La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso/Parte terza/1. La scoperta della terra di Francesco Giuseppe

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Capitolo I

La scoperta della Terra di Francesco Giuseppe


L’arcipelago Francesco Giuseppe è noto solamente da ventisette anni. Prima del 1873 nessuno aveva mai supposto che in quella direzione s’estendessero vastissime isole, quantunque moltissimi balenieri si fossero spinti sovente fino a quei lontani paraggi per inseguire e catturare i giganti del mare.

Questo arcipelago si estende all’est dello Spitzbergen, fra il 79° 50’ e circa l’83° di lat. nord e fra il 42° e 65° di long. est, e si compone di parecchie grandi isole e di molte minori, ma per lo più mal definite, non essendo state tutte accuratamente visitate, in causa degli immensi banchi di ghiaccio che le circondano e degli enormi ice-bergs che vengono incessantemente vomitati da immensi ghiacciai.

Le più note sono la Terra Alessandro, quella di Zichy, di Wilczeck, poi più al nord vi sono le terre di Oscar, di Petermann, e quella di Gillis, tutte pochissimo conosciute, l’ultima specialmente la cui esistenza fu persino messa in dubbio.

Tutte queste terre, divise per lo più da canali male definiti, eccettuato quello Britannico, meglio studiato, sono circondate da un numero infinito d’isole e d’isolotti, alcune però di dimensioni ragguardevoli, come quella di Mac Clintock, di Hooker, di Rawlinson, di Northbrook, di Salisbury, del Principe Giorgio, ecc. [p. 212 modifica]

Per lo più queste terre polari sono montuose, con coste molto frastagliate e molto elevate, che formano dei fjords somiglianti a quelli della Norvegia e con ghiacciai immensi, di cui alcuni misurano la lunghezza di sessanta chilometri su una larghezza di venti. La cima più alta è il monte Richthofen, che si trova nella terra di Zichy, elevantesi, se i calcoli sono esatti, millecinquecento e ottanta metri.

Tutto questo ammasso di terre, nel suo sviluppo presentemente conosciuto, forma un sistema regionale artico della vastità dello Spitzbergen; però si ha ragione di credere che, meglio esplorato, risulterebbe ben maggiore, essendo poco note le terre che si trovano a settentrione.

Un vasto canale, l’Austria Sound, separa in tutta la sua lunghezza questo vasto arcipelago, cominciando dal capo Frankfurt, ma verso l’81° 40’ si biforca formando un altro braccio considerevole, il Rawlinson Sound, il quale si dirige verso il nord-est.

L’aspetto che presentano queste terre durante la stagione invernale, non potrebbe essere più desolante.

Un abbagliante lenzuolo di neve, che ha lo spessore di parecchi metri, copre per sei e talvolta per otto mesi tutte quelle isole, non permettendo di scorgere il più piccolo pezzo di terra o di roccia.

È una successione continua di montagne coperte di ghiaccio, di coni e picchi nevosi, di coste che sembrano scavate nel ghiaccio, stretto da giganteschi ice-bergs e da banchi che non hanno confine.

Nessun essere umano si trova lassù: gli esquimesi che hanno, a poco a poco, popolate tutte le terre polari, non sono ancora comparsi sulle isole dell’arcipelago Francesco Giuseppe, come non sono apparsi allo Spitzbergen.

Solamente gli orsi bianchi, le foche ed i trichechi popolano quelle terre, assieme agli uccelli marini, oche bernide, urie, strolaghe, gabbiani, gazze marine, procellarie, ecc.

Per quasi cinque mesi, una notte eterna, rotta solamente, di quando in quando, dagli splendori delle aurore boreali, si estende sull’arcipelago. Durante quell’oscurità la vita floreale si spegne. Muoiono i muschi, muoiono i piccoli papaveri, le meschine sassifraghe, i minuscoli salici.

Non si vedono che nevi e ghiacci, crepitanti, detonanti, orribili [p. 213 modifica]bufere che soffiano dal nord spazzando tutte le isole, pesanti nebbioni che salgono dal mare e che tutto avvolgono.

Quando però il sole, dopo centotrentacinque o centoquaranta giorni di tenebra continua, comincia ad apparire, innalzandosi sempre sull’orizzonte fino a che non tramonta quasi più, anche su quelle terre desolate la vita si risveglia. Le pianticelle cominciano a spuntare attraverso la crosta gelata, dapprima timidamente, poi più vigorosamente; le rupi, denudate del loro involucro invernale, si coprono di muschi, i papaverini dai petali d’oro riappariscono, gli uccelli marini che sono fuggiti verso il sud durante i freddi intensi, ritornano a stormi immensi, le foche e le morse ripopolano le rive, scaldandosi ai tepidi raggi dell’astro diurno.

Ahimè! Quell’orgia di luce è ben breve! Quella vita ha una durata ben meschina.

Agli ultimi d’agosto le prime nevi ricominciano a cadere, i ghiacciai rovesciano in mare, con orribili rimbombi, i loro ice-bergs, i campi di ghiaccio ricompariscono e l’inverno torna a piombare.

Guai alle navi che tardano ad abbandonare quei paraggi! Chissà se torneranno, l’anno seguente, in patria.

La scoperta di queste isole la si deve alla spedizione austriaca del Tegetthoff, comandata da Payer, tenente della marina austro-ungarica, e composta quasi esclusivamente d’italiani del Tirolo e della costa Dalmata.

Il Tegetthoff era salpato da Bremerhafen, alla foce del Weser, il 13 giugno 1872 coll’intenzione di esplorare i mari situati all’est dello Spitzbergen e di tentare la scoperta del passaggio del nord-est, spingendosi possibilmente fino allo stretto di Behering.

Al nord della Nuova Zembla, la nave veniva invece imprigionata da un immenso wake1 e trascinata lentamente prima verso il nord-est, e dopo lunghi e capricciosi giri verso il nord-nord-ovest.

L’inverno polare sorprende gli esploratori in pieno oceano Artico, senza che si siano potuti liberare dalla loro prigione di ghiaccio, malgrado gli sforzi reiterati dell’equipaggio, di Payer e di Weyprecht, che ne erano i comandanti. [p. 214 modifica]

L’inverno fu terribile. La nave, stretta fra le tremende pressioni dei ghiacci, corre parecchie volte il pericolo di venire fracassata assieme a coloro che la montano, pure resiste vittoriosamente.

La primavera del 1873 non apporta nessun felice cambiamento. Il Tegetthoff, sempre rinserrato nel wake, viene trasportato alla deriva verso il nord-nord-ovest, descrivendo una specie di semi-cerchio interrotto da immensi angoli.

L’estate s’avanzava ed i due comandanti, con vera angoscia si credevano destinati a tornarsene in patria senza nave e senza aver eseguito nessuna parte del loro programma, quando nel pomeriggio del 30 agosto, a 79° 43’ di lat. ed a 59° 33’ di long. i due comandanti scorgono, verso il nord, attraverso le nuvole indorate dal sole, alcuni picchi.

Payer e Weyprecht dapprima rimangono come sorpresi, come affascinati, non volendo credere ai loro occhi. Credevano d’aver dinanzi degli ice-bergs, poi vedono delinearsi invece un superbo rilievo alpestre.

Non vi è più dubbio: una terra si alza ai confini dell’orizzonte. Un grido sfugge dai loro petti.

– Terra!... Terra!... La terra è là!... –

Quel grido fu tale, che in un attimo non vi fu un solo ammalato a bordo, – scrive Payer. – In un attimo la prodigiosa notizia si propaga in tutti gli angoli della nave e tutti si precipitano sul ponte per assicurarsi coi propri occhi della verità della cosa.

Era proprio vero.

La deriva ed il banco di ghiaccio avevano fatto ciò che non avevano potuto ottenere il coraggio e la perseveranza di quegli audaci esploratori.

Non rimaneva più che riconoscere l’estensione e la natura di quel paese magicamente uscito dal caos polare.

Gli esploratori erano però nell’impossibilità, almeno pel momento, di poter porre i piedi su quella terra che si delineava ormai distintamente all’orizzonte.

La nave non poteva accostarsi, essendo sempre rinserrata nel suo banco di ghiaccio. La deriva era forte e se alcuni dell’equipaggio avessero osato inoltrarsi attraverso i banchi, sarebbero probabilmente stati separati dalla nave. [p. 215 modifica]

Tuttavia nel primo impeto di entusiasmo, quegli uomini si slanciano sui banchi di ghiaccio, come se avessero potuto raggiungere così facilmente quella terra che sempre più emergeva.

Giunti all’estremità del wake s’accorgono che sono ancora a quindici miglia da quella costa.

Non potendo andare più innanzi scalano una montagna di ghiaccio per cercare di distinguere meglio la configurazione di quel misterioso paese, di cui i navigatori non avevano mai sospettata l’esistenza.

Fu dall’alto di quell’ice-berg che gli austro-ungarici battezzarono quelle terre col nome di Francesco Giuseppe in onore del loro sovrano.

Dal Capo Tegetthoff, così chiamata la prima altezza scoperta, fino ai contorni indecisi che si prolungavano verso il nord-ovest, la fronte rilevata abbracciava non meno d’un grado di latitudine; ma poichè le parti più meridionali si trovavano molto lontane dalla nave, i membri della spedizione mancavano di elementi per determinare, anche approssimativamente, la configurazione topografica della terra scoperta.

Intanto la deriva spingeva lentamente la nave fra quelle grandi isole che continuavano a delinearsi in varie direzioni.

Il 31 ottobre il Tegetthoff si trovava a tre sole miglia da un promontorio assai basso.

Era il momento atteso dagli esploratori per visitare quelle terre che da tanto tempo apparivano ai loro occhi senza poter porvi sopra i piedi.

Payer, seguìto da alcuni compagni, scala gli hummoks che circondano la nave e si slancia, attraverso i banchi di ghiaccio, giungendo felicemente su quella costa tanto sospirata.

«Il suolo su cui posammo il piede, – narra il fortunato esploratore, – era composto di un miscuglio di neve, di roccia e di ghiaia d’ogni specie, insieme congelati, ed era il più orribile del mondo; ma per noi fu come un ridente vestibolo del paradiso.

Meravigliati della nostra conquista, spingevamo lo sguardo curioso in ogni crepaccio di rupe, toccavamo amorosamente ogni masso e senza lesinare, adulavamo ogni fenditura riempita di ghiaccio chiamandola un ghiacciaio. [p. 216 modifica]

La costituzione geologica del paese era identica a quella delle isole del Pendolo, che si trovano sulle coste occidentali della Groenlandia; qui come laggiù, la roccia era una dolerite.

Quanto alla vegetazione, in quel luogo era d’una povertà incredibile, consistendo solo in alcuni umili licheni.

Non renne, non volpi; tutta l’isola, giacchè questa prima terra da noi esplorata era un’isoletta, pareva assolutamente priva di esseri viventi.

Ascesa un’alta scogliera, abbracciammo con lo sguardo, al sud, il panorama rigido del mare fino a parecchie leghe al di là della nave.

Quale grandioso spettacolo di desolazione!... E quanta attrattiva esercitava su noi quella specie d’escrescenza rocciosa dove eravamo approdati!... Nessun paesaggio soleggiato di Ceylan avrebbe prodotto su di noi un’impressione così poetica.

I nostri cani sembravano dello stesso parere giacchè galoppavano pieni di lena e saltellavano, abbaiando allegramente, di balzo in balzo, di promontorio in promontorio.

Chiamammo quella terra Isola di Wilczek

Fu solamente nella primavera del 1874, dopo d’aver passato l’inverno in quei paraggi, che gli audaci esploratori poterono riprendere le loro escursioni, usando slitte tirate da cani.

Uccisero parecchi orsi bianchi e molte foche, esplorarono il Capo Tegetthoff, e si spinsero al nord per parecchie miglia.

Durante quelle corse perderono però un loro compagno, il povero macchinista Kriseh, ucciso dallo scorbuto, l’unica vittima di quella fortunata campagna.

Il movimento dei ghiacci, i quali non cessavano di derivare, li obbligò finalmente a far ritorno alla loro nave.

Il 20 maggio gli esploratori abbandonavano il Tegetthoff, che non avevano potuto liberare dai ghiacci e cominciavano il ritorno.

Furono fortunati poichè alcune settimane più tardi venivano raccolti da una nave russa che pescava sulle spiagge della Nuova Zembla e condotti sani e salvi a Vardö, dove giungevano il 3 settembre.

Gli arditi viaggiatori avevano esplorato dapprima le isole Hochstetter e Wilczek, poi, nel marzo dell’anno seguente, l’isola Hall, [p. 217 modifica]Caccia alle foche. [p. 219 modifica]quindi l’isola Hohenloe, poi la Terra d’Austria della isola Rodolfo, spingendosi fino al Capo Fligety a 12° di lat. e creduto d’intravedere più al nord delle montagne chiamandole Terra di Petermann e quindi altre ancora chiamate Terre del Re Oscar.

Come si vedrà in seguito queste due terre non esistevano affatto e doveva spettare alla spedizione italiana accertare la loro inesistenza.

Dopo Payer il signor De Bruyne, col Wilhelm Barentz intraprendeva l’esplorazione di quel vasto arcipelago, toccando l’isola Northbrook il 7 settembre del 1879, isola sulla quale si trova il Capo Flora, prima mèta della Stella Polare.

Quindi lo segue il signor Leight Smith, a bordo dell’Eira, che in questo viaggio delinea meglio la Terra Alessandro e fa numerose raccolte zoologiche, botaniche e geologiche di molto interesse.

Nel 1894 il signor Jackson sbarca al Capo Flora, dove costruisce due capanne provvedendole di viveri, di armi, di coperte, di carbone, e vi sverna, ma l’anno dopo è costretto a far ritorno in Norvegia.

Nel 1896 a bordo del Windword ritorna alla Terra di Francesco Giuseppe dietro preghiera del signor Harmsworth, per andare in cerca della spedizione di Nansen.

Studia ed esplora tutto il bacino orientale completando le ricerche di Payer e di Leight Smith ed è così fortunato da raccogliere Nansen ed il suo compagno Johansen.

Ma molto ancora rimaneva da scoprire, e doveva toccare all’illustre norvegese.

Questo ardito esploratore passò un inverno intero in quelle regioni, dopo il suo abbandono del Fram, in compagnia del suo fedele Johansen, il quale divise con lui le fatiche, i patimenti ed i pericoli.

Questi ultimi furono i veri Robinson della Terra di Francesco Giuseppe, sulla quale rimasero dal 26 agosto del 1895 al 19 maggio del 1896, ossia fino al loro incontro con la spedizione comandata da Jackson.



Note

  1. Banco di ghiaccio racchiudente nel mezzo un bacino.