi pour aller à son secours, car les forces Autrichiennes sont encore grandes, et eux n’ont plus de moyens.
«J’espère vous revoir avec grand plaisir à Alexandrie, lorsque j’y passerai en venant de Casale.
«Sayez gai; à vous revoir.
«Votre tout affectionné «Victor de Savoie.» |
Ma re Carlo Alberto, mutando poscia consiglio e pensando che il d’Azeglio la cui autorità e influenza sugli animi dei proprî concittadini gli erano note, poteva rendere anco più importanti servigî alla patria ed a lui rimanendo nella capitale, ne lo fece pregare. Obbedì il d’Azeglio, e poco dopo, quando avevan luogo le prime elezioni generali per la Camera dei Deputati, il paese dava al nostro protagonista una prova amplissima del gran conto che faceva di esso scegliendolo, come già notammo, a proprio rappresentante in ben sei collegî. Ma quasi contemporaneamente il Re lo nominava a far parte del Senato del Regno, onore che non senza qualche ritrosia era accettato dal marchese Roberto, il quale desiderava piuttosto far parte dell’altro ramo del Parlamento. Ma le vive istanze direttegli dal ministro dell’interno, marchese Vincenzo Ricci, il quale gli faceva osservare il Senato, più che la Camera, aver d’uopo di persone che numerosi collegi avrebbero elette a deputati, giacchè importava assaissimo che l’autorità degli uomini di quell’alta Assemblea fosse grande e rispettata, la vinsero sulla sua inclinazione. Nominato questore in seno al Senato, il d’Azeglio, quando sopraggiunsero i giorni delle patrie sventure, rese ancora importantissimi servigî alla capitale e allo Stato assumendosi l’arduo impegno di presiedere una Commissione, incaricata in quei difficilissimi momenti di provvedere alla sicurezza pubblica.
E la popolarità del d’Azeglio contribuì infatti assaissimo a mantener l’ordine e a ricondurre la quiete.
Sotto il ministero Gioberti il nostro protagonista, che non approvava l’andamento che il celebre filosofo imprimeva agli affari dello Stato, rifiutò la carica di sindaco di Torino, e d’indi in poi non prese altrimenti parte alle vicende politiche dello Stato che cogli assennati discorsi da esso di tempo in tempo proferiti in seno alla Camera Senatoria, discorsi tra i quali ci piace notare quello da lui pronunciato nel 1851 contro gli eccessi della stampa che rendevano impresa più che difficile il ben governare lo Stato; l’altro, col quale si fece a sostenitore della proposta di Cavour, feconda di avvenimenti sì fortunati all’Italia, e con cui si decideva la spedizione di Crimea.
Il d’Azeglio, ch’era direttore della Regia Galleria, officio al quale le sue cognizioni artistiche e l’amore tutto speciale col quale ha coltivato la pittura lo facevano più che altri adattissimo, dette la sua dimissione da quella carica nel 1854, perchè il governo si ostinava a restar sordo alle vive istanze colle quali egli il voleva indurre a provvedere di più adatta stanza le maravigliose ricchezze d’ogni genere che si chiudono negli uffici del Senato. Quanto fosse giusta e plausibile l’insistenza dell’Azeglio ognun lo comprendeva; e la prova migliore che possiamo addurre di quest’asserzione si è, che finalmente in questo medesimo anno, non appena il governo ha presentato un progetto di legge per operare il trasferimento della pinacoteca, le due Camere si sono data la più gran premura di approvarlo.
Nè dobbiamo tralasciare, avanti di dar termine alla relazione di queste notizie, di mentovare ai nostri lettori che l’opera senza contrasto la più importante che il marchese Roberto abbia prodotto è quella della Reale Galleria illustrata, della quale il magnanimo re Carlo Alberto, come toccammo più sopra, gli fece l’onore di accettare la dedica e che il Luciano Basadonna con gran cura editò, opera che ora il Lemonnier ristampa per la sua biblioteca in quattro volumi, tralasciando tuttavia le incisioni dei capo-lavori descritti con sì mirabile precisione, e giudicati e apprezzati con imitabile gusto, e come solo il può fare chi nell’arte è maestro egli stesso.
Oltre di ciò il marchese Roberto pubblicò vari opuscoli politici, ed in questi ultimi tempi alcuni articoli sul giornale il Diritto, opuscoli e articoli, che variamente giudicati, furono tuttavia letti e meditati con attenzione, come quelli che furon dettati dal senno di un uomo cui l’Italia deve riconoscere e riconobbe tra i suoi più illustri figliuoli.
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