La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XIII

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Capitolo XIII

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Capitolo XIII

Il capo Kedir-Peng

Condotti via gli olandesi, Nigoro si lasciò cadere su di una seggiola, e parve cadesse in profondi pensieri.

Giovanni muto e immobile lo guardava fissamente; egli si sentiva, suo malgrado, attratto vivamente verso quell’uomo energico e valoroso, che da un anno teneva coraggiosamente testa agli agguerriti soldati dell’Olanda.

Dopo di essere rimasto silenzioso alcuni minuti, Giovanni s’appressò a Nigoro, e visto che pareva lo avesse dimenticato, gli disse:

– E di me, capo, che cosa farete?

A quella voce Nigoro si rizzò in piedi, e passandosi la mano sulla fronte, mormorò:

– Ah, mi dimenticavo di voi!

– Decidete anche la mia sorte, – disse il piantatore.

– Voi siete un capo olandese, è vero?

– Un capo sì, ma non olandese.

Nigoro lo guardò con stupore.

– Io, appartengo ad un’altra nazione d’Europa.

– E vi siete unito agli olandesi per venire a combatterci? A voi spetterebbe doppia morte.

– Morrò, e senza tremare, signore, però voglio prima domandarvi un piacere.

Nigoro, che si era messo a camminare per la tenda, si fermò, e avvicinandoglisi chiese:

– Cosa desiderate voi?

– Vorrei sapere se al campo si trova un malese chiamato Hamat-Peng, che tiene con sé un fanciullo bianco.

– Sì, – rispose Nigoro.

– Vorrei vedere, prima di morire, quel fanciullo.

– Lo conoscete forse? – domandò Nigoro.

– Se lo conosco? È mio figlio, signore, e l’infame Hamat che incendiò la mia piantagione, è il rapitore, – disse Giovanni con voce sorda.

– Quel fanciullo è vostro figlio!

– Sì, capo, e fu per cercare di strapparlo al malese, che mi unii agli olandesi; fu per lui che combattei contro di voi, e contro i vostri uomini che mai ho odiato.

Nigoro l’ascoltò in silenzio, poi si mise a passeggiare per la stanza, con passo agitato, mentre la sua fronte si corrugava.

Ad un tratto si fermò presso Giovanni, dicendogli:

– Tornate ora presso i prigionieri; domani riparleremo di ciò.

Giovanni non rispose, e seguì in silenzio il giavanese che stava sulla soglia della tenda ad aspettarlo. Appena fu fuori, la folla dei guerrieri lo circondò apostrofandolo e minacciandolo, ma Nigoro comparve sul limitare della tenda, e con voce tuonante, disse:

– Silenzio: lasciatelo tranquillo!

Tutti i guerrieri tacquero come per incanto e si diradarono.

Una sola parola del gran capo era bastata per dominare quei trentamila guerrieri.

Giovanni fu condotto in una vasta tenda, ove lo fecero sedere legandogli le gambe, indi dieci sentinelle si stesero all’intorno, dopo di aver accesi dei grandi fuochi.

Poco dopo gli fu portato da mangiare della carne di daino arrostita, alcuni banani, ed una piccola porzione di betel, per ingannare il tempo. Giovanni toccò le vivande, ma lasciò il betel, sapendo che è nocivo alla salute, e che annerisce i denti.

Terminato il pasto, si gettò su d’una coperta, mentre le tenebre scendevano lentamente sul campo. Alle due dopo la mezzanotte, Giovanni, che s’era assopito, si destò e guardò i guerrieri.

Otto di loro dormivano, altri due erano sdraiati presso una catasta di legna infiammata, ed un terzo vegliava a due passi dalla tenda. Quest’ultimo era un giovane guerriero, appena ventenne; stava appoggiato alla sua lunga lancia, guardando il campo.

Giovanni si trascinò presso di lui, e gli disse:

– Sapresti indicarmi dove si trova la tenda del malese Hamat-Peng?

– All’estremità del campo, – rispose il giavanese.

– Vi è un fanciullo bianco con lui, è vero?

– Sì, mi ricordo d’averlo veduto.

– Sei io ti offrissi questo gioiello, – disse Giovanni, traendosi dal dito un anello con un grosso diamante, – mi condurresti nella tenda del fanciullo?

– Oh! Ciò sarebbe pericoloso, – rispose il giavanese.

– Ti prometto di non fuggire.

– No, – rispose il giavanese. – Se Nigoro lo sapesse, mi farebbe fucilare.

Giovanni rimase pensieroso per alcuni istanti, poi si volse ancora al giavanese e gli domandò:

– Conosci Kedir-Peng?

– E chi non conosce Kedir-Peng, il capo dei giavanesi del distretto di Gaatti, il più valoroso di tutti, dopo Nigoro?

– Vorresti recarti da lui? Ti dono egualmente questo anello.

– A cosa dirgli?

– Che il Cacciator Nero si trova prigioniero in questo campo.

– Vi prometto di andarvi domani mattina, – rispose il giavanese.

– Prendi, – disse Giovanni dandogli l’anello.

Il giovane guerriero lo prese con viva soddisfazione e se lo mise al dito, mentre il piantatore si sdraiava sulla coperta, mormorando:

– Se non mi ha dimenticato, mi salverà di certo.

Quando spuntò il sole, dieci guerrieri vennero a prender il Cacciator Nero, per condurlo alla tenda di Nigoro.

Prima di partire, Giovanni diede un’occhiata espressiva al giovane giavanese, il quale gli fece un segno col capo.

Quando giunse presso la tenda di Nigoro, egli vide un cavallo, magnificamente bardato, il quale era tenuto fermo da due giovani malesi.

– Di chi è quel cavallo? – domandò Giovanni alla sua scorta.

Questi lo guardarono senza rispondergli.

Un istante dopo Giovanni entrava nella tenda.

Nigoro stava seduto nel mezzo di essa, circondato da una diecina di capi, vestiti splendidamente. Gettò uno sguardo su quegli uomini, poi impallidì, mandando un urlo di rabbia.

– Tu Hamat! Tu Hamat! – esclamò.

– Sì – disse il malese levandosi.

Una rabbia irresistibile s’impadronì di Giovanni: i suoi occhi gli uscirono dall’orbite, la sua bocca si contrasse orribilmente.

D’un balzo s’avventò addosso ad Hamat-Peng, urlando:

– Bandito!

In un baleno tutti i capi furono in piedi, e si slanciarono su Giovanni. Questi che aveva già schivato il kriss del malese, sentendosi circondato, si volse ferocemente, e per alcuni istanti respinse gli assalitori.

Nigoro però gli si avvicinò, e stringendolo fra le braccia poderose, lo ridusse all’impotenza.

– Ebbene, uccidetemi! – gridò il piantatore.

– Spetta ai miei capi a condannarvi.

– Che sia impalato, – disse Hamat.

– Uccidetemi pure, ma lasciatemi vedere mio figlio, – disse Giovanni.

– No! – gridò Hamat-Peng.

– Infame! Dopo di avermelo rapito mi neghi ancor questo favore. Sei adunque una tigre tu?

– Mi vendico.

– Miserabile schiavo!

– Oggi non sono più uno schiavo, bensì un capo dell’insurrezione.

– Sei un vile!... Ladro di fanciulli!...

– Quest’uomo m’insulta!... La si finisca! – gridò il malese, volgendosi verso i capi. – Facciamolo lottare colla tigre nella gran gabbia!

I capi non risposero; anzi guardavano il malese con occhi torvi.

– Orsù, decidetevi! – gridò il malese. – Voglio vederlo morto, questo mio ex-padrone.

In quel medesimo istante il lembo di seta che chiudeva la porta della tenda si alzò ed un capo giavanese, vestito splendidamente, come un rajah, entrò dicendo:

– Giammai, Hamat! Il Cacciator Nero non morrà!

Udendo quella voce imperiosa, i capi si volsero e non poterono trattenere un grido di meraviglia.

– Kedir-Peng! – esclamarono Nigoro e i capi giavanesi.

– Sì, amici, – disse il capo giavanese, salutandoli. Poi avvicinatosi a Giovanni, gli strinse la mano dicendogli:

– Addio, Cacciator Nero! Non mi sarei giammai immaginato di trovarti al campo giavanese.

Poi si trasse il kriss dalla cintola e lo passò in quella di Giovanni.

– Cosa significa ciò? – chiese Nigoro, stupito. – Tu conosci questo bianco?

– Uditemi, – disse Kedir-Peng. – Un giorno durante un combattimento, quest’uomo mi vinse e mi atterrò. Avrebbe potuto uccidermi, invece mi fece grazia della vita e mi lasciò andare libero. Oggi vengo a pagare il mio debito di riconoscenza. Tu, Nigoro, mi concedi la vita di questo valoroso?

– Sì, – rispose il capo dell’insurrezione. – Io già sentivo che non ci era del tutto nemico.

– È vero, – mormorò Giovanni. – Io non ho mai odiato gl’insorti.

Nigoro gli si avvicinò, e tendendogli la mano all’europea, gli disse:

– Siete libero.

– Grazie gran capo, – rispose Giovanni.

– Volete ora essere mio amico? Voi non siete olandese, quindi non tradite nessuna bandiera.

– Accetto la vostra amicizia, gran capo. Desidererei però che come avete salvato me, salvaste anche i cinque olandesi!

– È impossibile, – disse Nigoro. – Essi sono prigionieri di guerra e per di più olandesi. Il mio esercito esige i suoi diritti.

– Mi permetterete almeno di riavere mio figlio?

– Sì, – rispose Nigoro. Così dicendo si volse per ordinare ad Hamat-Peng di condurre il fanciullo, ma l’astuto malese era sparito, senza che nessuno se ne fosse accorto.

Grande fu la meraviglia che produsse la scomparsa di Hamat-Peng.

– Dovevo sospettarlo, – disse Kedir-Peng con ira.

– Si vada a chiamarlo! – gridò Nigoro, colle ciglia corrugate.

Alcuni secondi dopo tre capi, con una ventina di giavanesi della guardia di Nigoro, correvano alla tenda del malese. Il loro stupore non fu meno grande nel vedere che la tenda di Hamat era pure sparita come pure quelle di cinquanta malesi a lui devoti. Invano essi domandarono ad alcuni giavanesi accampati a poca distanza, questi nulla poterono dire sulla vera direzione presa dai fuggiaschi.

Poco dopo ritornarono alla tenda.

– Ebbene? – domandò Giovanni, lanciandosi verso loro.

– Hamat-Peng ed il fanciullo sono spariti, – risposero i tre capi.

– Spariti! – gemette Giovanni, cogli occhi infuocati.

– E non si sa ove sono fuggiti? – domandò Nigoro con voce irata.

– Nessuno ce lo seppe dire.

– Ah! Cane d’un malese!... – gridò Kedir-Peng.

– Che cento uomini partano subito e lo cerchino – gridò Nigoro, con accento minaccioso. – Se quell’uomo mi cade fra le mani, vivaddio me la pagherà.