La vendetta d'uno schiavo/Capitolo VIII

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Capitolo VIII

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Capitolo VIII

L’assalto delle tigri

Dopo un’ora di marcia attraverso quella folta foresta, i cavalieri trovarono un largo sentiero che pareva tracciato dalla mano degli uomini e che permetteva ai cavalli di galoppare più rapidamente.

– Questa via fu tracciata, molti anni or sono, dal sultano di Mattarem e conduce, per molte leghe, attraverso a monti e foreste – disse il malese a Giovanni che lo aveva interrogato. – Se non m’inganno, deve passare presso il forte Karta-Djio, un tempo famoso, ma ora in rovina, e per la tanto temuta valle delle tigri.

– E saremo costretti a passare anche noi per quella valle? – domandò Giovanni.

– Sì, padrone.

– Perché venne chiamata valle delle tigri?

– Perché è infestata da quelle fiere.

– Noi le affronteremo, se verranno ad assalirci – disse Giovanni. – Avanti, malese mio.

Kabaut si era già lanciato al galoppo sul sentiero. I soldati lo avevano seguito, tenendo le mani sui fucili e gli occhi ben aperti, temendo sempre qualche imboscata.

Al mattino essi giunsero sul margine opposto della foresta, là dove cominciava invece una grande catena di montagne aridissime, rocciose, prive di qualsiasi vegetazione.

Giovanni non volendo stremare i cavalli, ordinò di fare una sosta e di preparare da mangiare.

– Non abbiamo viveri – dissero in coro i cavalleggieri.

– Battiamo i dintorni – disse Giovanni.

– È inutile, andiamo innanzi e troveremo dei daini rossi sulla montagna.

– Allora ci fermeremo più innanzi – disse il Cacciatore Nero, risalendo a cavallo.

I soldati lo imitarono e cominciarono la salita di quelle aspre montagne. In breve il sentiero divenne così ripido, che gli olandesi dovettero scendere dai loro cavalli, per aiutarli e sostenerli.

Quella via, scavata nella viva roccia, fra enormi macigni, serpeggiava ora attraverso a chine difficilissime ed ora lambiva dei profondi burroni che facevano venire le vertigini.

A mezzogiorno dopo infinite fatiche, e con una gran fame, i cavalleggieri giunsero sulla cima della prima montagna.

– Dove diavolo sono nascosti questi vostri daini rossi? – chiesero alcuni olandesi a Kabaut.

– Eccoli! Uno! Due! È un branco! – gridò in quel mentre un soldato.

D’un balzo il piccolo drappello fu in piedi, coi fucili in mano e vide nascosto dietro alcune roccie un branco di antilopi rosse, di quelle che abitano le dirupate montagne di Giava e di Sumatra.

– Avanti e silenzio, – disse Giovanni.

I quindici uomini guidati da Kabaut si misero in moto, cercando di formare un vasto circolo per prendere in mezzo le antilopi.

Giovanni, che si era arrampicato su di una roccia abbastanza alta per dominare tutte le creste, vide le antilopi drizzare gli orecchi, fiutare l’aria, quindi mettersi in moto.

I cacciatori con un’abile mossa, nascondendosi dietro le roccie, pervennero a guadagnar via sui graziosi animali, e giunti a tiro, fecero fuoco. Quei quindici colpi rumoreggiarono lungamente sui due versanti della montagna, seguiti dagli urràh dei cacciatori.

Quattro antilopi erano cadute sotto il piombo; le altre sei, guidate da un grosso maschio, erano fuggite rapidamente verso l’est, scomparendo fra le rupi.

D’altronde i cacciatori non avevano tentato d’inseguirle, avendo un cibo bastante per quattro giorni almeno.

Poco dopo i quindici soldati e Giovanni si sedevano attorno a dei fumanti pezzi di selvaggina, facendo una vera scorpacciata di costolette. Dopo un paio d’ore di riposo, i cavalleggieri, scuoiate le altre tre antilopi, riprendevano la marcia, seguendo Giovanni che camminava in testa.

Durante il pomeriggio, essi cavalcarono sulla cresta della montagna e verso sera cominciarono a scendere. Sotto di loro, ai piedi della montagna si estendeva un’immensa prateria fiancheggiata qua e là di boschi, e più oltre verso occidente, si scorgeva una grandiosa fortezza, in parte diroccata e di costruzione giavanese. Kabaut l’indicò ai cavalleggieri, dicendo:

– È il forte di Karta-Djio.

– Questa notte la passeremo là dentro – disse Giovanni.

I cavalleggieri, con gran precauzione, rattenendo i loro cavalli, si misero a seguirlo nel più profondo silenzio. Tre ore dopo, mentre che la luna cominciava a sorgere, essi calavano nel piano e facevano la loro entrata nel forte.

Gli olandesi stanchi per la faticosa marcia accesero subito i fuochi entro la cinta; Giovanni solo, senza torcia perché la luna era abbastanza chiara, entrò nel forte. Le muraglie erano diroccate o minaccianti rovina; i piani erano già crollati ed i corridoi e le torri pure. Quella superba rocca che aveva avuto tanta parte gloriosa, per la ostinata difesa dei ribelli giavanesi, contro il feroce sultano di Mattarem, non era più che una immensa rovina.

Giovanni trovò fra le macerie delle freccie colla punta di ferro, degli archi spezzati, dei kriss arrugginiti e numerosi giavellotti.

Terminata la visita, andò ad assidersi alla cena dei cavalleggieri, imbandita su una lastra di pietra.

Dopo alcune chiacchiere ognuno si stese sulla sua coperta e si addormentò sotto la guardia del cinese Lu-Ciang e del malese. Il giorno seguente partivano inoltrandosi in mezzo ad una vasta prateria.

Le erbe che vi crescevano erano alte quasi due metri, e potevano nascondere benissimo un’imboscata, e perciò Giovanni ordinò ai soldati di tenere i fucili pronti.

Il caldo diventava sempre più insopportabile, non essendovi un palmo d’ombra in nessun luogo.

I cavalleggieri cominciavano a soffrire anche la sete, imperocché, cosa strana, in quella vasta prateria così rigogliosa, non si vedeva nessun rivo d’acqua. Giovanni si volse verso Kabaut che gli era vicino e gli domandò:

– Ove troveremo una sorgente?

– A trenta miglia da qui, nel campo ruggente – rispose Kabaut.

– Vi sieno pur colà tutte le tigri del mondo, vi andremo – rispose Giovanni.

Era quasi sera quando, dopo aver superati alcuni boschetti, entrarono in una seconda prateria non meno estesa e coll’erba non meno alta.

Kabaut si volse verso Giovanni dicendogli:

– Ecco il campo delle tigri!

Poco dopo videro una specie di grotta, e presso a questa un recinto di tronchi d’albero. Kabaut messosi alla testa, lanciò il suo cavallo verso la grotta e giuntovi, balzò leggermente a terra, esclamando:

– Ecco la sorgente!

I cavalleggieri legarono gli animali a dei grossi sassi che circondavano la grotta ed entrarono. Era una spaziosa caverna aperta in una gigantesca roccia di forma piramidale e dirupata. L’interno aveva una superficie di almeno cento metri quadrati e nel centro vi era una vasca naturale, larga otto metri e lunga sei, la quale conteneva un’acqua limpida e fresca. I cavalleggieri bevettero avidamente, riempirono i loro fiaschi, poi si prepararono ad accendere i fuochi.

– Fate presto, perché fra poco saranno qui le tigri, – disse Kabaut.

– Le tue tigri le fugheremo, – risposero i soldati.

– A chi serviva quel recinto? – domandò Giovanni a Kabaut.

– È stato costruito per ordine del sultano di Mattarem, il quale, accompagnato da altri cinquecento cacciatori, veniva qui a cacciare le tigri.

– Se una volta serviva al sultano di Mattarem, questa notte servirà a noi, – rispose Giovanni.

In mezz’ora la cena fu fatta, poi i soldati, presi i cavalli, entrarono nel recinto. Era vastissimo, formato da grossi pali con due aperture, l’una che guardava verso il campo delle tigri, l’altra verso la sorgente.

I soldati legarono i loro cavalli ai pali, che erano alti due metri, poi caricati i fucili con cura, si addormentarono sotto la guardia di Kabaut. Dormivano già da due ore, quando furono svegliati da alcuni ruggiti formidabili e da Kabaut il quale urlava:

– Badate! Le tigri!

In un baleno i cavalleggieri furono in piedi, coi fucili pronti, e andarono a mettersi alle due porte del recinto.

In mezzo alla vasta prateria, videro diversi occhi scintillanti, che si avanzavano lentamente verso il recinto.

– Diavolo, sono almeno quaranta – disse Giovanni armando il fucile e disponendosi a far fuoco.

– Aspettate! Non irritiamole inutilmente – disse Kabaut fermandogli il braccio.

– Credo che ci assaliranno egualmente.

Le tigri si avanzavano dirigendosi verso la sorgente. Dissetatesi, parve volessero dirigersi verso la palizzata. In quel momento i cavalli si misero a nitrire per lo spavento, ed a spiccare salti per romper i legami. Quasi subito si udì un formidabile concerto di sordi ruggiti, poi le tigri facendo balzi enormi si diressero verso la palizzata. Giovanni puntò il fucile e pel primo fece fuoco. Al bagliore del lampo, gli olandesi poterono vedere una vera frotta di belve.

– Fuoco! – gridò Giovanni.

Quindici fucilate tennero dietro a quel comando, ma le tigri, invece di arrestarsi, precipitarono la corsa, e due di esse, balzando al disopra della palizzata, piombarono nel mezzo del recinto.

Si udirono due urla di dolore, e due olandesi caddero.

Dieci colpi di pistola scoppiarono ad un tempo, uccidendo le due fiere; i due soldati però erano già morti.

Quasi nel medesimo istante le tigri giungevano presso la palizzata. Ricevute da una nuova scarica, indietreggiarono a grandi balzi, disperdendosi per la prateria.

Kabaut approfittò per gridare:

– Padrone! Cacciator Nero! Fuggiamo o siamo perduti.

Giovanni lanciò uno sguardo sulla prateria, e vedendo che le belve cominciavano a muovere nuovamente all’assalto gridò:

– Partiamo! – E così dicendo si slanciò sul suo cavallo, che s’impennava minacciando di rompere i legami.

Gli olandesi si affrettarono a obbedirlo e cacciati gli sproni nel ventre dei destrieri, uscirono confusamente dalla porta opposta, slanciandosi nella prateria.

Le tigri, vistili fuggire, si erano gettate sulle loro orme.