La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXII

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Capitolo XXII

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Capitolo XXII

L’isola di Sambak

Giovanni si era avviato verso poppa, ed aveva afferrata la barra del timone.

Il prahos, sotto la sua direzione, si spinse verso il sud, presentando la prora alle onde. Era tempo, poiché un’onda mostruosa stava per investirlo. Giovanni con un vigoroso colpo mise la barra sottovento, e ricevette la montagna d’acqua in prora. Il ponte fu inabissato, ma il legno, sotto l’azione del timone, uscì vittorioso e balzò innanzi con leggerezza meravigliosa. Allora il piantatore fece spiegare la vela di trinchetto con due mani di terzaruoli, e diresse il prahos attraverso alle onde, fendendole come fosse una lama d’acciaio.

Il capo malese stava vicino a Giovanni, colla mano appoggiata al manico del kriss, pronto a immergerlo nel petto del bianco, al minimo sospetto di tradimento. Il prahos però, guidato dalla robusta mano del timoniere, lottava vittoriosamente contro i marosi. Talvolta perdeva ora un pezzo di murata, ora qualche attrezzo, ma cosa importava? Sambak ormai non era lontana.

Ad un tratto la vela del prahos scoppiò come una bomba, facendo tremar l’albero sino alla base. La piccola nave trascinata dal proprio slancio seguitò la sua corsa, poi rallentò, rollando fra i marosi infuriati. Tutti credettero che il piccolo legno venisse subissato, ma Giovanni con un abile colpo di barra lo rimise sulla buona rotta maestra, facendo spiegare una piccola vela di ricambio.

Durante tutta la notte il prahos lottò contro la furia del mare, correndo sempre un grave pericolo.

Al mattino però il vento cominciò a calmarsi ed anche le onde ad abbassarsi. A mezzodì la tempesta era cessata e più nessun pericolo minacciava i naviganti.

Il prahos era però ridotto in misere condizioni. Aveva i fianchi quasi tutti sfondati, le murate in pezzi, e l’albero maestro era sparito durante la burrasca.

Giovanni abbandonata la barra si era avvicinato al capo malese, il quale lo guardava con aria imbarazzata.

– E ora manterrai la tua parola? – gli chiese.

– Quale parola? – disse il malese.

– Di lasciarmi libero appena sbarcheremo a Sambak.

– Ah! E perché?

Giovanni fu preso da un accesso di rabbia, e gridò:

– Miserabile! Vorresti ingannarmi?

– Io ingannare? Non ti promisi nulla, – disse il malese.

– Traditore! – urlò Giovanni, balzandogli alla gola.

Il malese, preso alla sprovveduta, cacciò un grido, e rotolò al suolo, mentre il piantatore tentava di soffocarlo.

– A me! – rantolò, scotendosi.

Giovanni strinse vieppiù le sue magre dita intorno al collo del miserabile, ma quasi subito si sentì afferrato e rovesciato a sua volta.

– Canaglie! – urlò egli, dibattendosi fra le strette dei tredici marinai.

– Legatelo! – gridò con voce soffocata il capo malese, il quale col collo gonfio, si era rizzato sulle ginocchia.

– Lasciatemi accopparlo! – gridava Giovanni, cercando di avventarsi ancora contro di lui.

– Legatelo! Cacciatelo in stiva! – ripeteva il capo malese cercando d’impugnare il suo kriss.

Giovanni opponeva una disperata resistenza. Urlava, si dibatteva, rovesciava uomini, ma, alla fine, cedette sotto il numero degli assalitori, e legato mani e gambe, fu trascinato nella stiva e fu lasciato solo.

– Banditi! Me la pagherete, – gridò dimenandosi furiosamente per spezzare i legami che lo avvincevano.

Una subita idea di vendetta gli era balenata nel cervello.

Voleva tentare di mandare a picco il prahos, aprendo un foro fra le tavole sconnesse dalla tempesta.

– Forse perirò anch’io, ma che monta? – disse. – Sandiak-Sin, Nigoro e Kedir-Peng, penseranno a mio figlio ed a vendicarmi di Hamat-Peng.

Bisognava dapprima rodere le corde, ma si sentiva capace di farlo. Accostò le mani alla bocca e si mise a rodere pazientemente i legami coi suoi denti aguzzi.

Fu un lavoro penoso, però alla fine vi riuscì; i suoi denti e la sua pazienza trionfarono sulla resistenza della corda. Con uno sforzo si liberò le mani, e il primo moto che fece appena si sentì libero, fu quello di trovare un’arma onde aprire un foro nei fianchi del veliero.

Cercando fra gli attrezzi della stiva, pervenne a trovare un vecchio coltello, non più grande d’un temperino, solido però e con una punta abbastanza aguzza, per poter intaccare, senza pericolo che si rompesse, i fianchi del prahos.

Lavorò tutta la giornata, con una pazienza ed un accanimento senza pari.

Alla sera il capo malese e due marinai scesero nella stiva per recargli dei viveri.

Giovanni, che se ne era accorto prima, vedendo il boccaporto alzarsi, si trascinò al suo posto, si mise le corde attorno le braccia fingendo di esser legato, e abbassò il capo sul petto per nasconder la propria commozione.

Il capo si accontentò di vedere che era ancora al suo posto, poi fatte deporre le provviste, si ritirò coi suoi uomini.

Un sospiro uscì dal petto del prigioniero.

– Ah! – mormorò egli toccando alcune vivande, – vi preparerò anch’io una sorpresa, miei cari!

Riprese il coltello ed intaccò vigorosamente la tavola. In breve però l’oscurità divenne così profonda, da costringerlo a desistere dal lavoro.

Al mattino il capo venne a visitarlo di nuovo. Giovanni lo ricevette come la sera precedente, cioè fingendo d’esser legato.

– Pare che ti sei calmato, – disse il malese con accento ironico, piantandoglisi innanzi, col pugno appoggiato al manico del kriss.

Giovanni non rispose e si volse dall’altra parte.

– Mi serbi rancore, è vero? Sì, io ho mancato alla promessa, ma io devo obbedire ad Hamat-Peng. Mi ordinò di condurti a Sambak, e non posso fare diversamente.

– Hamat-Peng, – mormorò sordamente Giovanni, scuotendosi a quel nome.

– Sì, Hamat-Peng, quel bravo malese che un tempo fu tuo schiavo, – disse il capo.

– E perché mi vuol mandare a Sambak?

– Forse vuole esiliarti in quell’isola.

– Quando vi giungeremo, vedrò Hamat-Peng?

– Lo spero.

– Siamo forse vicini a quell’isola? – chiese Giovanni.

– Forse. Credo che non distiamo che una ventina di miglia.

– Ah! E sbarcherete anche voi?

– Sì, poiché dobbiamo vegliare su di te. – Ciò detto il malese risalì sul ponte, lasciandolo solo.

– Sorvegliarmi! – disse Giovanni. – Lo vedremo, miei cari!... – e si rimise al lavoro con novello ardore.

I pezzi di legno, sotto la punta acuta del coltello si staccavano facilmente, tanto più che il veliero era assai avariato.

Lavorava da due ore, quando udì una voce a gridare:

– Sambak! Sambak!

– Bisogna far presto, – disse.

Aveva già intaccati due madieri, però non cedevano ancora ai suoi reiterati sforzi, quantunque li sentisse tremare sotto lo sforzo dell’acqua.

Già sul ponte sentiva i malesi a correre verso prora per preparare l’ancora, ed i madieri resistevano sempre.

A un tratto si levò di repente, corse a poppa e prese una manovella spezzata, che però era assai grossa e resistente. Ei l’alzò e lanciò con tutta forza contro le tavole le quali scricchiolarono, mentre che alcuni rivoletti d’acqua entravano per le fessure. Rinnovò il colpo, e questa volta le due tavole cedettero. Un torrente d’acqua si precipitò nella stiva. Allora si aggrappò al bordo del foro per uscirne, ma l’acqua lo respinse con violenza.

In quel mentre udì grida risuonare sul ponte.

– Se non esco, sono perduto, – mormorò egli, cacciandosi in mezzo al torrente che l’acciecava. Con uno sforzo supremo passò attraverso l’apertura e si gettò in mare mentre il boccaporto del ponte veniva aperto.

Per alcuni istanti si sentì trascinare contro i fianchi del prahos, poi con due vigorose bracciate si allontanò di alcuni metri e risalì a galla.

Lanciò un rapido sguardo al prahos. Il legno inclinato a babordo cominciava ad affondare.

Guardò innanzi a sé e scorse, a meno di un miglio, le spiagge dell’isola.

– Diavolo! – mormorò Giovanni, facendo una bracciata.

In quel mentre i malesi apparvero sul ponte.

Giovanni si tuffò per alcuni minuti, poi ritornò alla superficie. Vide allora il prahos che colla sua grande vela spiegata sull’albero di prora, correva a grande velocità verso terra.

– Cerchiamo di non farci scorgere, – mormorò.

I malesi gesticolavano con vivacità, mentre che il loro capo messosi alla barra del timone tentava dirigere il legno verso la costa più vicina.

– Ah! Lo mandano in secco, – mormorò Giovanni fendendo un cavallone, coll’agilità di una focena.

Due minuti più tardi, il prahos, sotto la spinta del vento, si avventava sulla spiaggia, sfasciandosi. L’albero di trinchetto colla sua vela rovinò sul ponte, mentre che i malesi venivano sbalzati sulla spiaggia.

Quasi subito un centinaio di selvaggi, armati di lunghe lancie, balzarono fuori dai cespugli e corsero verso i malesi.

Giovanni credeva che si gettassero addosso ai naufraghi per ucciderli, ma quasi subito mandò un grido di rabbia.

Il capo malese si era rizzato subito, e avea fatto dei cenni ai selvaggi, i quali deposte le loro lancie corsero a rialzarli.

– Dannazione! Si conoscono! – esclamò Giovanni; e seguì cogli occhi la manovra dei malesi e dei selvaggi.

Ma il suo spavento fu più grande quando vide i selvaggi arrampicarsi sugli scogli ed esaminare il mare, mentre altri gettavano nell’acqua alcune piroghe lunghe dodici piedi, che erano nascoste fra le roccie.

Un freddo sudore gl’inondò la fronte, e si tuffò rapidamente, per non venire scoperto.

Alcuni istanti dopo, dovette ritornare a galla per far nuova provvista d’aria, ma nel momento che riappariva, udì delle grida, e vide i selvaggi indicarlo ai malesi.

Quasi subito alcune piroghe si staccarono dalla spiaggia prendendo frettolosamente il largo.