La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XI

Da Wikisource.
Capitolo XI

../Capitolo X ../Capitolo XII IncludiIntestazione 19 febbraio 2024 75% Da definire

Capitolo X Capitolo XII

Capitolo XI

L’accampamento giavanese

Due ore dopo la cattura degli olandesi, una colonna composta di ottocento giavanesi si metteva in marcia verso il nord, seguendo la riva destra del fiume. Giovanni ed i sei olandesi superstiti li seguivano, legati strettamente alla coda di altrettanti cavalli.

I loro nemici non risparmiarono né minaccie né maltrattamenti.

Di tratto in tratto, alcuni insorti si avvicinavano a loro, e li spingevano colle aste delle loro lunghe lancie, gridando:

– Avanti, maledetti bianchi!

Né gli olandesi né Giovanni, osavano ribellarsi per paura di peggio, sapendo che al minimo tentativo di ribellione, non sarebbero stati risparmiati. Tutta la giornata i giavanesi camminarono rimontando la corrente, passando in mezzo a pantani ed a paludi. Alla sera il capo che li guidava, diede il segnale della fermata. I prigionieri furono staccati dai cavalli, riuniti tutti, legati e collocati al centro del campo, sotto la sorveglianza di dodici uomini.

Mentre i giavanesi accendevano i fuochi, e preparavano la cena, un olandese si avvicinò a Giovanni, dicendogli con tono di scherno:

– Ah! Credevi di ricevere il premio del tuo tradimento è vero, Cacciator Nero? Come vedi però, ti sei ingannato.

Giovanni gli lanciò uno sguardo sprezzante e non rispose.

– Olà, non si sprezzano i compagni d’armi – disse l’olandese, con un riso sforzato.

– Vattene! – gli disse Giovanni, con un gesto imperioso.

– Cane d’un traditore! – mormorarono gli altri olandesi, minacciosi.

Giovanni si volse verso una sentinella e in lingua giavanese gli disse:

– Comanda loro di tacere e di lasciarmi tranquillo.

Il giavanese, udendo Giovanni parlare la sua lingua, lo guardò con stupore, poi si avvicinò agli olandesi e, respingendoli coll’asta della lancia, disse:

– Silenzio voi, o vi faccio bastonare.

Poi si sedette presso al fuoco, e guardando sempre Giovanni, gli domandò:

– Tu non sei olandese?

– No – rispose Giovanni.

– E perché sei con loro?

– Perché sono un bianco.

– Dimmi chi ti ha dato quel pugnale giavanese che avevi alla cintura.

– Uno dei tuoi capi.

– Come ti chiami?

– Il Cacciator Nero.

– Ah! – fe’ il giavanese. – Questo nome io l’ho udito ancora al campo di Diepo-Nigoro.

– È probabile – rispose Giovanni.

Il giavanese trasse un pugno di betel, se lo mise in bocca, indi si mise a masticarlo, guardando altrove.

Giovanni si volse verso di lui e dopo qualche esitazione gli chiese:

– Conosci un malese che si chiama Hamat-Peng?

– Quello che ha con sé un fanciullo bianco? – chiese il giavanese.

– Sì, dimmi dove si trova.

– Non so, lasciami dormire, – disse il giavanese sdraiandosi accanto al fuoco.

Giovanni tentò ancora d’interrogarlo. Fu tempo sprecato, poiché la sentinella non si degnò più di rispondergli.

Al mattino i giavanesi riprendevano la marcia fra le paludi. Verso il mezzogiorno raggiungevano una cinquantina di giavanesi accampati sulla riva del fiume. Poco distante da loro una diecina di lunghe piroghe, scavate nei tronchi d’alberi, erano legate alla riva.

I prigionieri furono staccati dai cavalli, ed imbarcati su due piroghe assieme a venti guerrieri. Altri centocinquanta insorti prendevano posto nelle altre. Quelli rimasti sulla riva ritirarono le gomene e le dieci piroghe sotto la spinta di dodici remi ciascuna, salirono rapidamente la corrente del fiume. Quelle imbarcazioni erano strette assai, leggiere, e lunghe trenta piedi.

Giovanni assieme a tre olandesi, colle mani ed i piedi legati, si trovava seduto nel mezzo della piroga, attorniato da sei guerrieri; gli altri quattro olandesi si trovavano in un’altra imbarcazione.

Essendo ansioso di sapere dove lo conducevano, il piantatore, dopo qualche tempo, si volse al giavanese che guidava la piroga, il quale portava due penne bianche, distintivo di sotto capo, chiedendogli:

– Ove ci conducete, capo?

– Al campo di Diepo-Nigoro, – disse il giavanese.

Gli occhi di Giovanni mandarono un lampo di gioia selvaggia.

Il giavanese sorprese quel lampo, e mettendo una mano sulla spalla del prigioniero, gli chiese:

– Speri di trovare grazia al campo di Diepo?

– Io non spero nulla, – rispose Giovanni.

– A te e ai tuoi uomini spetta la morte.

– Non la temo, – disse Giovanni.

– Lo vedremo, – mormorò il giavanese.

Intanto le piroghe si avanzavano sempre, fendendo rumorosamente la corrente del fiume. Le due rive divenivano più strette, e più alte. Enormi roccie sorgevano qua e là, ove numerosi uccelli stavano riposando tranquillamente. Erano per lo più kakatoes bianchi, dei bei pappagalli verdi, e delle rondini di salangana i cui nidi sono tanto pregiati dai ricchi ghiottoni cinesi. I guerrieri delle piroghe, sapendo che i prigionieri non potevano fuggire, discorrevano fra loro, guardando le rive, o la corrente e masticando il betel.

Giovanni si era sdraiato sul fondo della piroga, cercando di addormentarsi. Già stava per assopirsi, quando udì gli olandesi che discorrevano a voce bassa. Tese gli orecchi e s’accorse che parlavano in inglese, linguaggio incomprensibile agli indigeni.

Uno dei prigionieri aveva detto ad un compagno:

– Carlowe, se io rompo i legami che mi stringono le gambe e balzo in acqua, mi seguirai tu?

– Sì, – rispose l’olandese così interpellato.

– Anche noi, – dissero gli altri.

– Allora rodetemi con precauzione le funi; poi renderò a voi il medesimo servizio.

Giovanni finse di non aver udito nulla; girando però gli sguardi vide che essi, approfittando della negligenza dei loro guardiani e volgendo le spalle ai remiganti, si rodevano le funi scambievolmente.

– Sono pazzi, – mormorò tra sé Giovanni. – È impossibile tentare la fuga con tanti giavanesi.

Dopo mezz’ora di lavoro, durante la quale parecchie volte dovettero interromperlo, gli olandesi riuscirono a liberare le gambe ad un compagno.

– E uno, – mormorarono essi.

– Ora a me, – disse uno di loro, ripiegandosi su se stesso per impedire che i guardiani lo vedessero.

Già gli altri stavano per rodergli i legami, quando un giavanese nel volgersi li vide. Capì subito ciò che meditavano, e si alzò gridando:

– I prigionieri fuggono!

I suoi compagni si volsero rapidamente impugnando le lancie e i fucili, non così presto però da impedir all’olandese che aveva le gambe libere, di levarsi in piedi, e di lanciarsi a capofitto nel fiume.

– Ammazzatelo! – gridò il capo.

Tutti gli uomini delle piroghe si erano alzati colle armi pronte, aspettando che venisse a galla.

Mentre ciò succedeva, gli altri tre olandesi erano stati atterrati e legati con nuove corde e così pure Giovanni.

Dopo alcuni istanti la testa dell’olandese apparve a fior d’acqua, a venti passi dalle piroghe. Sette od otto fucilate scoppiarono, ma il nuotatore si tuffò rapidamente, dopo di aver respirato.

– Ah! bisognerà bene che torni a galla! – urlò il capo dalle due penne bianche, afferrando un lungo fucile.

– Eccolo! – gridarono in quel mentre i giavanesi, puntando i fucili.

Infatti pochi secondi dopo, l’olandese tornava a galla; vide i fucili e tentò di rituffarsi. Era troppo tardi. Venti colpi partirono ad un tempo ed il disgraziato sparve in un cerchio di sangue.

– Così morranno quelli che tenteranno di fuggire, – disse il capo giavanese, ricaricando il fucile.

Né gli olandesi, né Giovanni risposero.

– Maledetti bianchi, – riprese il capo. – Voglio dire a Diepo che vi faccia impalare!

Poco dopo quel triste episodio, le piroghe giungevano dinanzi ad un villaggio giavanese, costruito sulle rive del fiume, e chiamato dagli indigeni Mung-Mung.

Una trentina di uomini armati di lancie e di kriss, vennero sulla riva e salirono sulla piroga del capo.

– Che nuova mi recate? – domandò questi.

– Notizie di Diepo, – rispose uno di quegli indigeni.

– Forse che Diepo è stato battuto? – chiese il capo, con ansietà.

– No, ha cambiato accampamento.

– Dove si trova?

– Sulle colline di Kondj-Kondj.

– Va bene, – mormorò il capo. – Andremo a trovarlo colà, – e congedati quegl’indigeni, ordinò di riprendere la corsa.

Le pagaie dei remiganti si tuffarono, e le dieci piroghe volarono sulle acque spumeggianti del fiume. Di tratto in tratto i remiganti intonavano qualche canzone giavanese, inneggiante qualche episodio delle vittorie del celebre Pandji, l’eroe di Giava. I guerrieri allora vi facevano eco, e le loro voci risuonavano poderosamente sulle deserte rive del fiume.

Verso sera, sulla riva sinistra apparvero le rovine di un villaggio, che una volta dovea esser stato grande. Il capo lo indicò a Giovanni che lo guardava, dicendogli:

– Ecco le prodezze dei vostri!

Giovanni si strinse nelle spalle e non rispose.

Poco dopo il capo diresse la sua piroga verso terra, la fece ormeggiare saldamente, e fece sbarcare i prigionieri. Le altre nove piroghe fecero altrettanto, ed i giavanesi s’affrettarono a costruire alcuni ricoveri con rami e foglie.

I sei prigionieri, come la sera precedente, furono legati assieme, e posti al centro dell’accampamento, sotto la vigilanza di otto guerrieri.

Al mattino la navigazione venne ripresa.

Si dovette però aumentare il numero dei remiganti poiché il fiume, divenendo più stretto, era più impetuoso. Per altre quattro ore le piroghe continuarono a salire verso la sorgente, poi alle dieci del mattino i giavanesi riprendevano terra. Questa volta le piroghe furono abbandonate a trenta giavanesi, e i prigionieri dovettero seguire la colonna entro fitte foreste. La marcia fu rapida e assai faticosa. I prigionieri, stremati di forze, si lasciavano trascinare fra le imprecazioni dei loro guardiani. Però due ore dopo essi giungevano in una vasta spianata sassosa, che terminava ai piedi d’una serie di colline granitiche, accavallate le une sulle altre. Giovanni sulle cime di esse scorse un numero infinito di tende, a svariati colori, e di tutte le grandezze.

Il capo giavanese si avvicinò a lui e tendendo la mano in direzione delle tende, gli disse:

– Vedi quell’accampamento?

– Sì, – rispose il piantatore.

– È l’accampamento di Diepo-Nigoro!