Il sorbetto della regina/Parte seconda/V

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Parte seconda - V. Finale inatteso di un'opera sconosciuta

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CAPITOLO V.


Finale inatteso di un’opera sconosciuta.


“Egli pensa alla francese!„

Ecco il commento, che accompagna assai sovente le opinioni del colonnello Colini. Tradotto in napoletano, ciò voleva dire: che il colonnello aveva delle idee strane, ridicole, impossibili, empie; tradotto nella lingua della coscienza universale, ciò significava: che egli aveva delle idee morali, piene di buon senso e senza pregiudizi.

L’aria morale d’una grande città l’aveva cangiato. Uscito dal fango sociale del suo villaggio, ove la sua grandezza di carattere e di spirito sarebbe stata pericolosa, svegliando la gelosia, i sospetti, le denunzie alla polizia ed al Vescovo, che si equivalevano, confuso nel turbinìo della capitale, egli aveva acquistata un’indipendenza relativa e gettata via la maschera di rustico e di grognard, che aveva adottata, come Machiavelli, vivendo tra i boscaiuoli ed i bazzicatori [p. 185 modifica]della taverna del contado. Il colonnello era ridivenuto ciò che si era mostrato in Francia e nell’esercito: un uomo, un carattere, uno spirito.

Alcuni compagni della carriera militare, che non avevan mica rinnegato il passato, gli fecero festa, i rinnegati, essi stessi si affrettarono a rendergli buoni uffici a sua insaputa. Ed uno d’essi, in effetto, fece ritirare dal ministro della polizia l’ordine che confinava il colonnello in provincia e lo lasciava vivere immolestato in Napoli. Un altro gli procurò, da un libraio, la traduzione di una Storia di Napoleone. Un giornale letterario, redatto da un uomo di lettere eminente, ridotto a vender tabacco per vivere, il signor Borsieri, gli confidò la critica letteraria e teatrale. Il generale Florestano Pepe, per prudenza, gli aveva perfin consigliato di svestire l’uniforme di sergente e prender l’assisa borghese. Ma il colonnello su questo punto fu intrattabile; suo costume era una protesta contro la condotta infame dei Borboni; il suo uniforme era la gogna di una corte, di un regime, di un sistema, di uno Stato; il colonnello si considerava come quegli uomini che vanno per le strade di Londra portando sul petto o sulle spalle degli annunzi: egli, colonnello dell’esercito francese, egli camminava per le vie di Napoli e tutti potevano leggere sul suo uniforme di sergente napoletano: qui una dinastia si disonora!

Un anno era scorso dal suo arrivo a Napoli.

Egli viveva sempre con Bruto, il cui carattere diveniva sempre più cupo, a misura che [p. 186 modifica]la sua carriera migliorava. La sua fortuna gli pareva una catena pesante a trascinare.

Il colonnello non lo capiva, ma non osava provocare delle spiegazioni, che non erano incoraggiate dal suo antico allievo.

Si diceva, però, a sè stesso:

“Spasimi d’amore, impossibile!...„

Una sera gli chiese:

— Bruto, vieni al San Carlo?

— Non posso questa sera, sono di guardia all’ospitale dei Pellegrini, dove il servizio di notte è più necessario.

— È peccato. Si dà la Linda di Donizetti, ti piace tanto.

— È peccato, veramente, replicò Bruto.

— Il male non è forse poi tanto grande, al postutto, soggiunse il colonnello. Non è la Frezzolini che canta, ma una esordiente. Il principe di Joinville, ch’è qui, ha espresso a Donizetti il desiderio di udire la Linda, per farla poi rappresentare al teatro Italiano di Parigi nel prossimo inverno. Il principe sarà nella loggia reale.

— Col re e le due regine? domandò Bruto.

— Non credo. Il re e le regine fanno non so che novena.

— Deploro di non poter venir teco, replicò Bruto, ma noi posso davvero. Tu mi racconterai come è andata la cosa, perocchè, nelle mie visite medicali del gran mondo, sono obbligato a parlare di musica, di passi a due, di sport e di turf, di romanzi e di drammi, tanto quanto dell’ipecacuana e dell’olio di ricino.

— Ecco cosa vuol dire esser medico dandy e alla moda! [p. 187 modifica]

Bruto non rispose.

Il colonnello andò solo al San Carlo. Doveva parlare nel suo giornale dello spettacolo e della nuova cantante. Ho io duopo di dire che le appendici del colonnello, quantunque firmate da un pseudonimo, erano sempre oneste, leali e disinteressate? Tutt’al più e’ si permetteva delle arguzie, onde servir l’estetica in un vassoio d’oro.

Il colonnello sedette al suo posto, presso la corsia del passaggio in mezzo alla platea. Mise a posto per bene la sua gamba di legno, per non noiare nessuno con essa: allogò la sua sciabola in mezzo alle gambe; raccolse al petto il meglio che potè quel po’ di moncherino sinistro che gli restava. Perocchè quanto egli era disposto a far parata schernevole del suo uniforme di sergente, altrettanto era riservato nel mettere in mostra le sue ferite. Si rannicchiò, dunque, nel fondo della sua sedia, si fece il più piccino possibile per lasciar passare senza incomodo queglino che venivano a sederglisi accanto. Restavano ancora alcune seggiole vuote in seguito alla sua.

Finiva la sinfonia, il sipario stava per alzarsi, quando un gruppo di giovanotti entrò con strepito parlando ad alta voce e facendo come codazzo ad un uomo dall’aria disinvolta, che li precedeva e cui chiamavano: marchese.

Questo marchese non era altri che il nostro guappo, il quale aveva il suo posto a lato al colonnello. E’ passò davanti senza dir nulla, mentre questi si ritirava da parte.

— Ti ho forse pigiato un piede, caporale? [p. 188 modifica]disse il marchese, fissando lo sguardo sulla gamba di legno.

Il colonnello si aggomitolò più strettamente ancora per lasciar passare gli amici del marchese, senza aprir bocca.

— Mi sembri offeso, veterano, riprese il marchese. Io non te ne voglio, sai. Dammi la tua mano, ecco la mia.

E tese la mano verso il braccio monco del colonnello. Questi si tacque ancora e nulla smentì la calma del suo viso.

— Ah! scusi, il mio alabardiere, insistette il marchese, contrariato dal silenzio, pieno di sprezzo del colonnello. Ove hai tu perduto i tuoi mazzapicchi, cucinando il rancio dell’esercito e nell’esplosione di qualche petardo indisciplinato alla festa del Corpus Domini dei re Corsi?

— Signore, io amo la musica, vogliate, vi prego, permettermi di ascoltarla. Si alza il sipario.

— Il mio guerriero ama la musica, disse il marchese volgendosi agli amici; c’è forse del cannone in quest’opera?

Gli amici del marchese scoppiarono in risate; il colonnello taceva sempre. Questa gratuita e volgare insolenza di un uomo, cui egli non conosceva, al quale non aveva dato nessun motivo per insultarlo, parve al colonnello una cosa disprezzabile, indegna di lui, oppure una provocazione della polizia.

Cominciò l’opera. Ondina, l’esordiente, comparve. La sala gittò un’esclamazione di compiacenza, vedendo una così vaga fanciulla. Il marchese ed i suoi amici proruppero in ap[p. 189 modifica]plausi. Il colonnello, commosso come gli altri alla vista di così grazioso visetto, si dimandava, un po’ turbato, dove mai avesse visto quella creatura i cui lineamenti non gli erano sconosciuti. Difatti, egli aveva veduto Lena ai Fiorentini, nel Violinista di Cremona, poichè era dessa che esordiva ora nella parte di Linda.

Alle prime note, tutti gli spettatori divennero attenti. Ascoltavano quella voce, maravigliosa per l’estensione, il metallo, il vellutato delle cadenze, il folgorare nell’esplosioni, il perlato nei rintocchi, la nettezza negli staccati, il capriccioso nei gorgheggi e l’arditezza dei contrasti. Donizetti, che era vicino al principe di Joinville, nella loggia reale, raggiava di contentezza. Il principe applaudì. Quando la cantante finì il suo primo pezzo, la sala intera si scosse. Ondina fu chiamata fuori sette volte.

— Ebbene, il mio granatiere, non applaudisci, dunque, tu che dicevi or ora di amare la musica? Ciò non ti sembra bene forse? Ameresti tu solamente la musica delle casseruole?

Il colonnello non ascoltava queste nuove provocazioni del marchese. Era fuori di sè, sotto la potenza d’una emozione di cui non poteva rendersi conto, turbato, pallido, sentendo tutto il suo sangue affluirgli al cuore. Alla fine del primo atto, la sala intera applaudì freneticamente. Ondina fu chiamata fuori a non più finirla. Non si sapeva che ammirar meglio in lei, se la modestia, la bellezza, o la sua voce portentosa.

Al secondo atto la marea crebbe ancora. I bravo degli spettatori permettevano appena di [p. 190 modifica]plausi. udire la voce d’Ondina. Il colonnello, sprofondato e raccolto nella sua seggiola, stava sempre zitto. Non aveva più nè gesto nè parola. La vita gli si era concentrata negli occhi, nelle orecchie, nell’anima; rimuginava nelle sue memorie lontane, ricostruiva la sua vita, per ricordarsi dove avesse veduto quella giovane che tanto lo turbava. Non era più l’attrice dei Fiorentini, ch’egli contemplava nella sua visione interiore; egli si ricordava più in là e scendeva nel suo cuore.

— Decisamente, artigliere mio, disse il marchese, di più in più indispettito dal silenzio del colonnello, se tu ami la musica, l’è quella pi pi più dei pifferi che ti solletica.

Ondina aveva in quel punto finito di cantare il No, non è ver, mentirono. Il parossismo del pubblico era al colmo. L’emozione del colonnello si era cangiata in ispasimo. Il principe di Joinville abbandonava la loggia. Il colonnello si levò dalla sua sedia ed uscì.

Se fosse restato ancora, sarebbe forse svenuto. Camminò presto per paralizzare la sovrabbondanza dell’emozione collo sviluppo delle forze fisiche.

Al momento, in cui il colonnello aveva lasciato la sala, il marchese gli voltava le spalle conversando coi suoi amici. Ad un tratto s’accorse che il suo uomo era scomparso.

— Mille fulmini! gridò, quel cialtrone di sergente si sarebbe burlato di me, non onorando di risposta alcuna le mie arguzie, senza che io gli abbia snocciolato un sol buffetto sul naso? Vedremo se la sarà così. [p. 191 modifica]

E, dicendo queste parole, uscì per correre dietro al colonnello.

Il principe di Joinville, che scendeva dall’istessa scala, e carrozze ed i curiosi che si avvicinavano ritardarono l’inseguimento del marchese e gli fecero perder di vista l’uomo ch’ei cercava. Quando il seguito del principe fu disperso, il marchese, restato dinanzi alla porta del teatro, si dimandava da che parte fosse sfumato il suo eroe del cavallo Troiano. Interrogò la sentinella della porta.

— Caporale, avresti tu visto da che parte se l’è svignata un invalido dalla gamba di legno e con un braccio nei suoi stivali?

— Ho veduto passare qualche cosa ad un dipresso simile. S’è diretto verso il largo del Castello.

Il marchese trotta. Sbocca sulla piazza, ove danno sette od otto strade. Quale d’esse aveva presa il sergente? Egli ed i suoi amici percorrono coi loro sguardi la piazza. Finalmente uno d’essi sclama:

— Se non m’inganno, mi pare di vedere sotto i lampioni del palazzo delle Finanze qualche cosa che somiglia al tuo sergente.

Si lanciano tutti da quella parte. Ma, all’entrata della via dei Guantai l’imbarazzo, si rinnova. Un labirinto di straducole. Corrono, interrogano, si separano alla fine dandosi la posta in piazza dei Fiorentini; dieci minuti dopo s’incontrano.

— Sangue e polvere! grida il marchese! eccolo!

Il colonnello passava, infatti, sotto l’arco di [p. 192 modifica]una porta, che dava in un’immensa corte scoperta, che serve di passaggio fra due vicoli.

Era giunto alla metà del cortile, quando sentì l’estremità d’un bastone che lo toccava alla spalla e una voce che gli gridava:

— Diavolo di veterano! colla tua zampa di legno tu fuggi, dunque, come un cavallo inglese?

— Cosa volete, signore? disse il colonnello di voce ferma e calma, alzando la testa.

— Una semplice curiosità, generale, rispose il marchese. Vorrei sapere se i tuoi mustacchi sono tinti coll’istesso lustro dei tuoi stivali.

E in pari tempo allungava la mano per tirarglieli. Il colonnello indietreggiò d’un passo.

La corte è deserta. Due lampioni la rischiarano d’una luce affumicata.

Gli amici del marchese fanno cerchio. Alcune teste coperte da berrette da notte si mostrano alla finestra. Il cielo è splendido, sotto la fosforescenza di tutte quelle miriadi di stelle che lo fanno scintillare, come il broccato del vestito di una regina di fate, in un ballo spettacoloso.

— Signore, disse il colonnello con accento sempre freddo ma concentrato, vi chiedo ancora una volta che cosa volete da me? chi siete? chi vi manda? che significa codesta stupida provocazione? Sapevo che la polizia aveva delle spie. Ma non credevo che assoldasse altresì dei bravi in guanti gialli.

— Io sono il marchese di Diano, rispose costui di un tuono ringhioso. Non volevo che mostrare ai tuoi occhi il colore delle tue orecchie, ed insegnarti le convenienze che si serbano nei [p. 193 modifica]pubblici spettacoli. Ma poichè tu m’insulti, divengo più esigente.

— Signor marchese, badate a voi, replicò il colonnello frenandosi. Il disprezzo mi rende tollerante, ma il disprezzo anch’esso ha i suoi disgusti e le sue rivolte. Seguitate la vostra via.

Ed il colonnello volle continuare la sua.

— Ah! grida il marchese, riscaldandosi. Hai, dunque, paura per le tue orecchie e pel tuo braccio! Poichè hai mandato una gamba ed un braccio avanti per prepararti gli alloggi, andrai a raggiungerli, o il diavolo mi porti, se non mi arruolo come soldato del re tavernaio (Murat). Animo, voi altri, cacciatelo coi vostri stivali sotto il lampione ond’io lo rada senza cincischiarlo.

— Indietro, gridò il colonnello ai giovanotti che si precipitavano su di lui. Se avete mai udito parlare di quella cosa che si chiama onore, siate testimoni che sono forzato a difendermi.

Il marchese, in quel cerchio di luce cupa che circondava uno dei lampioni del cortile, aveva già sguainato una lunga spada che trasse dal suo bastone. Il colonnello lo seguì a passo calmo e lento e tirò fuori a stento una sciabola, che non aveva mai veduto la luce; poichè la gli veniva dai Borboni. Questa sciabola era di metà più corta della spada del marchese, senza tagliente, appena appena appuntata.

— Camillo! disse il marchese a uno dei suoi amici, sii il testimonio di questo caporale. Ti darò un certificato che vi sei stato costretto da [p. 194 modifica]me, e ti passerai poscia al cloruro di calce. Cosa vuoi? Mi batto bene con lui, io!

— Non ho bisogno di alcuno, rispose il colonnello. Se è un assassinio premeditato e pagato, un solo assassino basta. Se la è una stupida storditaggine, non voglio prendervi parte accettando un testimonio. Siete pronto?

Il linguaggio, il contegno, la condotta che il colonnello teneva da alcuni istanti, sorprendevano un poco il marchese ed i suoi amici. Essi comprendevano alla fine che questo sergente, di cui volevano trar partito per una di quelle facili gesta di cui i guappi son tanto ghiotti, poteva bene esser altra cosa che della semplice carne a baldoria e che quel monchino era forse un tutt’altro uomo che non sembrasse indicare il suo uniforme di semplice sergente. Ma era ormai troppo tardi per dare addietro. Il sergente s’era posto in guardia.

Regnava un silenzio terribile e pieno d’angoscia. La discussione a voce troppo alta del marchese aveva attirato alla finestra diverse persone ed alcuni lumi. Le armi brillavano d’un riflesso rosso, rischiarate dai lucignoli carbonizzati delle lampade ad olio. Tutti i visi erano pallidi d’emozione. Si era per versare del sangue senza sapere nè per chi nè perchè.

Alla semplice messa in guardia del colonnello, il marchese comprese che aveva a fare con un forte competitore, che si era mostrato umile e tollerante, precisamente perchè era conscio della sua forza. Il marchese aveva il vantaggio dell’arma, della luce, dell’età, dell’agilità, dell’uso delle sue membra e apprezzava molto questi [p. 195 modifica]vantaggi, perchè si sentiva alla presenza di un pericolo. Fece una mossa per provare il colonnello, una mossa da sala di scherma: e tremò. Aveva a che fare con un maestro.

Il colonnello, dal suo canto, vedeva che non aveva che una probabilità di salvezza nelle condizioni strane di questo duello; quella di disarmare o di ferire al braccio il suo nemico. Ma come? La sua arma era corta, i suoi movimenti lenti ed impacciati. Bisognava pertanto preoccuparsi della propria vita.... Era sicuro di coprirsi parando e restando sulla difensiva.

Ma l’occhio poteva tradirlo un momento con quella luce ingannevole del lampione, il braccio non aveva più quella elasticità continua che doveva spiegare per allontanare quella lama che serpeggiava senza rumore intorno al suo petto. Attendere il colpo era un raddoppiare il pericolo. Valeva meglio provocarlo, aspettandolo, e rimbeccare.

Il colonnello, avendo presa questa determinazione, in un lampo di riflessione, la mise subito in esecuzione. In un giuoco di doppia terza, tentato dal marchese, il colonnello lasciò scoperto a bella posta il proprio petto fino allora coperto.

Il marchese non era uomo da perder l’occasione. Si fendette e allungò un colpo dritto. Il colonnello l’aspettava. Parò, scartò la spada e passò da parte a parte il braccio del marchese.

La spada cadde dalle mani del ferito.

Il colonnello ringuainò senza aprir bocca e si allontanò a passi lenti.

Gli amici del marchese avevano altra cosa [p. 196 modifica]a fare, che interrogare il colonnello. Circondarono il loro amico, il loro padrone. La ferita sembrava grave, perchè l’arteria brachiale era stata tagliata. Avvolsero il braccio d’una pezzuola, presero il ferito che era svenuto nelle loro braccia e lo portarono all’ospedale dei Pellegrini là vicino.

Furono ricevuti da Bruto.

— È il marchese di Diano! sclamarono quei giovanotti, credendo fare impressione sul chirurgo e raddoppiare così la sua attenzione e le sue cure.

Bruto impallidì.

Egli aveva sotto la sua mano l’amante di Cecilia, colui che aveva rapito Lena e lo sapeva.

— È un ferito, pensò egli.

E si mise all’opera.