Il bel paese (1876)/Serata XXVIII. - L'Etna

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Serata XXVIII. - L'Etna

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SERATA XXVIII


L’Etna.

Da Napoli a Catania, 1. — Topografia dell’Etna, 2. — Sua storia preistorica, 3. — I coni parassiti, 4. — Le tre regioni dell’Etna, 5. — L’Etna della mitologia, 6. — Eruzione del 1669, 7. — Una piccola Beresina, 8. — A Nicolosi, 9. — Alla Casa del Bosco, 10. — Le marmitte dei Ciclopi, 11. — Il freddo dell’Etna, 12. — Alla Casa degli Inglesi, 13. — Una notte cattiva ed un’alba peggiore, 14. — La ritirata, 15. — La cima dell’Etna come non fu vista, 16.


1. «Vi ricordate ancora della gita ch’io feci al Vesuvio il 20 agosto 1869, quand’era venuto a Napoli per recarmi a Catania?». «Vuoi che ce ne siamo già dimenticati?» rispose Marietta per tutti. «Ce ne hai parlato l’ultima volta....».

«Ebbene, fu quel giorno stesso che io e i miei compagni, appena scesi dal Vesuvio, stanchi, affamati, abbiamo dovuto in fretta e in furia fare il bagaglio quasi tra un boccone e l’altro, quindi con tanto di lingua fuori correre al porto, pigliare una barchetta che ci conducesse a bordo del vapore che ci doveva portare a Messina. Mi ricorderò sempre di quella sera, quando afferrato il bastimento e saliti sulla tolda, ci fermammo a contemplare, quasi da un balcone in mezzo alle onde, Napoli e l’incantevole riviera, che tremolavano capovolte nel limpido golfo, sotto un cielo ove tremolano le prime stelle, colla luna nascente, che piove sul golfo il suo raggio, come un pallore amabile e leggero su un bel viso tranquillamente mesto. Sul piroscafo ci trovammo molti amici in lietissima brigata. Si levano le àncore; suona la campana e il gran mostro si muove sbuffando. Che delizia, con un tempo così bello, guardare da quelle onde così lumeggiate, tutti i punti della riviera, poi l’isola di Capri!... Tutto però prendeva nuova vita al nostro sguardo dall’idea che si navigava verso la [p. 449 modifica]Sicilia, e fra un pajo di giorni avremmo veduto la sospirata Etna. Quasi volesse farci la corte, il piroscafo si chiamava appunto Etna: un bel vapore, che tagliava l’onde a piacere.

» Nulla vuo’ dirvi però del nostro felicissimo viaggio. Guai se cominciassi a montare la lanterna magica, dove vedreste passare lo Stromboli e con lui il gruppo delle isole Lipari, poi Scilla e Cariddi, poi Messina, poi..., no, no! Parliamo dell’Etna e corriam tosto a ricevere le profonde impressioni che produce nell’animo la sua vista.

» Viaggiando difatti tutta la notte dal 20 al 21 agosto, arrivati a Messina verso mezzogiorno, presa più tardi la ferrovia per Catania, dovevam presto trovarci al piede del grande vulcano. Ma intanto era venuta la notte, e solo dalle sfumature di un paesaggio notturno, solo da certe rupi più nere sopra un fondo nereggiante, potei accorgermi di essere entrato nel suo regno.

» Giunto a Catania a notte avanzata dovetti aspettare la mattina, per deliziarmi la prima volta da una finestra del Grand-Hôtel, della maestosa veduta dell’Etna, salutata in quel mattino dallo scoppio di mortaretti, e dal frastuono di un’intera città tutta in giubilo. In quel giorno infatti (domenica 22 agosto), si chiudeva la gran festa centenaria di Sant’Agata, l’antichissima patrona di Catania, festa che continuava già da tre giorni con splendore e devozione grandissima, non esente da quelle stranezze con cui si esprime la religione sempre chiassosa, sempre un po’ teatrale dei nostri fratelli del mezzodì.

» Il giorno 23 agosto si apriva il Congresso dei naturalisti, che mi tenne occupato fino al 26. Il giorno 27 era poi destinato dal municipio di Catania per la salita dei naturalisti all’Etna, di cui il municipio stesso faceva le spese. Ma io, coi fratelli e coi più intimi amici, ci accontentammo di accompagnare la numerosa carovana fino a Nicolosi, ritornando a Catania la sera. Perchè, direte, non seguire il congresso? Aspettate ch’io vi abbia detto quali siano gli agi che s’incontrano sulla vetta dell’Etna, e allora mi direte voi se, in tali condizioni, avreste il coraggio di consigliare quella corsa a brigata molto numerosa. Poi io voleva esser libero d’intrattenermi, di divergere nel caso, di fare insomma come voleva, o piuttosto come deve chi studia. La nostra gita fu adunque differita fino al 29 agosto, e l’Etna per intanto ci accontentammo di rimanere a Catania a contemplarla.

2. » Osservata da Catania, non la si direbbe nemmeno un [p. 450 modifica]cono vulcanico. S’ingannerebbe a partito chi credesse, recandosi a Catania, di rivedere il Vesuvio fatto più grande e più massiccio. Tutt’altro: anzi l’Etna non sembra nemmeno una montagna, ma piuttosto una piccola catena di montagne. Fu giuoco forse d’amore del suolo natio, se io vi trovai a prima giunta una certa somiglianza col Resegone. Eppure l’Etna ha anch’essa fondamentalmente la forma di un vero cono vulcanico: soltanto esso è così enorme, è così ricco di accidenti, è così guasto da tante intestine rivoluzioni, che la forma schietta del cono scompare agli occhi del riguardante e gli accessorî vincono il principale. Cominciate a dire che ha una base grandissima in confronto dell’altezza. È vero, che si leva immediatamente dal mare fino all’altezza di 3317 metri, secondo le recenti misure dello Stato maggiore italiano; ma il diametro della base misura circa 16 volte questa altezza, essendo la circonferenza del cono, alla base, su per giù di 87 miglia geografiche di 60 al grado. Poi questa specie di piramide così tozza, comincia alla base con un pendio morbidissimo, quasi con un piano. Il pendio si fa ben tosto più sentito, e così via via, mano mano che si ascende, finchè la vetta bisogna proprio guadagnarla arrampicandosi sopra un’erta, la quale non può vantar meno di una inclinazione di 45 gradi. Ma non c’è alcuna regolarità nemmeno in questo crescendo che v’ho detto. Da un cono che venisse le mille volte sobbalzato, decapitato, squartato, sventrato, che cosa volete che n’esca fuori? L’Etna è un vulcano così antico!... Dopo tante Profilo della regione più elevata dell’Etna. peripezie è assai se mantiene ancora l’embrione della sua forma primitiva, la quale non potè essere che quella di un cono. Non si finirebbe infatti di dire quanto se ne allontani. Alla base, per esempio, presenta una serie di terrazzi, quasi una gigantesca [p. 451 modifica]gradinata. Quando è giunta così all’altezza di 2900 metri, si restringe d’un tratto, come avesse le spalle, e forma un piano circolare, una specie di collare, detto Piano del lago, dal cui mezzo si leva la testa, voglio dire un bel cono dritto e slanciato. Ma anche il collare che vi ho detto non gira interamente intorno al collo dell’Etna, ma presenta in un certo punto uno sparato, cioè una tremenda squarciatura da cui l’Etna è letteralmente squartata sul fianco orientale fino alla sua base. Questa squarciatura la chiamano valle del Bove, e dovrò riparlarvene in seguito. Il cono poi, che si solleva sopra il Piano del lago, è tronco al solito, e la troncatura del vertice è occupata da un cratere profondo, ma relativamente angusto. Questi sono i tratti principali che vi presenta la fisonomia dell’Etna, e sono anche i tratti più grandiosi e più fondamentali per chi vuol dedurne la storia».

3. «In che modo», disse Giovannino, «vorresti leggere in quei tratti la storia dell’Etna?».

«Precisamente come nella forma del Vesuvio, cioè nel suo cono regolare circondato da un recinto, che è il monte Somma, trovo il tratto più fondamentale da cui ricavare la sua storia, quando la storia non ci fosse. Come nacque il Vesuvio? Ve ne ricordate? Il Vesuvio è figlio del monte Somma. Il Somma era veramente l’antico Vesuvio; ma esso fu squartato e sventrato dall’eruzione di Plinio. Dalla sventratura, ossia dal grande cratere del Somma, sorse a poco a poco il Vesuvio, a furia di materiali rigettati. Ora il Vesuvio è gigante: già il suo cocuzzolo soverchia la cresta dell’antica madre: ma il Somma ancora lo ricinge, poichè se in parte è già obliterato, essendo coperto dalle recenti eruzioni ed immedesimato col Vesuvio, in parte fa ancora da sè. Chi andasse oggi al Vesuvio, e non sapesse nulla di quanto ha narrato la storia, conoscendo il modo di agire dei vulcani, saprebbe raccontare al par di noi che il monte Somma era l’antico Vesuvio: che fu sventrato da una grande eruzione: che nell’immenso cratere nacque il nuovo Vesuvio, e divenne a poco a poco gigante entro il recinto materno. Ebbene, con pari sicurezza, la scienza vi narra una storia consimile dell’Etna. Sapete che cos’è il Piano del lago? Esso è un monte Somma, già interamente coperto dalle recenti eruzioni del suo Vesuvio, come il vero Somma diventerà un Piano del lago, quando il vero Vesuvio si sarà tanto alzato ed allargato da coprire col suo manto la madre che lo ricinge. Alcuni secoli ancora; e se continua l’attività del vulcano di Napoli, il monte Somma, coperto di ceneri e di sabbie [p. 452 modifica]vesuviane, immedesimato col Vesuvio, in luogo di un recinto, formerà uno sporto circolare, un collare intorno al Vesuvio stesso; diventerà insomma un Piano del lago, sostituito all’atrio del Cavallo. La intendete ora la storia dell’Etna senza che sia scritta? Un giorno l’antica Etna ebbe una furiosa eruzione. La storia moderna ne ricorda di somiglianti pei vulcani dell’America e dell’Asia. La montagna etnea fu letteralmente sventrata, rimanendovi un abisso, una voragine immensa, cioè un cratere, simile a quello, per esempio, del Tenggher, vulcano dell’isola di Giava, che ha una circonferenza di oltre 23 chilometri. Dal fondo di quel gran cratere, come il Vesuvio dal recinto del Somma, nacque l’attuale Mongibello. Sarà stato dapprima un piccolo cono che si ve deva fumare giù in fondo al cratere, come quel conetto ch’io vi ho descritto, e che vidi sorgere dal fondo del cratere vesuviano nel 1865. Ma quel Mongibellino crebbe a poco a poco, com’io mirai crescere il cono interno del Vesuvio, e allargandosi mano mano che si alzava, riempi il cratere dell’antica Etna e riuscì a sporgere il capo al disopra del suo recinto. Ci deve essere stata un’epoca in cui il cratere antico dell’Etna era per rispetto al Mongibello quello che il Somma è attualmente per rispetto al Vesuvio. In quest’epoca stessa, invece d’un Piano del lago, esisteva una valle circolare interna, cioè un atrio del Cavallo. Ma il Mongibello, allargandosi ed alzandosi sempre più, riempi per intero il vecchio recinto, e riuscì anzi a coprire come d’un manto colle sue ceneri e co’ suoi lapilli il recinto stesso. Esso recinto, si vede ancora ma come un anello ricoperto da un guanto, e l’atrio divenne quel piano circolare, che cinge il Mongibello dove esso s’innesta coll’antica Etna. Questo piano circolare, cioè il Piano del lago, è come un colletto ben giusto al collo del Mongibello, ma aperto sul davanti, con un bello sparo che discende sul petto. Il Somma non è anch’esso un colletto pel Vesuvio? Sì; ma un col letto più comodo, che lascia uno scollo, anzi un largo spazio attorno al collo che ricinge. Se il Vesuvio continua, come v’ho detto, giorno verrà che il monte Somma gli si stringerà alla gola, e appunto allora, invece d’un atrio del Cavallo avremo un Piano del lago. L’eruzione del Vesuvio che sventrò il monte Somma è storica: quella del Mongibello che ha squartato l’Etna non lo è. Ambedue però quelle eruzioni sono ugualmente certe pel geologo, come certe ambedue le storie che vi ho narrate».

«Ma quello sparo che discende sul petto?» chiese la Marietta.

«Volevo dire la valle del Bove, ed è quella spaccatura [p. 453 modifica]laterale che rompe il Piano del lago, e squarcia tutto il fianco dell’Etna. Essa ci dice che la grande eruzione etnea produsse non soltanto un cratere centrale, ma anche una voragine laterale con cui il cratere stesso si continuava. Ma di ciò riparleremo in appresso, quando ci recheremo appositamente a visitare la valle del Bove. Ora devierei troppo e mi preme invece di farvi conoscere le altre particolarità del nostro grande vulcano.

4. » Oltre le irregolarità che ho dette, l’Etna ne ha altre assai. Veduto in certi punti l’Etna direbbesi non una montagna, ma un cespo di montagne. Il suo cono è su per giù come una pina, cioè come il cono del pinocchio, che è come un cono composto di tanti conetti. Ogni eruzione laterale creò e crea uno o più coni, come quelli che abbiamo descritto alla base del Vesuvio. Soltanto quelli erano affatto piccini, mentre i coni dell’Etna sono vere montagne, alte centinaja di metri. Quante eruzioni laterali ebbe l’Etna in tempi a noi vicini e fino ai nostri giorni! Imaginatevi quante ne avrà avuto nei tempi preistorici, e quindi quante montagnole e montagne devono renderne irta la superficie, senza contare quelle che a cento a cento rientrarono nei fianchi dell’Etna essendo state coperte dalle più recenti eruzioni. Però 80 almeno di questi coni, che meritano il nome di monti, si contano ancora, senza tener calcolo dei minori che ne eleverebbero il numero forse a più centinaja. I monti Rossi, sorti a Nicolosi nel 1669, non sono che un cono gemello, prodotti dalla grande eruzione di quell’anno. Quel doppio cono misura dalla sua base un’altezza di 137 metri. Il monte Minardo, presso Bronte, è un altro cono vulcanico, che misura un’altezza di 229 metri».

5. «E tutte quelle montagne sono dunque formate», domandò Giovannino «di lave, di scorie, di lapilli, di ceneri. Quale squallore!»

«Tutt’altro. Le ceneri e le scorie divennero terriccio; i coni montagne boscose; tutta l’Etna, dalla base fino a grande altezza, è un vago giardino. I geografi dell’Etna la dividono in tre regioni. La prima regione è la così detta zona fertile o piedimontana. Comincia dove l’Etna sorge dal mare, e sale fino a parecchie centinaja di metri. Quale contrasto fra questa regione e l’ideale di un vulcano! I giardini d’Armida, quali li descrive il Tasso, possono andare a nascondersi, come diciam noi. Quella prima zona etnea è come un immenso collare di aranci, di limoni, ciliegi, oliveti, melogranati, e pomi e peri. Non vi parlo dei fichi d’India, che rivestono di fantastiche foreste del genere [p. 454 modifica]tropicale, le più irte correnti di lave. Non vi parlo de’ vigneti, da cui il mosto scorre a torrenti. Via; si tratta di una delle più fertili regioni del globo; ma di quelle regioni, dove alla ricchezza e alla varietà dei prodotti si aggiunge bellezza di cielo, purezza di aria, incanto di paesaggio. Io credo che la base dell’Etna sia la regione più deliziosa d’Europa.

» La seconda regione è la così detta zona boschiva, un altro grande collare sovrapposto al primo, di vaga foltissima verzura, ma ora guasta e diradata assai dall’abuso che si fa in tutto il mondo del taglio dei boschi. Predominano le quercie e i castagni, e vi ricorderete del castagno dell’Etna, alla cui ombra, dicesi, potevano porsi al riparo cento cavalli».

«L’hai tu visto?» fu pronto a domandare Luigi.

«Se si potesse vedere.... C’è per vero dire un qualche cosa che si fa vedere come fosse l’antico castagno dell’Etna. Ma sono tutt’al più le sue reliquie, o meglio, come mi si disse, una pro genie di rampolli cresciuti al piede del suo tronco decomposto e sfasciato.

» La terza regione è la terminale o zona deserta. Essa comincia dove il cono dell’Etna, sorgendo dalla zona boscosa, non è più che un gran mucchio di sabbia nera e grossa proprio come fosse di carbone trito, dal cui seno escono irti scogli e secche lasciate dalle correnti di lave antiche e moderne. Chi direbbe che tutta quella montagna, tutta quella regione è dono di un vulcano, è vomito d’inferno? Quegli interminabili giardini, così ridenti e feraci, rappresentano una ben lunga serie, non ancora finita, di incendî, di fiumi devastatori di fuoco, di terremoti, di squarciamenti di terra, e chi sa quante iliadi di angosce e di spaventi. Eppure!... a pensarla, la storia dell’Etna si deve dire una storia di flagelli o una storia di benedizioni? Domandatelo a quei cinquanta fra villaggi, borghi e città, con una popolazione di 275 mila anime, sparsi in mezzo ad ogni sorta di ben di Dio nella regione piedimontana, una delle più fertili del globo».

6. «L’Etna», riflettè il Battistino «dev’essere molto antica, se, a furia di lave e di ceneri, riuscì a formare una montagna di oltre 3300 metri con basi tanto larghe da figurare come un grande paese, qualche cosa di più di una provincia».

«Se l’Etna è antica!... Le sue origini non solo stanno assai al di là dei limiti della storia, ma si spingono pel geologo fino ai tempi che antecedettero d’assai l’epoca dell’uomo. Ma non cerchiamo troppo di là. Intanto è certo che le più antiche memorie [p. 455 modifica]della storia umana si innestano, direi così, sulle prime memorie dell’Etna. Quando si parla dell’Italia e della Grecia antiche, prima di giungere propriamente alla storia, che cosa c’è, Giovannino?»

«La mitologia», fu pronto a rispondere l’interrogato.

«Va bene: abbiamo dei e semidei, coi loro fasti, colle loro prodezze, in cui troviamo simboleggiati i primi uomini, i primi abitatori della Grecia e dell’Italia alle prese cogli elementi. Ebbene, vorrei dire che mezza la mitologia, cioè la storia mitica dei primissimi tempi, si collega colla storia dell’Etna. I Titani, i Ciclopi, Plutone, Cerere, Proserpina, Tifeo, Vulcano, son tutti personaggi che figurano in mezzo ai grandi incendî dell’Etna. Encelado, il capo dei giganti o Titani, osa provocare Giove, e tenta rovesciarlo dal trono? Ecco i Titani armarsi di monti e le rupi volare verso il cielo e ricadere verso terra, formando catasta. Ma Encelado è percosso dal fulmine di Giove, e semiadusto, semivivo, sepolto sotto l’Etna, dove stassi vomitando ancora i fuochi del fulmine che l’ha investito. Sapete voi quale è la causa dei terremoti? È questo Encelado che, schiacciato dall’Etna, tenta rimoversi di dosso l’enorme peso, non foss’altro che per mutare di fianco. Esiodo però la narra diversamente. Encelado, che si chiamò anche Tifeo o Tifone, era figlio della terra, un mostro singolare, con cento teste da serpente che vomitavan fuoco. Allora Giove possente prese le armi, e fra lampi e tuoni percosse dall’Olimpo le teste di quel mostro portentoso, che, vinto dalle percosse e mutilato, cadde e ne tremò la vasta terra. La fiamma in tanto, prodotta dal vibrato fulmine, arder faceva di vivo fuoco la terra per le selve degli aspri monti e la fondeva come lo stagno e il ferro nelle fucine. Scorreva il fuoco pei boschi tutto divorando e il suolo liquefacevasi nelle mani di Vulcano. Tutto questo è narrato da Esiodo nella sua Teogonia. Da qualunque lato poi si pigli la favola dei giganti, ci si trova con sicurezza il mito di qualche terribile eruzione dell’Etna. Forse quelli che abitavano i littorali al di là dello Stretto, o nelle isole vicine, vedendo sprigionarsi il fuoco, slanciarsi da ogni parte il pietrame, là dove abitava una gente nerboruta e feroce, non seppero spiegarsi altrimenti una cosa così singolare, che ammettendo una battaglia fra cielo e terra.

» Pindaro, chiamandolo centipede, dà a Tifeo cento piedi in luogo di cento teste, ma dice anch’esso che i lidi che stringono il mare di Cussa e Sicilia premono l’irsuto petto: ma fisso lo tiene nel suolo la colonna del cielo, l’Etna nevoso. Questo si legge nella [p. 456 modifica]prima ode. Nella stessa poi descrive assai bene le correnti di lava. — Da penetrali inaccessibili, dice egli, emanano fonti di purissimo fuoco, i di cui torrenti spargono di giorno vortici ardenti di fumo, e di notte trasportano sassi agglomerati dalla rutilante fiamma, con veemente strepito nel fondo del mare. — Nel ratto della bella Proserpina, figlia di quella Cérere, la quale, prima che ad altri, si mostrò ai Siculi e li educò a seminare la terra, non sarebbe a vedersi che un simbolo delle messi devastate dalle lave ardenti. Negli amori di Aci e Galatea, schiacciati sotto una grandine di sassi dal geloso Polifemo, vuolsi simboleggiato il fiume Aci sepolto sotto le lave dell’Etna. In seno all’Etna poi, voi sapete che Vulcano teneva accesa la sua fucina, dove i Ciclopi, che n’erano i mastri, fabbricavano i fulmini per l’arsenale di Giove. Il Mongibello era il camino da cui si sfogava il fumo della fucina. Insomma tutto ci dice che l’Etna, era attiva, attivissima nei tempi mitologici; nè ci voleva da meno perchè già ai tempi di Pindaro fosse chiamata la colonna del cielo.

7. » La prima eruzione storica rimonterebbe al 1500 a. C. La storia antica ricorda del resto formidabili eruzioni, e quindici al meno sono menzionate durante la dominazione romana avanti l’era volgare. Nei tempi moderni poi le eruzioni si ripeterono a intervalli relativamente brevi. Fra il 1669 e il 1865 il signor Sciuto Patti1 ne numera trentadue. Fra le eruzioni dei tempi moderni la più celebre è quella del 1669, da cui il signor Sciuto Patti comincia appunto la sua enumerazione. Vale la pena di narrarvene un po’ i particolari.

» Nel mattino dell’undici marzo 1669, così narra lo Spallanzani2, un’enorme spaccatura si aprì in vicinanza di Nicolosi, precisamente nel punto ove sorgono in oggi i così detti monti Rossi. Quella spaccatura misurava ben 10 miglia di lunghezza, partendo dal punto suddetto fin verso la sommità del cratere dell’Etna. Per allora non ci fu nulla: ma la notte susseguente un’altra spaccatura formossi, o piuttosto, come io credo, la prima spaccatura si cambiò in squarciatura che toccava fino all’interno del gran camino vulcanico, e ne uscirono immediatamente immensi globi di fumo e grandine di pietre liquefatte, in mezzo a orrendi muggiti e scotimenti di terra. Più tardi, nella notte stessa, ne sbucò un gran fiume di lava, e il dì 13 dello [p. 457 modifica]stesso mese, oltre le pietre, ne uscì fuori un’immensa quantità di sabbia. In mezzo a sì orrendo spettacolo di terremoti, di sotterranei tuoni, di squarciamenti di suolo, di torrenti di lava, di grandini di pietre, il cratere dell’Etna taceva. Ruppe però il silenzio nel giorno 25 del mese: e allora si mise anch’esso ad eruttare colonne di fumo e sassi e sabbie, in mezzo ai tuoni e ai terremoti, finchè quell’orrida scena ebbe termine colla rovina del vertice del cono inghiottito da profonda voragine. Nicolosi venne distrutta dal terremoto, e dalle sabbie e dai lapilli accumulati, nacquero i monti Rossi, cioè un cono bicorne, con un cratere a ciascun corno, alto 137 metri sul livello del suolo. Eruzione dell’Etna nel 1669.
A. Cima dell’Etna. — B. Monti Rossi. — C. Valle del Bove. — D. Catania. — E. Scogli dei Ciclopi. — F. Aci Castello. — XX. Spaccatura di 10 miglia. — Y. Corrente di lava del 1669.
Quanto alla lava sgorgata al piede de’ monti Rossi essa percorse 6 leghe precipitando giù verso il mare. Quattordici villaggi vennero da essa invasi e distrutti, rimanendo allo scoperto una popolazione di 3 a 4000 anime, poi discese giù verso Catania. Una prima corrente, che minacciava d’inghiottire Catania, cambiò fortunatamente direzione: ma di poi un’altra corrente giunse alle mura della città, e alzandosi sopra sè stessa, ci entrò dentro furiosa, e centinaja di case furono abbruciate e sepolte. Venne in seguito una nuova corrente la quale per buona sorte si potè deviare. In fine la città di Catania fu come divisa in due dalla lava, la quale non si fermò che dopo essersi avanzata in mare alla distanza di circa 400 metri dal lido. Quella lava aveva coperto cinque o sei leghe quadrate di uno strato che aveva in certi luoghi 127 piedi di altezza, e distrutto le case di 27 mila abitanti.

» Voi vedete che l’Etna non è un vulcano qualunque. Enorme di mole, formidabile per la sua potenza, è anche per la storia il più antico dei vulcani. Le sue eruzioni riempirono di terrore i feroci abitatori primitivi di quella classica contrada, e turbano ancora in oggi la quiete di borghi fiorenti e splendide città. Il [p. 458 modifica]bagliore de’ suoi incendî sparse di una luce funesta tanto gli specchi degli antichi Sicani come i sontuosi palagi e le grandiose basiliche dei tempi moderni. L’Etna è il vulcano dell’antica mitologia e della moderna scienza. Un giorno diè vita ai miti tenebrosi e spaventevoli di Plutone, di Proserpina, di Vulcano, dei Giganti e dei Ciclopi. Ora la scienza va a studiarvi le leggi dell’interna attività del globo, di cui è una delle più antiche, delle più diuturne, delle più potenti manifestazioni. Imaginatevi se lo dovessi aspettare con impazienza il momento di dare la scalata a quella famosa montagna.

8. » È l’alba del 29 agosto. Ci eravamo data la posta in otto. Una carovana sufficiente per divertirci ed ajutarci nello studio, ma non soverchia per imbarazzarci e per rendere affatto insufficienti le troppo scarse riprese che offre al viaggiatore la sommità della montagna. Ci eravamo infatti già imbattuti in qualche reduce dalla spedizione municipale, la quale era riuscita una specie di passaggio della Beresina in miniatura. I poveri naturalisti avevano arrischiato di morir di fame e di freddo. Quelli poi che di freddo non volevano morire furono ad un pelo di morire d’asfissia, pel carbone impiegato a cacciarlo. Di trenta che erano, diciotto soltanto furono in grado di giungere al cratere. Due dei più fiduciosi, scambiando l’Etna per una delle nostre montagne in quella stagione, l’avevano aggredita con munizioni da bocca troppo scarse, e colle vesti convenienti ai 30 gradi sopra zero che si godevano allora a Catania. Smarrita la via per quei campi sterminati di nera sabbia, intirizziti dal freddo, estenuati dal digiuno, già si abbandonavano a quel sonno che è foriero di morte. E sarebbero morti davvero, se scoperti in tempo non fossero stati sovvenuti dai compagni. Non credete che il municipio ci avesse nessuna colpa di questa disfatta. Esso aveva dato a sue spese tutte le migliori disposizioni richieste dal caso: ma il municipio non poteva creare di botto sulla sommità dell’Etna nè cantoniere, nè alberghi: poi esso era in diritto di supporre che gli scienziati avessero scienza sufficiente anche della misura delle proprie forze e di ciò che potevano esigere da ciascuno le condizioni speciali di quella formidabile montagna. Ad ogni modo non si fa torto a nessuno e si dà ragione a tutti cavando da questa dolorosa istoria la conclusione che, nelle condizioni attuali, la salita dell’Etna non è, come ho detto, da tentarsi in grossa comitiva. Nè ricaccerò nella gola il voto che mi vien di nuovo sulle labbra, che il Club alpino italiano diventi un pochino Club del Vesuvio e dell’Etna. [p. 459 modifica]

» Noi intanto avevamo ricevuta gratis una lezione esperimentale da aggiungere a quel pochino di scienza che possedevamo circa la perfidia dell’Etna: nè volendo darne ad altri a nostre spese, non badammo per allora che a munirci di ciò che di più coibente3 ci fornivano i nostri bauli. Per giunta, certe enormi calze di lana, che si infilano brigantescamente sulle scarpe e sui pantaloni, provvedute lì per lì, dovevano difendere i piedi e le polpe, che rimangono sempre così esposte nel cavalcare. E’ sembrava che ci abbigliassimo per un viaggio in Groenlandia, men tre pur si sudava coi suddetti 30 gradi di Catania. Quanto alla cibaria ci avremmo pensato a Nicolosi.

9.» Eccoci finalmente in viaggio. Da Catania a Nicolosi si trotta in comoda vettura. Nicolosi sorge, come vi dissi, a fianco de’ monti Rossi, a 691 metri sopra il livello del mare, quindi 2280 metri sotto la Casa degl’Inglesi, dove si doveva pernottare, e a 2626 metri sotto la cima dell’Etna, che si doveva raggiungere la mattina seguente. Nicolosi si trova quasi ai limiti superiori della zona fertile o piedimontana, e poco sopra cominciano i boschi. Giunti lassù, ci venne incontro il dottor Bonanni carissimo giovine che si agita, saltella, scorrazza innanzi e indietro, tutto inteso a procurarci e guide, e cavalcature e vino e pane, e companatico, come si trattasse su per giù di una spedizione al polo. Nè crediate che si facesse economia. Di vino, un barile!... pane in proporzione, e quanto al companatico fu provvisto col sacrificio di sette giovani tacchini».

«Diacine!» sclamò una delle mamme uditrici. «Ce n’era per un reggimento!»

«Ma chi poteva fare un conto preventivo sulla fame di otto viaggiatori, con quel moto, con quel fresco, con quell’allegria che ci ripromettevamo? Chi poteva misurare in anticipazione la capacità (fisica, s’intende) delle guide, che erano certi pezzi da sessanta, i quali per ingojar munizioni.... via, non faccio per dire: questa capacità almeno bisogna loro concederla. Poi si era pensato a provvedersi per due giorni, se l’andava bene.

10. » In breve fummo pronti; otto viaggiatori, due guide e dieci muli sellati a dovere. Ciascuno dei dieci uomini inforca tra le gambe la rispettiva bestia, e su per l’erta. L’Etna ci si rizzava davanti, quasi un’enorme piramide colla base nel mare e [p. 460 modifica]il vertice nel cielo. La mattina essa ci aveva mostrato ignudo il capo, indorato dai raggi del sole nascente: ma più tardi certe nubi soffici e bianche si erano radunate a farle cappello. Ma questo non ci dà pensiero. Nei giorni in cui eravamo rimasti a Catania ci eravamo abituati a veder sgombra la cima del vulcano ogni mattina, mentre più tardi le nubi venivano all’usato convegno. Domattina certamente l’Etna non avrà altra veste che di limpido cielo. Via dunque allegramente. La zona dei campi e dei vigneti è presto varcata. Cominciano i boschi; ma presto anche essi si diradano e accennano a dileguarsi interamente. Prima di sollevarci sopra la seconda zona, bisognava pensar seriamente come affrontar la terza. Essa è in ogni stagione la zona del freddo, e il freddo dell’Etna (ve l’ho già detto) è terribile. Le guide ordinano quindi una sosta ad una certa cascina che è detta Casa del bosco. È il luogo dove si passa dall’estate all’inverno come sopra una scena dove non si rispetti l’antica legge dell’unità di tempo4. Agli abiti estivi si sostituiscono immediatamente gl’invernali. Gl’involti si sciolgono, e se ne rovesciano fuori scialli, mantelli, soprabiti, cappucci, berrette, e la brigata presenta lo spettacolo di un travestimento completo, teatrale, zingaresco, brigantesco, carnevalesco, dove non mancano di avere un posto distinto i famosi calzettoni.

» Così travestiti siamo di nuovo in sella, spettacolo di riso ciascuno a tutti, e tutti a ciascuno, celiando, punzecchiandoci l’un l’altro nella misura che a ciascuno suggeriva lo spirito esaltato dalla situazione. E si sale.... si sale.... Il silenzio della natura, lo squallore di quella negra montagna, il freddo crescente, la bellezza straordinaria del panorama che si va mano mano svolgendo sotto gli occhi nostri, tutto crea un non so che, il quale penetra, invade lo spirito, e mentre lo esalta, lo opprime, mentre lo invita ad espandersi, lo concentra in se stesso. Chi può descrivere l’effetto che produce il contrasto fra l’Etna che ci sta sotto e l’Etna che ci sta sopra? È un sentimento indefinibile quello che si sente ad ogni svolta del ripido sentiero, quando lo sguardo del cavaliere piomba su quella fascia incantevole di giardini, circondata dal mare azzurro e cupo, e cingente alla sua volta una regione più cupa del mare, fredda e deserta come un mucchio di carbone!!

11. » Intanto io badava ai coni che si andavano man mano [p. 461 modifica]incontrando nel salire, e mostravano poi aperto il morto cratere, quando eravamo saliti. V’ho detto che l’Etna è sparsa di centinaja di questi coni vulcanici: e io ne contai parecchi o lontani o vicini, e talora a fianco del sentiero. Ad uno ad uno quei coni avevano portato sulla Sicilia la loro giornata di terrore: avevano visto le popolazioni pallide e fuggenti, e i boschi arsi, e le messi, i vigneti, gli oliveti travolti sotto le lave roventi. Quei coni si arrestano tutti o quasi tutti assai prima di giungere alla regione più elevata: e ad un certo punto, guardando in giù fui colpito dalla loro moltitudine. Quei coni, tronchi e svasati da un cratere, visti dall’alto, mi sembravano altrettante grandi marmitte. Il paragone è veramente prosastico: ma la fantasia, voi lo sapete, è bizzarra. E’ mi sembrava veramente di vedere una gran mensa sulla quale un Polifemo qualunque avesse disposto un certo numero di grandi marmitte, per dar cena ai Ciclopi di ritorno dai campi.

12. » E intanto si sale.... si sale.... e il cielo si oscura, non già soltanto perchè venga la sera, ma perchè è divenuto nubiloso assai: spira un vento gelato e continuo: e la nebbia a poco a poco si aduna, e ci si stringe d’attorno. Non c’è più nè mantello, nè sciallo, nè calzettoni. Il freddo dell’Etna non ci bada. Il freddo dell’Etna, vedete, è un freddo particolare. Il freddo delle Alpi nella calda stagione, può essere assai più rigido: ma è assai meno crudele. Questo è un freddo che assale, abbatte, quasi scompone e disorganizza. La nausea, i dolori di viscere, i disordini di stomaco si manifestano facilmente negli uomini e negli animali. È caso ordinario, per esempio che alcuno dei muli sia preso dai dolori, sicchè convenga cedergli, per riaverlo, il quartiere destinato agli uomini. Il freddo dell’Etna insomma è un freddo che avvelena».

«Ma infine», disse Giovannino «codesto freddo dell’Etna è forse un freddo di 15, di 20 gradi sotto 0?»

«Tutt’altro. Io credo che verso la cima noi avevamo una temperatura prossima a 0. Ma pensa alla rapidità con cui si passa dal caldo al freddo su quella montagna. Nelle Alpi, prima di raggiungere i 3300 metri sopra il livello del mare, avrai dimorato alcun tempo nelle pianure della Lombardia o della Svizzera, o sui colli rinfrescati dai venticelli, o sui fianchi delle Prealpi. Hai quindi percorse le lunghe vallate, per giungere lentamente ai passi non più elevati di 2600 metri a 2800 metri: hai passato dei giorni e delle notti in stabilimenti di bagni assai elevati, in sontuosi [p. 462 modifica]alberghi edificati al piede dei ghiacciai. Il tuo corpo si è preparato gradatamente alla fredda temperatura delle cime nevose delle Alpi. Qui tu sali, per dir così, d’un sol fiato dal mare a 3300 metri sul suo livello. In sei ore tu sei passato da un clima di 30° sopra zero e anche più caldo, se occorre, ad un clima di 2°, 3°, 4°, sotto zero. Ecco dove sta il veleno del freddo dell’Etna. Basta; siamo finalmente sul Piano del lago. Lago non c’è: ma in quella vece un mare di sabbia nera, di polvere di carbone, senza traccia di sentiero: senza possibilità di lasciarvene una che duri almeno qualche giorno, mentre su quella sabbia mobilissima, l’orma si cancella nell’atto che si fa. Intanto è scesa la notte e la Casa degl’Inglesi, il sospirato albergo, non compare ancora. Ci fu ancora da camminare lungo tempo nel bujo: ma finalmente il cavallo della guida che precedeva il silenzioso convoglio, si arrestò. Tra il fosco ed il chiaro ecco un qualche cosa di meno nero, che, non so se vedendo o indovinando, mi parve una ca panna. La guida è discesa da cavallo e si sente girare scricchiolando una chiave in una toppa e aprirsi un uscio. Tutti abbiamo già posto i piedi a terra, ed entriamo in quella specie di stambugio coll’impressione di doverci passare una cattiva notte.

13. » Voi vorrete sapere che cos’è questa Casa degl’Inglesi. Come la vedete questa capannaccia così bassa, mal connessa e sconnessa dai terremoti, composta di tre pezzi costituenti il miglior apparato per la circolazione dei venti, è pure una benedizione, una provvidenza: è come un gran palagio in quei posti. Come si faceva una volta a portarsi sulla cima dell’Etna, che per sei ore di cammino è tutta un deserto, senza un riparo con tro il freddo e contro la tempesta, senza nemmeno una pianta Il signor Giuseppe Gemellaro, abitante di Nicolosi, che si può dire il papà dell’Etna, bramoso che la sua diletta montagna fosse frequentata e studiata, capi ben tosto che era necessario fabbricare all’uopo un qualche ricovero nella regione più elevata. Non so precisamente come sia riuscito a raggranellare il denaro occorrente all’uopo, che dovette essere assai, dovendosi tutto trasportare a quell’altezza. So tuttavia che alcuni Inglesi furono i primi e forse i maggiori oblatori. Il nuovo albergo cominciò dunque a denominarsi la Casa degl’Inglesi, nome che gli è restato per sempre. Essa si trova a 2957 metri sopra il livello del mare. Dei tre pezzi o camere a terreno di cui si compone, quella a destra salendo serve di stalla per le bestie da soma, quella di mezzo di alloggio ai forestieri, e quella a sinistra alle guide. [p. 463 modifica]Il lusso è a un dipresso il medesimo per le tre stanze, cioè la negazione del superfluo non solo, ma del più stretto necessario. Nella camera di mezzo, che sarebbe la sala, rimpetto all’uscio d’ingresso c’è un camino: da un lato una rozza tavola con qualche sedia che non trova mai il posto per tenersi ritta: dall’altro lato v’è un apparato di tavole a graticcio, su per giù come si usano pei bachi da seta. Sono i letti pei forestieri. Se ben mi ricordo quelle tavole non sono che due, disposte in guisa che, sommate col duro terreno, danno tre piani, ossia tre letti capaci ciascuno di due persone misurate pel lungo. Che prospettiva per chi, stanco, assiderato, sognava forse di vendicarsi di tutte quelle peripezie con una buona dormita! Basta: non ci badiamo per ora; ciò che urge al presente è di ammanire la cena. Ciascuno ha il suo debole, io quello di credere di avere una certa disposizione alla, se non nobilissima, certo utilissima arte del cuoco. Si comincia a porre sul focolare alcuni rimasugli umidi di una certa tettoja o logora o sfondata, perchè il carbone ci inspirava certi sospetti; poi tutti giù a soffiare, che non ci voleva meno di otto bocche per obbligare il fuoco a buttarsi addosso a un combustibile, che era l’antitesi del suo nome stesso. La fiamma comincia a mostrarsi col suo color viola in mezzo a quell’intreccio di mal raccolto legname: ma intanto un denso fumo ha già riempito lo stambugio, cavando le lagrime agli otto pazienti. Ma la fiamma crepita, frigge, si alza ormai arditella, e il fumo si è alquanto diradato. — Quà la pentola.... — una pentola c’era; e dentro acqua destinata a mutarsi in brodo. L’acqua bolle, e un po’ di estratto di Liebig opererà il miracolo. La zuppa, sia lode al cuoco, fu trovata eccellente. Dopo la zuppa venne il tacchino e col tacchino il bicchiere di vinetto discreto, portato democraticamente da bocca a bocca. Non sarebbe mancato nemmeno il caffè, se non avessimo avuto la cattiva idea di provvederci a Catania di un caffè già fatto, di una specie di brulé. Quel ladro di caffettiere ci aveva messo veleno sciroppato, non caffè, nella bottiglia. Fu questo un grave disappunto con quel freddo, dopo quella fatica. Un buon caffè sarebbe stato un gran ristoro.

14. » Finita la cena stemmo alcun tempo a fare un chilo agro, mentre il fuoco agonizzava, e cresceva la notte, e il freddo si faceva più intenso. L’uno dopo l’altro cercammo poi il nostro cantuccio per fare l’esperienza come si possa pigliar sonno in tutte le condizioni più favorevoli alla veglia. Quanto a me quel graticcio mi parve un eculeo, e mi ricorderò sempre dell’aggiunta [p. 464 modifica]deliziosa di un soffietto che mi pigliava proprio fra le spalle e l’orecchio da una banda, con una insistenza, una pertinacia meritevole di miglior causa, come nel caso, per esempio, che avesse preso di mira un fornello da fabbro-ferrajo. Voi capite che quel soffietto era lui il vento gelato dell’Etna, che trovava modo di penetrare da cento parti nel povero stambugio, geloso che a tanta altezza non vi fosse luogo che potesse dirsi tepido o caldo. Non vi dirò degli altri incomodi o sconcerti subìti da me e più ancora dai compagni: si stava male davvero. Il freddo dell’Etna, ve l’ho già detto, non è soltanto un incomodo, ma è un veleno, sicchè, per quanto l’interrotto russare dicesse che il sonno non era affatto estraneo a quell’uggioso ambiente, fu una di quelle notti in cui non si fa che sospirare l’alba, che venga a porre un termine al troppo lungo supplizio.

» Quando Dio volle, apparve il primo albore. Non era però quell’albore nitido, stimolante, che mi svegliò tante volte sulle montagne. C’era un qualche cosa di sbiadito, che, per quanto lo si guardasse, nè mutava colore, nè cresceva d’intensità: si sarebbe detto un’aurora stagnante. Il malessere, la stanchezza, il freddo di dentro che annunciava un freddo assai più intenso al di fuori, tutto in fine ci teneva incantucciati sui nostri graticci. Finalmente però si batte un po’ di diana: — Su.... andiamo! Presto sulla cima! — Chi si alza a sedere, chi si soffrega gli occhi, chi sbadiglia o si stira, e in fine tutti si accingono, benchè di mala voglia, a ravviare un pochino la malcomposta persona. Il primo che sporse il capo dall’infelice stamberga ebbe a ricevere tal grado di costernazione che bastasse a rendere costernatissimi tutti gli altri. Una nebbia fitta, palpabile come quella dell’Egitto al tempo di Mosè, aveva preso di mezzo il Mongibello. Ci avvedemmo ben tosto che la giornata era perduta, l’impresa fallita. Mesti, scoraggiti, traditi, siamo rimasti qualche ora, o accovacciati entro il meschino albergo, o erranti all’ingiro di esso in mezzo alla nebbia, aspettando che un qualche santo si movesse a pietà di noi. Forse più tardi una folata di vento.... Forse col levar del sole.... Ma via! nessun indizio che ci permettesse almeno di illuderci. La giornata era perduta. In Svizzera, in que’ magnifici alberghi a piè de’ ghiacciai, si può stare comodamente aspettando che torni il sereno sulle cime nevose che si voglion salire. Ma qui, nella Casa degl’Inglesi.... Una compagnia di otto persone con guide e cavalli, senza suffragio di sorta, senza mezzi nemmeno di confortarsi un pochino dal freddo che vi spossa, vi [p. 465 modifica]demoralizza.... Via; è impossibile. Bisognava rinunciare ad un’impresa tanto vagheggiata, e, non potendo salire la vetta, discendere al più presto, per far cessare quello dei supplizî che era il più stringente; il freddo».

15. «Non potevate» domandò il Giovannino, quasi in atto di rimprovero «portarvi ugualmente sulla cima? Non vi mancavano all’incirca che 350 metri di salita».

«Perchè ci saremmo saliti, se nulla alla lettera ci si poteva vedere?».

«Almeno per poter dire»: soggiunse Giovannino, «io sono stato sulla cima dell’Etna».

«A codesta vanagloria preferisco un po’ di ragionevolezza. Le cose inutili è ragionevole non farle. Del resto non hai inteso abbastanza in che condizioni noi ci trovavamo, con quella nebbia così fitta, senza traccia di sentiero, sopra un suolo tutto di color nero uniforme. Il salire sarebbe stata una cosa non soltanto inutile, ma pericolosa e temeraria. Eccotene tosto una prova. A pochi passi dalla Casa degl’Inglesi esisteva allora, e forse esiste ancora, una fumajola. Due dei compagni, per vedere pur qualche cosa, si allontanarono alquanto per rintracciarla. Pochi passi, vi dico; ma bastò perchè si avvedessero ben tosto della loro imprudenza. Perduta, come si dice, la tramontana, non trovando più la Casa degl’Inglesi, e temendo col cercarla in quel bujo di allontanarsene ancor più, si erano già rassegnati ad aspettare che la nebbia si diradasse, o che a loro si appressasse per caso alcuno dei compagni. Per buona sorte furono presto scoperti da una delle guide, che poteva, naturalmente, per la pratica dei luoghi, arrischiarsi anche un pochino lontano. Insomma non si poteva pensare che a discendere, e una volta decisi, facendo di necessità virtù, ci avviammo quanto si poteva allegramente quasi a passo di corsa, non pensando ad altro che ad uscir fuori da quella nebbia, e a liberarci dal freddo. Infatti.... (pareva cosa incredibile, od inventata per farci arrabbiare) dopo qualche minuto di discesa la nebbia si era fatta trasparente, e pochi passi più in giù, eccoci sotto un cielo sereno, in faccia a un sole fiammante. Ma il cono dell’Etna era là col suo folto cappuccio calato sugli occhi, che sembrava dirci: — nè sopra, nè sotto, voi non mi vedrete. — Unico compenso a così gran disdetta era il sentirci, dopo tanto freddo, immergere quasi in un bagno di acqua tepida; era lo spettacolo della valle del Bove che potemmo misurare dal l’alto, prima di percorrerla dal basso; era ancora una volta lo [p. 466 modifica]spettacolo dell’Etna, co’ suoi cento crateri, colle sue zone variopinte, col suo mare, col suo cielo. Soltanto la sua testa era velata. Irreparabile sventura! a meno che non spunti un giorno sereno che ci vegga, ma non attraverso le nebbie, nella Casa degl’Inglesi un’altra volta....».

16.  «Adunque tu non ci puoi dir nulla» osservò con rammarico Giannina «nè del cratere dell’Etna, nè della stupenda veduta che vi si deve godere».

«Nulla.... Potrei recitarvi la lezione appresa sui libri, come si fa da tanti: ma i libri leggeteveli voi. So che la veduta dell’Etna è miracolosamente stupenda; che dal vertice di quella piramide lo sguardo si distende su tutta la Sicilia, e spazia libero sopra un orizzonte che suol dirsi senza confini, ma che in realtà misura una circonferenza di 2000 miglia. Da quella cima vedesi l’isola col suo celebre stretto, co’ suoi seni azzurri, co’ suoi scogli fantastici, colle sue isole, che la cingono come un serto di gemme, col suo Stromboli fumante, col suo mare di smeraldo sotto un cielo di zaffiro. Quando spunta il sole è spettacolo stupendo quello dell’Etna che projetta la sua grand’ombra sull’isola, la quale figura come un piano al suo piede. Basta, non so dirvi nulla, perchè non ho visto nulla, e mi piace descrivervi sempre quello che ho visto io stesso. Perciò, invece di prendere a prestanza una descrizione della cima dell’Etna, vi farò del mio quella della grande squarciatura che le si apre sul fianco, cioè della valle del Bove. Ma questo un’altra volta, perchè stasera mi sento arsa la gola anche più del solito.


Note

  1. Sulla età probabile della massa subaerea dell’Etna.
  2. Viaggi alle due Sicilie. Vol. 1.° pag. 273.
  3. Diconsi coibenti i corpi che trasmettono difficilmente il calore. Lo sono in grado eminente le lane e i filaticci con cui si fabbricano gli abiti.
  4. Una delle regole indiscutibili della scuola classica era che il fatto rappresentato in un dramma, in una tragedia dovesse contenersi entro i limiti delle 24 ore.