La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XX

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Capitolo XX

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Capitolo XX

Il prigioniero

Cacciatori e cavalleggieri giavanesi fuggivano alla rinfusa su per la collina, fulminati dai cannoni nemici e dai cacciatori. Nigoro, salito sul suo arabo, con Giovanni, ultimi di tutti, si ritiravano colla rabbia nel cuore, mostrando la faccia ai nemici, come quei cinghiali che non possono decidersi a fuggire quando i cacciatori li stringono da presso. Essi avrebbero voluto avventarsi sui nemici, ma trascinati in mezzo alla turba dei fuggitivi, si lasciavano condurre loro malgrado.

Pochi istanti dopo, i giavanesi, decimati e sfiniti, giungevano alla collina. Colla rapidità del lampo si schierarono dietro le trincee, cercando d’impedirne l’accesso agli olandesi. Nigoro e Giovanni sui loro cavalli, coi moschetti in pugno, giacché le sciabole erano state infrante, s’erano schierati nelle prime file.

Nel momento in cui gl’insorti occupavano le trincee, gli olandesi giungevano a metà della collina e continuavano a salire rapidamente, spinti dalle colonne che venivano dietro.

Nigoro ordinò il fuoco, ultima risorsa che gli rimaneva.

Cannoni e fucili tuonavano fulminando i nemici, senza però che questi si arrestassero. Capitanati dai loro generali, salivano sempre, decisi a espugnare le posizioni. Allora un furore indescrivibile s’impadronì dei giavanesi. Sassi, palle, fucili, tutto fu precipitato sul capo degli assalitori per arrestare la loro marcia trionfante. Le trincee furono schiantate e i pali furono rovesciati sugli olandesi, sacrificando quella solida difesa. Nigoro, furibondo, afferrato un cannone, lo aveva rovesciato sulle colonne olandesi, aprendo un solco sanguinoso.

Tutto era vano. Il nemico, ormai certo della vittoria, montava intrepidamente all’assalto.

Dieci minuti dopo irrompeva nel campo giavanese, su tutti i punti. Una nuova pugna, più sanguinosa della prima, cominciò. Gli uomini cadevano a centinaia, ma nessuno domandava grazia, e nessuno dava quartiere. Alla fine le genti di Diepo-Nigoro, schiacciate, rotte, calpestate, dovettero cedere dinanzi al numero crescente dei nemici.

Per la seconda volta si diedero alla fuga, lasciando i cannoni nelle mani degli olandesi. Tutti fuggirono giù per la collina, rovesciando le colonne che cercavano sbarrar loro il passo e giunsero nella pianura, ove fecero una breve fermata.

Nigoro, vista ogni resistenza inutile, si volse verso i suoi fantaccini, gridando con voce commossa:

– La battaglia è perduta; fuggite! Cercherò di proteggere la vostra ritirata coi miei cavalleggieri.

Le sue bande non si mossero: esitavano ad abbandonare il loro valoroso capo.

– Fuggite, ve lo comando! È inutile sacrificare altri uomini che possono ancora riunirsi e sostenere la rivolta a Giava! – tuonò Nigoro.

I fantaccini, comprendendo che ogni resistenza sarebbe stata ormai inutile, si dispersero.

– A me cavalleggieri! A me miei prodi! – gridò allora il gran capo giavanese. E presa una lancia, seguito da ottocento uomini, piombò sul nemico.

Quella carica fu così viva e così audace, che parecchi battaglioni olandesi furono sfondati.

I cavalleggieri allora si gettarono contro il grosso del nemico, ove stavano il generale Wan Carpellen ed i suoi ufficiali. Giunti colà, quei prodi furono rotti dalle vive fucilate dei nemici.

Riordinatisi, tornarono alla carica a più riprese, perdendo un gran numero di uomini, poi, circondati da tutte le parti, dovettero riunirsi in un circolo, per far fronte agli assalti degli olandesi.

Colle lancie in resta avevano formato come un immenso gruppo irto di punte aguzze, contro le quali gli olandesi andavano a infrangersi.

Tutti gli sforzi del nemico parevano inutili. I cavalleggieri giavanesi con Giovanni e Nigoro li respingevano sempre. Fu allora che l’artiglieria olandese entrò in campagna, e quei seicento eroi furono schiacciati dalla mitraglia.

– Salvatevi! Salvatevi! – gridarono i giavanesi a Nigoro.

– No! – rispose questi con voce tuonante.

– Nigoro, siete capo. Se fuggite, potreste forse raggiungere ancora l’armata di Kedir-Peng e continuare la guerra, – gli disse Giovanni.

Nigoro rimase per alcuni istanti muto. Poi con voce soffocata, mormorò:

– Sia, – e una lagrima gli spuntò sul ciglio, la prima forse in sua vita.

Allora i giavanesi lanciarono i loro cavalli a gran galoppo, e rotti alcuni battaglioni, fuggirono attraverso i nemici, calpestando e rovesciando tutto ciò che si parava loro innanzi, dirigendosi verso le montagne dell’est.

Giovanni, tenendo per la briglia il cavallo di Nigoro, lo trascinava seco. Il capo giavanese era cupo, cogli occhi sfavillanti di rabbia. Le sue vesti erano insanguinate, e le sue labbra straziate.

Giunti su di un’altura, essi videro una gran quantità di fuggitivi. Erano parecchie migliaia che correvano a salvarsi sui monti.

– Nuovi nemici? – chiese sordamente Nigoro, fermando il suo cavallo.

– Dei giavanesi! – rispose Giovanni sforzandolo a fuggire. – Da dove vengono?

Nigoro si lasciò trascinare verso quei fuggitivi, e dopo dieci minuti raggiungeva quei fuggiaschi.

– Ove fuggite? Chi siete? – gridò Nigoro afferrando un capo per un braccio.

– Gli olandesi! Gli olandesi! – urlò il giavanese.

– A quale esercito appartieni?

– A quello di Kedir-Peng.

– Di Kedir-Peng! Ov’è egli? – gridò Nigoro scuotendolo furiosamente.

– È stato battuto. Gli olandesi lo hanno attaccato mentre veniva in vostro soccorso e l’hanno pienamente sconfitto, – rispose il giavanese.

– E Kedir è morto?

– È fuggito verso Tjeribon.

– Maledizione! – urlò Nigoro rovesciando il disgraziato giavanese con forza terribile. Poi, cacciati gli sproni nel ventre del cavallo, si slanciò in mezzo ai fuggiaschi, mentre alcuni battaglioni di olandesi, i vincitori di Kedir-Peng, apparivano in fondo alla vallata.

Poco dopo, Nigoro e i suoi cavalieri giungevano sulla cima dei monti. Allora il capo giavanese si volse verso Giovanni e gli disse, con voce rotta dall’emozione:

– Giovanni, tutto è perduto. Quest’oggi fu per Giava la sua rovina. Bisogna dividersi; io cercherò di radunare questi fuggitivi; voi invece correte a Tjeribon e cercate di raggiungere Kedir-Peng.

– Vi obbedisco, Nigoro.

– Grazie, Giovanni, – mormorò il gran capo.

– Addio Diepo-Nigoro, – rispose il piantatore. – Spero di rivedervi presto.

Poi entrambi si separarono spronando i loro corsieri.

Nigoro coi suoi fuggì verso l’est; Giovanni salì una montagna che gli stava di fronte, e sulla cima si arrestò un momento per concedere un po’ di riposo al suo spossato destriero.

Nigoro e i suoi cavalleggieri cercavano di radunare i fuggiaschi e di prendere posizione sulla cima di un’altissima montagna.

Nelle vallate gli avanzi dell’esercito di Kedir-Peng continuavano ad affluire, disperdendosi poi per le montagne. Gli olandesi si sforzavano di raggiungerli, ma con poco o niun esito. Però ben presto apparvero i cavalleggieri olandesi, i quali piombarono sui fuggitivi facendo un orribile macello. Fortunatamente la maggior parte delle bande aveva ormai raggiunte le alte montagne, unendosi a quelle di Nigoro.

Quando Giovanni si decise di riprendere la marcia, l’intero esercito di Wan Carpellen stava accampandosi sull’altipiano, poco prima occupato dalle bande di Nigoro.

Diede un ultimo sguardo all’accampamento olandese, risalì lentamente a cavallo, e riprese la via dei monti dirigendosi verso il settentrione.

In breve i fuochi dell’accampamento sparvero ai suoi occhi e si trovò solo in mezzo a orride montagne. Tutto il giorno successivo cavalcò fra burroni e gole, ora salendo ed ora scendendo; però verso il mezzodì del secondo giorno abbandonava quelle aspre catene di monti e raggiungeva i vasti pianori di Tjerimai, ricchi d’acque, di praterie e di splendide boscaglie.

– Finalmente! – mormorò Giovanni, lanciando il cavallo attraverso quelle fertili pianure. – Della montagna ne avevo abbastanza.

Era già una mezz’ora che galoppava, quando udì, a breve distanza, alcune fucilate, e poco dopo vide comparire fra i boschetti alcune dozzine di giavanesi, stretti da vicino da due compagnie di olandesi. Giovanni stava per raggiungerli, quando un altro drappello di olandesi sbucò dai boschi, minacciando di prender in mezzo i giavanesi. Questi, vedendo impossibile la resistenza contro quei nuovi avversari, si erano affrettati a disperdersi.

Giovanni, vedendosi abbandonato, volse anch’egli il suo cavallo, fuggendo verso il sud, inseguito da un drappello di olandesi.

– Ah! – mormorò Giovanni, – mi si insegue. Vi farò correre, miei cari.

Quasi subito, tre o quattro fucilate scoppiarono, e sentì alcune palle fischiare attorno.

Spronò il suo cavallo e si cacciò in mezzo a boschi, scomparendo agli occhi degli inseguitori.

Erano pochi minuti che fuggiva, ascoltando le detonazioni che continuavano a rumoreggiare, quando udì delle grida. Credendo che vi fossero altri giavanesi si spinse innanzi al galoppo. Ad un tratto arrestò lestamente il destriero, mentre i capelli gli si rizzavano sul capo.

– Dio mio! – esclamò tergendo il sudore che gli colava dalla fronte.

Le medesime grida si fecero udire ancora.

Una pazza speranza balenò nella mente di Giovanni. Si rizzò sulle staffe e spronò il cavallo, gridando:

– Finalmente!

Pochi secondi dopo giungeva in vista d’una capanna. Nel momento in cui sbucava fra gli alberi, vide un uomo uscire da una catapecchia e lanciarsi su di un cavallo che pascolava a breve distanza.

Giovanni aveva mandato un vero ruggito.

– Hamat-Peng! Ah!... cane!...

E puntato il fucile fe’ fuoco. La palla, mal diretta per lo slancio del cavallo, andò a recidere un ramo a due passi dal malese.

– A noi due, Hamat! – gridò Giovanni impugnando il suo kriss.

Già stava per piombare sul malese, quando una decina di uomini apparvero all’estremità del bosco. Alcune freccie fischiarono ed il cavallo del piantatore, colpito in varie parti, cadde.

Subito quei nuovi avversari piombarono sul cavaliere e lo legarono mentre Hamat-Peng spariva fra le piante.