La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXI

Da Wikisource.
Capitolo XXI

../Capitolo XX ../Capitolo XXII IncludiIntestazione 19 febbraio 2024 75% Da definire

Capitolo XX Capitolo XXII

Capitolo XXI

Il prahos malese

Il primo moto di Giovanni appena si vide prigioniero fu di sorpresa, ma vedendo che i dieci uomini erano malesi, fu assalito da uno spaventevole accesso di furore.

Si contorceva cercando di spezzare i legami, rotolandosi al suolo come un demente, tentando di mordere i malesi che gli si stringevano addosso per tema che fuggisse.

Nuove funi però gli furono legate alle braccia ed alle gambe, rendendolo impotente.

Allora il capo di quegli uomini, avvicinandoglisi con un gesto minaccioso, gli disse:

– Finiscila o ci costringerai a ucciderti.

– Miserabile! Che cosa vuoi da me? – gli chiese il povero piantatore lanciandogli uno sguardo pieno d’ira e di veleno.

– Lo saprai più tardi, – rispose il malese.

– Bandito!

Il malese alzò le spalle, poi voltosi verso i suoi compagni con voce abbastanza forte perché Giovanni lo udisse, comandò:

– Partiamo!

Tutti balzarono in piedi e circondarono il prigioniero, ma questi non si volse e rimase sdraiato, fissando con uno sguardo infuocato i suoi nemici.

– Andiamo, bianco, – disse il capo malese, tagliandogli le corde che gli stringevano le gambe.

– Vattene bandito, io non mi muoverò di qui, – disse il prigioniero.

– Ah! Non vuoi venire?

– No, miserabile.

Il capo malese, afferrò il kriss, e gli si avvicinò con moto minaccioso.

– Cammina o t’uccido!

– Mai! Mai!

Il malese gli piantò il kriss in petto.

Il piantatore per risposta gli sputò in viso.

Un lampo d’ira brillò negli occhi del malese. Alzò il kriss come fosse deciso a colpirlo.

Uno dei malesi però gli balzò vicino, e afferrandolo pel braccio, gli mormorò alcune parole che Giovanni non poté capire.

– Sia, – disse il capo.

Allora il malese che gli avea fermato il braccio, entrò nel bosco e ritornò conducendo un cavallo. Il piantatore, malgrado la resistenza, fu levato di peso e caricato sull’animale, legandogli le braccia attorno al collo della bestia, in modo da rendergli quasi impossibile qualsiasi movimento.

– In marcia, – disse allora il capo malese.

I malesi si misero in cammino, circondando il cavallo del prigioniero. L’animale non essendo abituato a sentirsi il collo stretto, spiccava dei salti, con grande divertimento dei malesi e molto dolore del piantatore.

Durante l’intera giornata il drappello marciò attraverso folti boschi e alla sera si accampava sulla cima d’una collina.

Furono accesi dei fuochi, e il prigioniero, colle mani e le gambe legate, fu posto al centro dell’accampamento. Il malese che lo avea salvato dal furore del capo, gli diede alcuni viveri, ma Giovanni, troppo abbattuto, non toccò nulla, e si accontentò di fulminare coi suoi occhi i nemici che lo circondavano.

Tutta la notte due uomini stettero seduti presso di lui per sorvegliarlo attentamente. Al mattino il capo diede l’ordine della partenza; ma Giovanni si rifiutò di muoversi.

– Voglio prima sapere ove andiamo, – disse.

– Che importa a te? – rispose il malese.

– Allora non mi muoverò.

Il malese lo guardò con due occhi luccicanti di rabbia, poi, calmandosi, mormorò:

– Andiamo alla costa.

– E dove?

– Non lo so ora; me lo dirà Hamat.

– Hamat-Peng! Dov’è fuggito quel miserabile? – gridò Giovanni.

– Che ne so io? A suo tempo però lo vedrai. Partiamo, ho molta fretta.

Il capo fece mettere in sella il prigioniero, senza che questi opponesse la minima resistenza, e continuarono la marcia attraverso a boschi, a praterie e a monti.

Verso le tre dopo mezzogiorno, essi scalavano una ripida montagna rocciosa, che fece sudare assai prima che si toccasse la cima.

Quando giunsero lassù, il capo guardò verso il nord ove vedevasi scintillare il mare a meno di tre miglia.

– Dov’è il prahos? – domandò il capo malese, aggrottando le ciglia.

– Eccolo là, in quella piccola baia, – rispose uno dei suoi uomini.

– Ah sì, lo vedo. Accampiamoci qui; domani lo raggiungeremo.

I malesi accesero i fuochi e, come la sera precedente, il prigioniero fu guardato l’intera notte. Alle quattro del mattino il capo malese riprese le mosse, seguito da tutta la comitiva. Giovanni veniva trascinato da due uomini; del resto egli non pensava più ad opporre resistenza, sapendo che ogni sforzo sarebbe stato assolutamente inutile.

Alle dieci, dopo una marcia faticosissima fra roccie, cespugli e alberi di meravigliosa grossezza, il drappello giungeva sulla spiaggia del mare.

Colà, in un piccolo seno, si cullava dolcemente un gran prahos malese, lungo dieci metri, largo tre e provvisto di coperta. Due alberi, sostenenti due enormi vele, sorgevano a prora ed a poppa.

Gli uomini che sorvegliavano il prahos quando videro i loro compatrioti, mossero ad incontrarli.

– È pronto tutto? – domandò il capo malese ai sei marinai.

– Non manca che d’imbarcarsi, – rispose uno di loro.

– Hai veduto Hamat-Peng?

– Sì, ieri mattina.

– Dove vuole che conduciamo l’uomo bianco?

– Nella caverna di Sambak.

– Sta bene, – disse il capo.

Sebbene quel dialogo fosse stato fatto in lingua malese, Giovanni che la conosceva lo capì tutto, e volgendosi verso il capo, con voce cupa e piena di rabbia, disse:

– Perché mi si conduce a Sambak?

Il malese, a quella interrogazione fatta nel suo linguaggio, si volse rapidamente, e lo guardò con meraviglia.

Poi, rimettendosi, disse:

– Così vuole Hamat-Peng.

– In quale caverna vuoi condurmi?

Il malese alzò le spalle, poi volgendosi verso i suoi uomini, disse:

– Imbarchiamoci.

I malesi, in numero di quindici, salirono sul prahos. Il prigioniero fu condotto nella stiva e sopra di lui vennero chiusi i due boccaporti.

La gomena, che legava il prahos a una roccia, fu tagliata e la piccola nave prese il largo, spinta da un vento fresco che soffiava dal nord-ovest.

Giovanni appena sentì il prahos muoversi, ebbe un nuovo accesso di furore.

– Ah! Mi si trascina a Sambak! – gridò egli con voce strozzata. – La vedremo!

E afferrato un pezzo di legno, che altre volte dovea aver servito da pennone, si lanciò verso il boccaporto maestro e si mise a tempestarlo con furore, urlando:

– Vi uccido tutti, canaglie.

Sul ponte si udirono grida e minaccie, ma Giovanni continuò a picchiare con maggior rabbia, deciso a sfondarlo.

Dopo sei o sette colpi, il boccaporto volava in mille pezzi.

Le faccie irritate di quattro o cinque malesi apparvero; poi quegli uomini si lanciarono nella stiva coi kriss in mano, gridando:

– Bianco, finiscila!

Ma Giovanni non udiva più nulla. Egli agitò a diritta e sinistra il suo pennone rovesciando tre nemici, indi si lanciò sul ponte. Giunto colà tentò di spiccare un salto per slanciarsi in mare, ma dieci malesi lo afferrarono e lo atterrarono.

Il capo malese, furente, voleva ucciderlo, ma l’uomo che già una volta gli avea arrestato il braccio glielo impedì ancora.

Giovanni, legato, fu trascinato nella stiva, ed un uomo armato di un kriss, fu incaricato di sorvegliarlo.

Il piantatore, esausto, non aveva più opposta resistenza e si era lasciato ricondurre sotto il ponte.

Il prahos intanto continuava ad allontanarsi dalle coste di Giava, colle sue enormi vele gonfiate, mantenendosi il vento del nord favorevole.

L’indomani, quando già si trovava all’altezza di Rembang, il cielo cominciò ad oscurarsi e grosse ondate vennero a infrangersi sui fianchi del prahos, facendolo rullare fortemente.

Il terzo giorno il tempo divenne più burrascoso. Il prahos affondava pesantemente negli avvallamenti delle onde, e parecchi malesi corsero da prua a poppa. I malesi quantunque cominciassero ad inquietarsi, governavano con grande esattezza, ora chiudendo una vela, ora prendendo terzaruoli sull’altra.

Verso sera le onde facevano rullare il prahos così fortemente che anche Giovanni cominciò a essere molto inquieto.

Avendo molta pratica del mare, essendo stato nella sua gioventù cadetto di marina, ed essendo impaziente di sapere cosa succedeva al di fuori, si alzò, dicendo al malese che lo sorvegliava:

– Lasciami salire sul ponte.

– No.

– La tempesta infuria al di fuori e forse il prahos corre pericolo di affondare.

Il malese si strinse nelle spalle e non rispose.

Giovanni, che si era sbarazzato delle corde che gli stringevano le gambe, con un urto improvviso lo rovesciò, poi si slanciò verso il boccaporto, comparendo sul ponte.

Il capo malese gli si era subito lanciato contro col pugnale in mano e tentando dominare il fracasso della tempesta, gli aveva gridato:

– Cosa fai qui?

– Sono un uomo di mare anch’io, – disse il piantatore, – e sono venuto ad aiutarvi. Guarda quell’onda che ci assale. Fa’ virare di bordo il prahos o si rovescierà.

Il malese lo guardò meravigliato.

Giovanni continuò:

– Fa’ prendere terzaruoli sulla vela di trinchetto o l’albero si spezzerà, e fa’ ammainare quella maestra o fra poco la raffica che ci minaccia sarà qui, e la prora del prahos, per la spinta del vento, s’inabisserà; obbedisci se non vuoi perdere il veliero.

Il malese sempre più meravigliato lo guardava attonito. Finalmente disse:

– Bianco, tu hai ragione, ti obbedisco.

Fece subito virar di bordo il legno per ricevere l’onda a prora, imbrogliare la vela maestra, prendere terzaruoli sull’altra.

Giovanni si era diretto a prora, senza che il capo vi si opponesse.

Il mare era divenuto tempestosissimo ed il vento aveva acquistata una velocità di venticinque metri al secondo, cifra che raggiunge solo ne’ grandi uragani. Vere montagne d’acqua, che toccavano i lembi delle nubi, si cozzavano con orribile fracasso, schizzando sprazzi mostruosi. Alcune di esse erano alte perfino venti metri e si rovesciavano sul prahos, con impeto irresistibile facendolo rollare e beccheggiare spaventosamente.

Alle otto di sera il cielo fu solcato da lampi acciecanti, da veri guizzi di fuoco. I tuoni, i ruggiti del vento ed i fragori delle onde formavano un fracasso assordante.

Il prahos però correva sempre, cercando di mantenersi sul filo del vento.

Alcune volte s’inchinava sotto la spinta delle raffiche e faceva degli angoli spaventosi, gettando sossopra e rotolando da un canto all’altro i malesi.

La vela di maestra, sebben terzaruolata, esercitava un tale sforzo da far immergere i fianchi del legno. L’acqua poi attraversava il ponte da un bordo all’altro, strizzando sino alle cime degli alberi e portando seco tutto ciò che era in coperta.

Il capo malese si era messo vicino a Giovanni, e guardava il mare infuriato con occhi ripieni di spavento.

– Bianco, cosa mi consigli di fare? – domandò ad un tratto volgendosi verso il prigioniero.

Questi lo guardò senza rispondere.

– Bianco! Bianco! Che cosa bisogna fare? – tornò a chiedergli.

Un sorriso ironico contrasse le labbra di Giovanni. Afferrò il malese per un braccio, dicendogli con voce minacciosa:

– Odi?

Il malese tese gli orecchi e rabbrividì. Si sentiva avvicinare un cupo rombo, simile a un tuono lontano.

– Cosa avviene? – domandò egli, con voce tremante.

– È una raffica tremenda che ci piomba addosso.

– Come evitarla?

– Nulla, guarda!

Quasi subito un’onda mostruosa piombò sul prahos, e l’avvolse in una nuvola di spuma. Quando uscì da quel turbinio d’acqua, uno degli alberi era stato schiantato, e due uomini che stavano al timone erano spariti colla barra.

– Fa’ mettere un’altra barra! – comandò Giovanni.

I malesi obbedirono, avendone una di ricambio.

Allora Giovanni si avvicinò al capo, dicendogli:

– Se io ti conduco salvo a Sambak, mi lascierai libero?

Il malese lo guardò e parve esitare.

– Parla, o lascio che vi affogate tutti!

– Ti prometto di accordarti la libertà, – disse il malese.

– A me la barra!... Ora comando io!