Il secolo che muore/Capitolo II

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Capitolo II

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Capitolo I Capitolo III

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Capitolo II.

ANIMA DI BANCHIERE.

Orazio davvero avrebbe potuto dire: «Non son qual fui, morì di me gran parte», e pur troppo parecchie cose avevano contribuito a buttarlo giù: primieramente gli anni, i quali, taciti e cheti, gli erano piovuti addosso come falde di neve e come neve ghiacci: Orazio non si curava rammentarsi di loro, ma essi troppo bene si rammentavano di lui. Il tempo, che da prima sombrò avere esitato a tirare un solco sopra cotesta fronte serena, da un pezzo in qua, terminato un solco dava subito di volta a tracciarne mi altro, nè ora più sopra la fronte sola, bensì sotto le ciglia a modo di zampe di uccello, lungo le gote, agli angoli della bocca; insomma da per tutto: nè egli si sgomentava del prossimo fine [p. 76 modifica] della vita, anzi ci si era di già apparecchiato quasi ad un viaggio lontano; e siccome sovente teneva gli occhi chiusi, a cui lo veniva interrogando costumava rispondere: parergli onesto in una cosa sola imitare Cosimo dei Medici il Vecchio, ed era assuefare gli occhi a morire, come egli diceva, tenendoli chiusi.

E più degli anni lo aveva abbattuto la morte della Betta. Povera Betta! Egli aveva scorticato lei, e in verità nè lo aveva desiderato, nè voluto. Chi conobbe la Betta facilmente giudicò che non sarebbe arrivata a lunghi anni, perocchè sebbene ella sentisse tutti i dolori di Orazio per via di riverbero, noi sappiamo come il fuoco riverberato scotti e più forte. Orazio poi, di natura pugnace, non prevedeva i pericoli soprastanti, o se pure li prevedeva non li curava; percosso dalla fortuna, egli attendeva a rifarsi con tutte le potenze dell’anima, e dall’altissimo scopo a cui mirava egli traeva argomento di rinnovato coraggio: infelice lo riconopensava la coscienza; felice la coscienza e il plauso della gente: laudumque immensa cupido, per la quale benedizione o maledizione gli eccelsi spiriti, come si favoleggia del pellicano, squarciansi il petto per alimentare col proprio sangue le generazioni degli uomini. La Betta non possedeva tante provvisioni per lenire le trafitte dell’anima: ella le sentiva intere, ed il cuor suo ne rimase infermo senza rimedio; presaga del suo prossimo fine, pose studiosa [p. 77 modifica] cura nel celare il proprio stato ad Orazio: finchè potè aiutarsi salì le scale di casa; mancatale la balia, ella si diede ad inventare un monte di scuse per dormire al pian terreno: tuttavia per quanto le bastarono le forze contrastò al male, che, dovendo lasciare creature a lei tanto caramente dilette, le rincresceva proprio di morire; ma certa sera mentre Marcello accompagnava lo zio alle sue stanze, Betta, ponendogli la bocca sull’orecchio, ebbe a dirgli:

— Quando lo zio dorme, vieni giù a trovarmi, e fa’ che nessuno se ne accorga.

Allorchè Marcello le venne davanti, in brevi accenti Betta gli favellò:

— Figlio mio, io sto per partirmi da questo mondo, e dubito più presto che non vorrei; bisognerà pertanto risparmiare più che noi possiamo questo dolore allo zio: domani innanzi giorno fa’ di condurmi il dottore, e avverti che veruno di casa lo veda; tacine anco ad Isabella, se non chiedo troppo: quando avremo saputo quanti giorni potremo tirare avanti, allora qualche santo aiuterà.

E così fu fatto; il medico venne, il quale da prima si dolse non essere stato chiamato in tempo; e dopo, esaminata con ogni diligenza l’inferma, disse reciso: arduo determinare per lo appunto il momento nel quale il lume si spegnerebbe; forse fra tre, forse fra quattro dì, ma per suo giudizio alla fine della settimana non arriverebbe di certo. [p. 78 modifica]

Se taluno maravigliasse dell’acerba sincerità del medico, e sto per diro ferocia, sappia che egli era stato modico militare, però uso a modi spicci, e che la Botta prima di lasciarsi visitare gli aveva fatto promettere sopra il suo onore che le avrebbe palesato la verità intera. La Botta non mutò colore, gli porse grazie, e tolto di su la comoda da notte certo suo anello, che si era levato a cagione del gonfiamento delle dita, lo porse al medico dicendo:

— Questo, caro dottore, vorrà portare per ricordo di me.

E il dottore con voce alterata:

— No, signora Betta, por conservare memoria di lei non fa bisogno ricordi; creda — e qui il dottore si toccò il petto — se potessi prolungare la sua vita con alcuni anni dei miei, io glieli darei di tutto cuore.

— Grazie, dottore, grazie; ma a che pro? Poichè andare bisogna, ormai che ci siamo, andiamo.

Marcello accompagnando, secondochè si costuma, il dottore fino all’uscio di casa, gli domandò per mettere in quiete la sua coscienza, la quale gli rimproverava non aver prima ricorso a lui, se la malattia della Betta fosse di qualità che, curata a tempo, potesse guarirsi.

— No, rispose il medico; le si poteva jn-olungare per qualche giorno, in mezzo ai dolori, la vita: mi sono doluto, che non mi aveste chiamato prima [p. 79 modifica] così per abitudine, che per altro, costumando noi altri medici mettere lo mani avanti per non cascare; ed io, sappiate, sono di quelli che credono in coscienza carità cristiana in questa maniera di malattie abbreviare lo sofferenze del paziente, ma ciò non usa, e il costume fa legge. Vi rammentate la storia dogli appestati di Giaffa? Napoloone costretto ad abbandonarli presagiva di certo che i Turchi gli avrebboro lacerati in brandelli, ondo gli parve partito umano ministrare loro forte dose di oppio perchè morissero in pace, senonchè il medico Desgenettes ci si rifiutava netto con una frase da tamburo, che suona perchè è vuoto: «l’arte mia consiste nel restituire agli infermi la salute, non già privarli di vita.» No, signore, io non la intendo così; per me l’arto medica si mette dinanzi due fini del pari importanti; il primo, e principale, rendere la salute quando si può, e di rado si può; il secondo, di alleviare con tutti i mezzi la sofferenza. Qui nel caso nostro si tratta di vizio organico, il cuore è guasto profondamento, il palpito, irregolarissimo, minaccia da un punto all’altro cessare: le acque spandendosi per tutta la persona hanno compito l’anasarca Vi manderò una pozione oppiata gliela ministrerete spesso in piccolo dosi So anche in copiose, non ci sarà niente di male.

— Capisco, — risposo Marcello, — ma io gliela porgerò in piccole; perchè, sarà la mia, se volete, [p. 80 modifica] una virtù codarda, ma dall’altro canto considero che persuadendo l’uomo di sostituire il proprio arbitrio alla regola, non sapremo più dove andremo a cascare mia volta scavalcato il fosso.

Il medico tentennando il capo parve assentire, e nel prendere licenza raccomandò a Marcello, sia di notte, sia di giorno, non si rimanesse di mandarlo a chiamare; soprattutto badasse allo zio; e strettagli forte la mano si partì.

Con pietoso inganno (la Betta in ciò adoperandosi massimamente) Marcello ed Isabella giunsero a nascondere allo zio Orazio lo stato in cui si versava l’affettuosissima donna; ma giunta la terza sera dopo la prima visita del medico, Betta fece cenno a Marcello le si accostasse; allora di un tratto gli gettò le braccia al collo e pianse; poi con un filo di voce gli disse:

— Figliuolo mio, non ne posso più ecco, mi sento proprio morire: ho considerato se mi riusciva astenermi da rivedere lo zio, ma non ho forza che mi basti: vammelo a chiamare; tanto questo dolore ha da soffrire ed io qualche parola che lo consoli potrò pure dirgliela.

Orazio, udita la chiamata, antivedendo sciagura, si gettò giù dal letto, e avvolto appena dentro una coperta fu al capezzale di Betta, la quale tostochè lo vide così sciorinato prese affannosa a parlare:

— Marcello, per l’amore di Dio, fa’ di coprire [p. 81 modifica] lo zio, che non abbia a chiappare qualche malanno.

— Sì, giusto — replicava Orazio respingendo stizzoso Marcello — adesso è caso di pensare a reumi! Che novità son queste, Betta? Betta, Signore! Betta, non mi spaventare. dimmi? Come ti senti? Bone, non è vero? Via, non tanto male.

— Signor Orazio non si spaventi; si metta a sedere qui accanto a me. Senta io l’ho conosciuto sempre uomo di stocco e cristiano: dunque si chiami le sue virtù intorno al cuore per sopportare l’annunzio che tra poco.... stanotte.... di qui a due ore Betta la lascerà.... la lascerà per sempre.

— Oh! — con voce roca proruppe Orazio, e cadde in ginocchioni accanto al letto, stringendo con ambedue le mani la destra della Betta, la quale con molto sforzo proseguì:

— La mi perdoni, caro signor Orazio, so la lascio così in asso, mentre più che mai, poveretto, lo vedo bene, ha bisogno di cura. la colpa non è mia. però aveva pregato tanto il Signore che mi permettesse di starmi per un altro po’ di tempo in questo mondo: egli, che legge nei cuori, sa se lo facessi per me. ...a lui non piacque esaudirmi, pazienza! Basta che ella non se la pigli a male, che, quanto a me, me la terrò in benedetta pace. E tu, Marcello, con la tua Isabella raddoppiate l’assistenza a questo santo vecchio.... ve lo raccomando con tutto [p. 82 modifica] il cuore e con tutta l’anima.... povera me!.... vagello.... o non siete voi suoi figliuolo e figliuola di amore? Che bisogiio avete delle mio raccomandazioni? Proprio pensieri del Rosso.

Qui tacque, che la commozione le tolse il respiro: dopo alquanti minuti di sosta ripreso:

— Signor Orazio.... Orazio.... senti.... vorrei domandarti una grazia.... mi scuserai? Ora qui presso a morte.... ti contonti che io ti baci.... la mano.... il primo e l’ultimo.

Orazio aveva la gola come stretta da una tanaglia; si sforza parlare e non gli riesce; si leva, e prese con anmbedue lo mani la faccia della Betta, la bacia o la ribacia in fronte, su la bocca, e sugli occhi, e Betta a posta sua lo baciò più volte, fra un bacio o l’altro alternando i cari nomi di padre, di fratello o di sposo dell’anima. — Di un tratto a Orazio vennero meno lo gambe di sotto, vampe infocate gli turbinarono dinanzi agli occhi, finchè perduti affatto gli spiriti cadde sul pavimento a’ piedi del letto. Allora Betta bisbigliò:

— Sia ringraziato Dio, che la è andata a finire così! Marcello, aiuta lo zio, che si è svenuto. La Provvidenza ebbe misericordia di lui, lo tolse al senso dei mali presenti. Or va’!... non ho più bisogno di nulla... lasciatemi morire in pace.

Marcello sovvenuto dai famigli trasportava lo zio nella sua camera, nè lo abbandonò se prima nol [p. 83 modifica] vide tornato in sè. Il povero uomo, tostochè ebbe ripreso gli spiriti, volle ricondursi presso la cara donna, ma gli mancarono le forze, ond’egli sospirò dal profondo e pianse; poi disse a Marcello:

— Tu almeno va’, figlio mio, ad assisterla fino all’ultimo... ahimè! Povera Betta? ...

Marcello cheto cheto si pose dappresso alla morente, la quale ansava in molto orribile maniera e con sempre cresconte affanno: ad ora ad ora apriva gli occhi, ma si vedeva espresso che pupillo irrequiete e strambe erravano prive di conoscenza. Socondochè accado ordinariamente sullo spegnersi dello intelletto, si ravvivò nella Botta, mandò un ultimo lampo, e potè dire:

— Orazio! Orazio!

E Marcello chinato all’orecchio di lei mormorò sommesso:

— Sono io.....

— Chi io?

— Marcello, il tuo Marcello.

— Sii benedetto... dammi la mano... ti vedo appena... un’ombra... insegna ai bimbi il mio nome, se non ti affliggerà... se no tacilo addirittura... tu amami sempre... Marcello... Dio! non ti vedo più... non... più...

Strana cosa a dirsi! Orazio, morta Betta, non pronunziò mai, mentrechè visse, il nome di lei, quantunque si conoscesse che ella gli stava sempre [p. 84 modifica] dinanzi la mente: a mensa talora fissava il posto che ella aveva occupato in vita, e col braccio levato stava lì per non pochi minuti, quasi le volesse parlare

i pietosi figliuoli provarono da prima distrarlo da cotesta fantasia, ma ebbero a pentirsene, perocchè subito dopo lo assalissero le convulsioni: se avveniva che altri pronunziasse il nome della defunta, subito, quasi per iscatto, la destra gli saltava sul cuore. Talvolta sulla sera egli penetrava nella stanza mortuaria della Botta, e quivi posto il capo sopra il capezzale ov’ella era spirata si tratteneva lungo tempo; quando ei ne usciva pareva ci avesse lasciato un frammento di vita. Non si attentarono impedirlo; diede alla cara salma onorata sepoltura, o fece incidervi sopra il desiderio ardentissimo di tenerle dietro, espresso con le parole: A rivederci presto.

Una tristezza senza fine amara erasi aggravata sul cuore di Orazio nel considerare le fortune afflitte della patria. Egli fu dei pochi che sotto il tremore della tirannide universale ardirono primi levare la faccia, e saettarla con tutte le armi che amore e furore metteva loro nelle mani; nature eroiche ed immaginose, razza di Titani, i quali quante volte erano stramazzati a terra, tante ne sorgevano più rubesti che mai: gaudi i pericoli, le cospirazioni sollazzi, tripudio percuotere, essere percosso, e per taluno perfino la morte. Vollero e [p. 85 modifica] operarono affinchè la patria rifiorisse nella gloria e nella libertà, ed ora la vedevano strema di sostanza, e di onore: presi in uggia i magnanimi, e peggio ancora calunniati o derisi; le memorie loro rase via dalle carte e dai marmi. Adesso sopraggiunse la invasione dei lumbrichi; essi regnano e governano; e gran parte di questi una gioventù presuntuosa e corrotta. Pochi, per sottrarsi alla infamia dei tempi presenti, s’inebriarono con la voluttà della morte, e corsero là dove si parava la occasione di morire, e morirono; ma raccolto prima nelle palme le ultime stille di sangue, lo avventarono contro gli abietti deturpatori della patria, perchè almeno ne restassero segnati. Divini gesti un giorno, e celebrati nei tempii, oggi scherniti ed inani, imperciocchè il popolo un giorno stupido di paura, ed oggi risentito male, invece di nobilitarsi nella dignità del lavoro, e procedere sobrio e severo nel cammino della rigenerazione, noi lo vediamo dare mano egli stesso alle arti della corruttela. Una volta il tiranno si assottigliava il cervello per somministrare al popolo pane e circensi; adesso il popolo gli ha tolto questo incomodo; pensa da sè a inschiavirsi.

Però uno stringimento incessante logorava l’anima di Orazio, il quale se la sentiva disfare in polvere come ferro sotto l’azione della lima. «Il padre delle misericordie potrà perdonarmi forse, ma non [p. 86 modifica]mi perdonerò mai io, per avere creduto che la causa della libertà potesse confidarsi nelle mani dei re — spesso andava dicendo Orazio, ed aggiungeva: — non vi confondete, il popolo nelle monarchie lo proverete più schiavo che non è tiranno il principe.»

E lo rodeva altresì la sollecitudine di non sapere quale avviamento dare ai figli del suo nipote: le femmine gli parevano uccelli, a cui educhiamo le ali perchè lascino il nido; e giova appunto che sia così: pei maschi, il nostro consorzio civile possedeva un giorno parecchi indirizzi lodevoli, oggi li sperimentiamo tutti cattivi, anzi pessimi. Le varie professioni delle quali si onora la vecchia civiltà, mirale adesso, e dimmi poi se non ti paiano tante serpi sul capo di Medusa. Il sacerdozio campa di errore, la milizia o di ozio o di sangue; la mercatura arrena dove due interessi armati stanno l’uno contro l’altro, né possono uscirne altrimenti che o ficcando la botta o buscandola. I banchieri impiccatori destinati ad essere a suo tempo e luogo appesi dagl’impiccati. Gli avvocati redivivi Mitridati, che si pascolano e ingrassano co’ veleni dell’ira e della calunnia venduti: i buoni rari, e questi perseguiti a morte, perchè minaccia ad un punto ed accusa alla turba dei tristi. La scienza anch’essa servile, e intesa più a nocere che a prosperare la umanità, laddove non la esercitino persone [p. 87 modifica] favorite dalla fortuna: di voro, confrontate lo speso nel traforo del Moncenisio con quello nel bombardamento di Parigi, e giudicate. Rifugio unico l’agricoltura; agricoltori i romani o soldati; ma Orazio non possedeva tanta terra che bastasse ad occupare tre figliuoli; tuttavia questo era il meno che lo affliggesse, imperciocchè egli costumasse dire che a buona lavandaia non mancò mai pietra per lavarci i panni, e così per via di motti si consolava.

— Verrà....?

— Non verrà....

— Sì le dico, che verrà; o non sente il rumore di una carrozza.

— Bella riprova! Como se a Torino si trovasse la sola carrozza che condurrà il tuo suocero, posto che ei venga in carrozza.

— Ma ecco si è fermata all’uscio.

— Va’ a vedere....

— Andiamo tutti: senz’altro è nonno.... sicuramente ò babbo.... il signor Omobono.

Ed i fanciulli tutti con Isabella e Marcello corsero ad incontrare Omobono.... Orazio no, il quale per trovarsi in cotesto giorno più dello antecedente indisposto, si era rimasto seduto, e poi amava Omobono quanto il fumo agli occhi o giù di lì.

Omobono entrò in sala strepitoso e festante, [p. 88 modifica] tenendosi abbracciati da un lato e dall’altro, a mezza vita, figlia e genero: i fanciulli seguivano urlando, ed egli pure schiamazzava ingegnandosi sopperire con la chiassosa ostentazione al difetto di gioia verace.

— Guardatevi bene, signor Orazio, diceva Omobono, dopo avergli stretta la mano, di venire meco a contesa, perchè, voi lo vedete, la vostra bandiera al mio solo apparire andrebbe deserta, e voi cadreste prigioniero. Come state signor Orazio? Già, bene; oh! noialtri vecchi siamo schiappe di legno ferro, noialtri...,

— Benvenuto signor Omobono, e vi ringrazio della visita che vi siete compiaciuto farci.

— Veramente, senza superbia, non ci voleva altro che voi per tirarmi qua: domani a casa è giornata di affari: stasera aspetto dispacci privati per regolarmi in Borsa; da un punto all’altro sono per arrivarmi i miei commessi dal Giappone, dalla China e dalla Tartaria, perchè quest’anno, vedete, ho fatto esplorare anche la Tartaria, per procurarmi seme extra; ho intenzione di mettere su bigattiere, strade ferrate, credito fondiario, società di miniere.... un mondo di cose senza contare la mia Banca, gli sconti di piazza, le anticipazioni su mercanzia.... basta, ho colto a volo la occasione di venire a Torino per concertarmi col ministro sopra certi negozi del Banco Sete, e dei Canali Cavour, e così ci ho [p. 89 modifica] fatto incastrare senza danno, o senza troppo danno, la contentezza di rivedere il mio sangue, e voi, signor Orazio, che mi siete più caro della pupilla degli occhi miei....

— Voleva ben dire che tu ti fossi mosso proprio per noi, — pensò Orazio; ed anco Isabella avvertiva il marrone paterno: quindi Orazio a voce alta si fece ad osservare:

— Tanto travaglio e tanto arrotarsi a che pro?

          «Tutti torniamo alla gran madre antica,
          E il nome nostro appena si ritrova.»

— Magnifiche, signor Orazio, stupende queste sentenze, dentro un libro di filosofia e nei confetti parlanti; e voi, ditemi, perchè vi affaticate sempre e non quietate mai?

— Ma mi sembra, soggiunse Orazio, che tra porri e porri mi divario ci corra: io mi industriai prima con ogni onesta sollecitudine a procacciarmi tanta roba, che bastasse a sostentarmi la vita; ottenutala, smisi di arrovellarmi, pigliando parte nelle faccende pubbliche, ovvero attendendo agli studi geniali.

— E che rileva cotesto? O che io, senza superbia, non avrei potuto con plauso esercitare qualcheduna delle belle arti? Anzi, se mi tasto, mi sento forte per affermare che sarei riuscito in tutte: ricordano a Bergamo la perizia con la quale suonava il flauto in gioventù; ed anco un dì mi sorrise la Musa, ma io elessi invece dedicarmi intero ai grandi affari, [p. 90 modifica] ai quali mi chiamava la mia propensione naturale, sicchè, senza superbia, io posso, con solerzia e sveltezza pari, condurre di fronte quattro aziende o sei, tra loro svariatissinie, come sarebbe a dire bonificamento di terre, direzione di banche, di case di commercio, d’industrie agricole e commerciali, setifici, miniere, e via discorrendo. Impertanto il mio arrotarmi pari al vostro, il fine diverso; e se non temessi di recarvi dispiacere, io vorrei sostenervi come le mie fatiche sieno più generose o più utili delle vostre.

— Davvero?

— Ne dubitate? Ebbene, io ve lo dimostro. Quando voi alla vostra premura di radunare facoltà diceste: basta, ditemi un po’ a chi pensaste voi? Alla vostra persona, e non oltre: ora io all’opposto mi occupo dei figli, e dei figli dei miei figli; difatti la roba vostra non credo, e non è sufficiente per la famiglia uscita da Marcello e da Isabella, per mantenerla nel grado in cui l’avete messa voi. E poi la opera mia torna non pure vantaggiosa alla famiglia, ma approfitta altresì allo universale.

Orazio buono uomo era, ma risentito alquanto, ed ab antiquo i sassi chiamava sassi e pane il pane, onde rendendo artatamente blanda la voce soggiunse:

— Ecco, se voi non aveste peggiorato Marcello di un cento di mila lire, e vi compiaceste pagare [p. 91 modifica] la dote alla Isabella, la sostanza di casa mia avrebbe potuto sopperire a tutto; che io mi tengo al sodo, e le girandolo sono fuochi di artifizio; ma a ciò diamo di taglio; quanto ai banchieri io aveva sentito dire che quando s’incontrano co’ pesci cani si fanno di berretta, e si salutano col nome di fratelli.

— E fosse così, anzi poniamo che la sia per lo appunto così; dite, signor Orazio, forse si divorano unicamente fra loro i pesci cani e i banchieri? Tutti ci divoriamo a vicenda; e siccome la batte fra divorare ed essere divorati, o la sa come ella è? Io stimo più spediente per me entrare nell’arciconfraternita dei divoratori.

— Già cotesto è il discorso e non fa una grinza, ma non ci vedo spuntare nè anche un crepuscolo di benefizio universale.

— O che abbacate voi di crepuscolo, mentre ci splende mezzogiorno sonato: mirate qua: è vero o non è vero, che i pesci nutriti ottimamente, secondo la usanza vecchia per la quale il più grosso divora il più piccolo, generano una moltitudine di nuovi pesci, che servono di gradita vivanda ai pesci fratelli ed a noi: se così non facessero morirebbero tutti: del pari fra gli uomini; se uno non si avvantaggiasse sull’altro, finiremmo tutti di miseria e d’inedia. Il sagace ridona in pioggia quanto ha risucchiato di nebbia. Affermano gli uomini venuti [p. 92 modifica] in società per sovvenirsi mutuamente, ed è vero, però col mezzo del divoramento scambievole; tanto vero questo, che mentre da un lato troviamo antichissimo l’uso di mangiarci fra noi, dall’altro vediamo crescere la umanità e prosperare.

— Sentite, Omobono, coteste vostre sono opinioni trovate fra le carabattole del misantropo Hobbes; hanno la barba bianca, e nessuno ci pensa più; per me ignoro se l’uomo sia fatto a immagine di Dio, e non ci credo; ma so di certo ch’egli gli infuse nel cuore nobili istinti, gli diede senso di pietà e amore di gloria; in mezzo all’anima gli stabilì un tribunale che si chiama coscienza, presso cui non ci ha barba di avvocato che valga ad imbrogliare le carte.

— Se le mie opinioni hanno la barba bianca, i vostri discorsi fanno dormire ritti. Sensi di pietà affermate voi? come va che quanto più risalghiamo alle prime origini dell’uomo, e più noi lo troviamo divoratore del proprio simile, con buona fede perfetta e con piena quiete dell’animo; e ai giorni nostri per avventura gli uomini hanno smesso la tenera usanza? Voi la sapete più lunga di me, e potete insegnarmi come costumassero portoghesi, olandesi, spagnuoli, inglesi nelle due Americhe, nelle isole del grande Oceano e nelle Indie. Gli spagnuoli adoperarono mastini per isterminare le razze dei popoli aborigeni, gl’inglesi i missionari; i primi [p. 93 modifica] distrussero co’ morsi, i secondi con la bibbia. Lo rammentate voi Beniamino Franklin? Egli mandò in dono al Pitt una cassa piena di serpenti a sonagli, per mercede del bene che egli aveva fatto agli americani. Poco tempo mi avanza a leggere, ma ho sentito più volte levare a cielo i russi perchè, dopo conquistato mezza l’Asia Settentrionale, ci conservarono gli antichi abitanti, gli istruirono e li protessero; ci fondarono città, c’instituirono fiere, ci promossero l’agricoltura; insomma, essi, barbari, si mostrarono a prova più civili di noi. Fiori rettorici! cose da ecloghe e da buccoliche: veniamo al sodo; non ci è caso, per giudicare un tristo ci vuole un tristo e mezzo. Gli storici avrebbero a discendere tutti in linea retta dal Machiavelli ovvero dal Guicciardini, e se di questi valentuomini non si fosso sperso il seme, di lieve avrebbero compreso come nel settentrione asiatico regni tale una temperie, a cui è impossibile che altri si adatti, eccetto lo indigeno, mentre le terre occupate dagli spagnuoli e compagni di rapina apparivano comodissime a pigliarsi ed eccellenti a tenersi: quindi torna ai russi conservarci gli aborigeni ed incivilirli fino al punto, che da un lato essi diventino buoni a produrre quello ch’ei ci cavano, e dall’altro a consumare quello che ei ci portano. — È affare di bilancio. La chiamerai carità cristiana? No signore, è carità pelosa. [p. 94 modifica]

— Ma la coscienza, signor Omobono; vorreste voi negare la coscienza?

— La coscienza è come il solletico; chi lo patisce e chi no; e poi, caro mio, ditemi in grazia, la mia coscienza è proprio sorella della vostra?

— Oh! no.

— Voi ridete? Ebbene, io v’incalzo e vi domando se la coscienza vostra si rassomigli giusto alla coscienza di Pio Nono, del conto Menabrea, di santa Caterina da Siena, del Bismark, e via discorrendo? Vi ha tale spagnuolo, il quale si farebbe mettere a fette piuttosto di cibare carne il venerdì, e ammazzerebbe un uomo per un lupino. Che cosa pensate voi che abbia a dire la coscienza a cotesti cari re di Viti Leven, i quali si mangiano i propri sudditi a desinare? O santa ingenuità di sacra corona alterata in Europa!1 La coscienza di un tempo diversifica dalla coscienza di un altro; la coscienza di un paese non è più quella del paese accanto, pensa se del paese lontano! Caro mio, chi sa quanti, e quanti secoli la nostra razza ha vissuto senza intendimento del bene e del male, ed anche adesso riuscirebbe difficile chiarire quanti uomini vivano [p. 95 modifica] in simile ignoranza: la qual cosa, a parer mio, dimostra espresso che il bene e il male, secondochè gli intendiamo noi, siano faccenda del tutto artificiata, non già di natura. Caro mio, se colui che presiedè alla creazione di questo basso mondo ordinava che tutte le creature dovessero conformarsi ad una regola prestabilita, egli l’avrebbe appesa in alto in mezzo al firmamento, affinchè tutti l’avessero potuta vedere così di giorno come di notte. O non ci ha messo il sole, e la luna? Dacchè egli aveva le mani in pasta, ci voleva tanto a fare un sole guidatore al ben vivere? So pertanto su in cielo il sole splendo di giorno, e la luna di notte, egli è perchè non ci diamo dello zuccate, fra le quali, ho sentito, dire, che non corre differenza in veruna parte del mondo; e se non ci fu messa la regola universale del vivere, significa aperto che si lascia in potestà nostra comportarci in un modo piuttostochè in un altro. Accade dei costumi appunto come delle lingue; la favella ci viene da natura, le guise del favellare dal talento degli uomini.

— Oh! la stirpe dei mortali pur troppo si divide in diverse classi, sani od infermi, forti e deboli, belli e deformi, ingegnosi e stupidi, buoni e tristi, e che perciò? La bellezza è cosa affatto corporea; ebbene, forse una brutta razza non si può fare divenire bella? Sicuramente si può; e se mi oppo[p. 96 modifica] vi risponderei che avete torto marcio: provate ad animare la Venere di Milo, o piuttosto quella dei Medici, datele moto, datele affetto, datele accento e lo splendore degli occhi, e il lampo del sorriso, e mostratola al Caffro o all’Ottentoto, e mi conterete poi se la preferiranno o no alle orribili loro femmine. Come della bellezza del corpo così di quella dell’anima. sta’ a vedere che voi vorrete darmi ad intendere che ferocia piaccia più dell’amore, tradimento più della fede, e così di seguito. Anco tu metta da parte il senso di umanità, che ci viene da natura, l’uomo ha da condursi a preferire le passioni buone alle reo, imperciocchè queste seminino la distrazione, mentre le prime fecondano uomini e cose.

— Ed anco qui noi ci troviamo distanti quanto gennaio dalle more; io, e meco altri moltissimi, crediamo dannoso questo moltiplicarsi alla scapestrata del gregge umano; o che torcete il grifo? I vescovi nelle loro Omelie salutano sempre i diocesani col nome di gregge; e sono uomini santi, ed io, che non mi reputo uomo santo, non potrò appellare la università dei miei dilettissimi fratelli gregge ed armento? La Provvidenza por rimediare alla meglio a questa smania di crescere, vedendo restringersi la voglia di cibare carne umana, sappi i con la smania della guerra; le bestie, uscite di mano alla natura meno perfette dell’uomo, non poterono [p. 97 modifica] educarsi a tanto raffinamento di civiltà; talvolta gli nomini stanchi, non sazi, cessano le stragi; allora la Provvidenza sempre pronta, alla mancanza della guerra sopperisce con la fame, o con la peste, o con qualche altro partito. Eh! caro mio, la Provvidenza non per nulla si chiama Provvidenza.

— Codeste vostre proposizioni furono facilmente dette e ripetute, ma provate mai. Prima di sgomentare con siffatte maledizioni vorrei che mi diceste se la superficie del mondo, nelle zone abitabili, fu coltivata tutta e bene? Che la vita sia una prova, e lunga, e dura l’arte di migliorarci, pur troppo è vero, ma nobile scopo rendere buoni noi, nobilissimo altrui. O che presumereste voi, stamane, negare il progresso della umanità al meglio? Considerate che trecento anni fa un uomo che si fosse avvisato a ragionare come voi lo avrebbero arso vivo in qualità di eretico....

— Ebbene, o che questo sembra a voi veramente progresso?

— Eh! per me lo lascio giudicare a voi....

— Via, mettiamo da parte questo tasto e passiamo ad un altro; parliamo di gloria — soggiunse Omobono noi concetto maligno di trafiggere Orazio nella parto più tenera: — fumo di gloria non vale fumo di pipa, scrisse una donna, che per caso aveva giudizio. Quante e quante vissero migliaia di uomini, così detti grandi, dei quali oggi va spento il nome! Per [p. 98 modifica] un Attila, che si rammenta, cento Jenner annegarono nell’oblio. Gli nomini sono così fatti, che chiudono nella loro memoria, come dentro un ciborio, i nomi di coloro che li straziarono; chi li benificò pigliano in uggia, ed a ragione; perchè i primi somministrino materia di esercizio all’odio, ch’è dote naturale alla nostra stirpe, mentre i secondi ci obbligano alla gratitudine, cosa del tutto contraria alla nostra natura. E poi, o che cosa è questo lusso orgoglioso nell’uomo di voler superare l’altro uomo? Questa superbia di vivere anco dopo morto? Questa fisima di rompere la testa, anco sepolto, al genere umano? Tutti tacciono nella fossa, e ci stanno tranquilli: chi ha dato a quattro o a sei il diritto di far chiasso anche nel camposanto? A me sembra questa una sconvenienza grandissima; chi leva la testa fuori del suo sepolcro non si deve lamentare se altri ci dà dentro co’ piedi. E qual pro, ditemi per vita vostra, in questo diluvio di libri in prosa e in rima? O che importa sapere a me che il Petrarca amasse una donna maritata? E che cosa che ella morisse? Per me avrebbe operato il signor Canonico da galantuomo a starsi chiotto come un olio. Vorrei altresì sapere quanti ragnateli gli uomini cavarono dal buco con la Divina Commedia o con la Gerusalemme Liberata? All’opposto non rifinirei lodare taluni trovati della scienza, ma ad un patto, che non ne potessero approfittare tutti, però che a [p. 99 modifica] questa guisa torna lo stesso che non so ne avvantaggi nessuno; a modo di esempio, ottima la invenzione del telegrafo elettrico, ma doveva destinarsi all’uso esclusivo dei banchieri, ed anco non di tutti. Nel sottosopra però nelle scoperte della scienza troviamo essere più gli sbirri che i preti, sicchè a occhi chiusi io la do vinta all’antico borgomastro di Strasburgo, il quale fece gettare nel Reno l’inventore del telaio meccanico, che mandava a spasso tanti operai. Ognuno si agiti, e goda a modo suo, a condizione però di non infastidire altrui.

— E a patto di stare bene con se medesimi; o voi signor Omobono come vi trovate con voi?

— Io? Ci sto amicamente, quantunque non mi possa astenere da confessarvi che stava meglio prima che tanti spiriti irrequieti mi scappassero fuori con le diavolerie della libertà e della indipendenza nazionale. Ignoranti da mitera, libertà che è? Ne manco voi lo sapete? E a quanti sommano coloro che di quella libertà godono? E a quanti quelli che la sanno godere? Fanciullacci piagnucolesi e strepitanti pel balocco, che appena ottenuto buttate via. Con simile generazione di uomini fra la tirannide e la libertà gli è un fare perpetuamente a scarica barili, una porta l’altra, o l’altra l’una. Per me alla granfia col guanto preferisco la granfia ignuda. Non vi confondete, voi potrete [p. 100 modifica] vedere giusta l’ora che fa nella vita del popolo, quando il pendolo dell’orologio sociale va dal prete al gendarme, e dal gendarme torna al prete: e queste verità ormai si sentono bandire fino dalla tribuna del Parlamento italiano. Quanto alle vantate nazionalità, bisogna proprio avere la benda su gli occhi, per non vedere come le sieno altrettanti triboli messi sotto i piedi della umanità, perchè quanto più piccolo sei e meglio t’impasteranno; così gli individui si agglomerano più facilmente dei comuni, i comuni delle provincie, lo provincie delle nazionalità. Il singolo come possiede meno forza così ha minori motivi di starsi separato dai corpi collettivi; ma quando promovete le nazionalità, e favorite lo sviluppo delle loro passioni dominanti, e i modi tutti di vivere e prosperare esclusivi, separati sempre, bene sposso ostili a quelli delle altre nazionalità, voi lavorate senza addarvene a perpetuare la divisiono, la prepotenza e la guerra fra gli uomini. Volete la repubblica universale e la fratellanza del genere umano, e ogni giorno scavate loro i trabocchetti, e gittate randelli fra le gambe; volete libertà e siete più schiavi voi che non è tiranno il monarca. Perchè ci vituperato voi, e perchè volete montarci addosso? Siete forse più onesti, più sapienti, più animosi di noi?

— Il fatto sta per voi: vi parlerò per via di parabole: date tempo al tempo, signor Omobono, e [p. 101 modifica] se pensate che rimettendovi a casa voi non saliate una scala per volta, bensì scalino per iscalino, vi sarà chiarita la ragione di parecchie cose, che sembrate ignorare. Di quost’altro persuadetevi, che voi vi metteste a puntelli all’edilizio che si sfascia; ora il puntello non è l’edilizio, sebbene si troverà un giorno travolto nella medesima rovina.

— Caro mio, voi v’ingannate; il vizio è il mercato dove si trafficano le virtù; e siamo tali puntelli noi, che alla occasione diamo la pinta alla fabbrica. Quando sarà istituita sopra buon fondamento la repubblica, noi offriremo i nostri umili servizi alla repubblica italiana, ed anco alla repubblica universale: però non vi augurato mai di passarvi dell’usuraio e del prete; prete e usuraio sono ossa delle ossa, e carne della carne della umanità. Tuttavia mentre queste cose hanno da venire, io per me penso: che non valeva il pregio di capovolgere questo mondo, e quell’altro per isfrattare gli austriaci di Italia; anzi sarebbe tornato meglio sovvenirli ad occuparla tutta, che senza tanti disturln adesso ci troveremmo ad aver fatto maggiore cammino; invece ora il popolo scorrazza a scavezzacollo per l’aperta campagna, e ci vorrà il diavolo perchè i sullodati prete e giandarme ce lo riconducano alla fune.

Si vedeva chiaro come Orazio, o por fastidio, o per istracco, non si curasse rilevare lo invereconde [p. 102 modifica] enormezze di Omobono, sebbene coteste sconce trafitture lo pungessero, oltre ogni credere, dolorosamente; ma alle ultimo proposte di costui il suo volto presentò di transito tutti i colori dell’arcobaleno, e già la bile troppo a lungo repressa stava per gettare giù. gli argini e prorompere, quando un servo si affacciò sul limitare della sala annunziando il pranzo in ordine.



Note

  1. Gli è vangelo schietto: il Macdonald, che visitò cotesta isola nel 1856, rinvenne che la M. S., allora felicemente regnante ne aveva mangiati 800; la quale statistica era stata tratta dalle pietre accumulate davanti la reggia, dove per contatore di ogni suddito mangiato l’augusta persona poneva una pietra.