La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXIII

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Capitolo XXIII

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Capitolo XXIII

La grotta di Sambak

Giovanni cominciava già a sentirsi stanco, sentiva già l’estremità dei piedi e delle mani irrigidirsi. Ma ricuperò la sua energia, quella energia che spiega l’uomo nel momento del supremo pericolo, e dopo di aver fatta un’ampia provvista d’aria, tornò ad inabissarsi, dirigendosi verso il largo.

Per un minuto stette immerso, ma sentiva che già l’aria nuovamente gli mancava. Il sangue gli ronzava agli orecchi, ed il cuore gli batteva forte. Raccolse tutte le sue forze, e con un vigoroso colpo di tallone, risalì a galla, per sprofondare subito, con rapidità sorprendente, ma con una nuova provvista d’aria.

Avea veduto le piroghe a venti passi e gli uomini che le montavano stavano esplorando attentamente il fondo del mare. Anche questa volta tenne più duro che poté, ma l’aria, così tanto necessaria alla vita umana, gli mancava a poco a poco. Bisognava che ritornasse alla superficie a qualunque rischio. Deciso a tutto pur di respirare, tornò sull’onda, rapido come una freccia. Già si credeva salvo e stava per tuffarsi nuovamente, quando si sentì afferrare pei capelli.

Cercò di fare resistenza, ma invano, si sentiva trascinato alla superficie, e si sentiva stringere anche le braccia. Cacciò un grido soffocato, e la bocca gli si riempì d’acqua.

Appena aprì gli occhi si vide attorniato da quattro robusti selvaggi, e a breve distanza vi erano le piroghe.

– Trascinatelo qui, – gridò il capo malese che montava una di quelle scialuppe.

Giovanni stremato di forze non poteva più opporre resistenza, e si lasciò trascinare a bordo della piroga, ove fu subito legato.

Il sangue gli ronzava agli orecchi e provava dei brividi convulsi.

I selvaggi immersero le loro lunghe pagaie nell’acqua e le piroghe ritornarono rapidamente alla spiaggia. Giunto colà, Giovanni fu sbarcato e lasciato sulla sabbia in mezzo a un duecento selvaggi, uomini e donne, che lo guardavano, lo toccavano, e ridevano, mostrando i loro denti bianchi come l’avorio.

Alcuni malesi armati sino ai denti, lo guardavano però attentamente, onde impedirgli di fuggire. Giovanni muto e immobile guardava sempre cogli occhi dilatati tutti quegli isolani.

Dopo una mezz’ora il capo malese fece sgombrare il luogo da tutti quei selvaggi, e avvicinatosi a lui, gli fece cenno di levarsi.

Giovanni che avea le gambe libere lo seguì, scortato da dieci malesi. Il capo lo condusse in una capanna costruita con grossi bambù, e ve lo spinse entro, rinchiudendo la porta con una pesante stuoia di foglie di cocco.

La capanna ove si trovava, era di forma circolare, poco alta, ma solida. Nell’interno vi erano alcuni pali piantati nel terreno, un letto di foglie secche, ed alcuni vasi di creta.

Giovanni, sfinito, si stese sul letto di foglie, rimanendo immobile e silenzioso. Privo di forze, abbattuto dai disagi e dagli avvenimenti era come un corpo morto. Perfino i suoi occhi aveano perduto il loro splendore. Egli era divenuto insensibile; non sentiva più né dolore né gioia. La sua testa gli pareva vuota e priva di cervello.

Sempre muto e sempre silenzioso, rimase sdraiato parecchie ore guardando le pareti della capanna, colla fissazione d’un idiota.

Rimase fino all’indomani in quel luogo, sorvegliato sempre attentamente dai malesi armati sino ai denti.

Il secondo giorno, il capo malese scortato da due de’ suoi uomini entrò nella capanna. Egli guardò per alcuni istanti Giovanni, poi avvicinatosi, gli disse:

– Bianco, devi cambiare dimora.

Il piantatore non rispose.

– Devo condurti nella prigione assegnatati da Hamat-Peng, – continuò il capo malese.

A quel nome Giovanni si scosse, e con voce furente esclamò:

– Hamat-Peng! Chi parla di Hamat-Peng? Dov’è quel miserabile?

– Taci, non insultare il nostro capo.

Ma Giovanni parve non l’udisse, perché continuò:

– Dov’è Hamat? Lasciate che lo uccida!

– Seguimi, – disse il malese impazientito.

Il piantatore tornato in sé, si levò lentamente.

Due malesi gli si misero ai fianchi coi kriss in mano e lo accompagnarono fuori. Appena usciti, altri otto malesi armati di fucili lo attorniarono e tutti assieme preceduti dal capo, presero la via dei monti.

Il cielo era nuvoloso e minacciava un uragano. La massa nera delle nubi che avvolgeva tutto il cielo, si abbassava pesantemente, quasi volesse schiacciare l’isola. L’atmosfera era pregna di elettricità, mentre l’aria parea che mancasse. Alcuni lampi sinistri e lucidi brillavano nell’orizzonte.

Il piccolo drappello, conducendo il prigioniero, prese un sentiero dirupato, che andava salendo, e che passava a pochi passi dal mare.

Giovanni collo sguardo tetro, pareva che non vedesse né il mare, né le rupi. Senza dubbio il suo pensiero volava a Giava, ed i suoi occhi guardavano verso l’isola che di tratto in tratto si vedeva sorgere fra la massa dei vapori.

Poco dopo il sentiero cominciò ad abbassarsi sino a soli cento piedi dal mare. Scendeva in fondo a una specie di burrone roccioso, dove si udiva il mare a ruggire, con un fragore assordante. In quel luogo un grido, lo scoppio d’un’arma da fuoco, non si sarebbero potuti udire, perché sarebbero stati soffocati da quei flutti muggenti.

Giovanni a quel fracasso si era scosso, ed aveva provato un brivido. Temette per alcuni istanti che l’avessero trascinato sin là per ucciderlo, ma s’ingannava. Il capo e i suoi continuarono a camminare, scendendo sempre verso l’abisso.

I malesi fecero ancora cento passi, poi si fermarono a poca distanza da una galleria oscura, che parea s’internasse nelle roccie.

Allora il capo, avvicinatosi al prigioniero, ed accennandogli la galleria oscura, gli disse:

– Bianco, prima che tu entri, guarda ancora una volta il mare. Forse non lo rivedrai più mai.

Non un muscolo della faccia di Giovanni si mosse. Si avvicinò però alla roccia, che cadeva a picco sul mare, ed incrociando le braccia fissò l’orizzonte.

L’uragano minacciava sempre di scoppiare. Le nubi erano diventate più nere e più dense, e i lampi lividi brillavano con bagliori fosforescenti, mentre l’aria si saturava di emanazioni sulfuree e di elettricità. Il vento soffiava già con violenza, sollevando enormi ondate, le quali venivano a infrangersi rumorosamente contro le roccie.

Giovanni coi capelli ondeggianti al vento, muto e immobile, guardava sempre. Parea che cercasse di discernere ancora i picchi lontani della grande isola. Quanti amari ricordi gli destava quell’isola! Quanti dolori e quante angoscie!... Ov’era il povero fanciullo rapitogli dal malese? Cos’era accaduto di Diepo-Nigoro? Forse morto l’uno e forse prigioniero l’altro.

Ei continuava a guardare, aspirando l’aria infuocata, ma quando vide quelle lontane montagne scomparire dietro i vapori turbinanti all’orizzonte, un singhiozzo gli uscì dal petto, e chinò la testa.

I malesi muti e immobili formavano attorno a lui come una corona, mentre i lampi rischiaravano quella scena, e il tuono rombava in lontananza.

– Vieni, – gli disse d’un tratto il capo malese.

Giovanni parve che non lo udisse, poiché non si mosse.

– Vieni – ripeté il malese.

Giovanni cupo e minaccioso si volse, ma poi guardò ancora il mare, mentre che il vento muggiva sordamente attorno a lui.

– Vieni, – gli ripeté per la terza volta il malese.

Il piantatore a quel terzo invito abbandonò il posto, guardò ancora con un lungo sguardo smarrito l’orizzonte e seguì il malese.

Alcuni istanti dopo, il drappello s’internava sotto la galleria oscura. I malesi avevano accesi alcuni rami resinosi e rischiaravano la via.

La galleria era stretta, e andava abbassandosi, come s’internasse entro terra. Però alcune volte si udivano dei rumori singolari, dei muggiti sordi, che senza dubbio provenivano dal mare.

Dopo aver percorso circa duecento metri, il capo malese si fermò presso a una massiccia porta, fatta di legno del tek, albero assai comune nell’isola di Sambak. Ei l’aprì ed entrò in una vasta grotta, che avea circa venti metri di circonferenza, abbellita da stalattiti, da stalagmiti e da colonnati rocciosi. Due piccoli fori, sbarrati da spranghe di legno del tek, che eguaglia per durezza il ferro, erano stati aperti nelle pareti della grotta, a circa tre metri dal suolo, cioè quasi sulla volta.

Entro di questa grotta si udiva un rumore assordante. Era il mare che muggiva, e che veniva a infrangersi contro le pareti esterne. Il suo fragore si propagava straordinariamente là entro, e rumoreggiava cupamente nelle oscure cavità della grotta.

Il capo malese, dopo aver lanciato uno sguardo nell’interno, afferrò Giovanni pel braccio e lo spinse brutalmente dentro. Allora, indicando l’interno della grotta, con voce minacciosa, disse:

– Questo è il luogo che ti ha destinato Hamat-Peng, ed in questo luogo passerai lunghi anni, se non cederai ai suoi voleri.

– Ah! Non cederò mai! – rispose Giovanni.

– Lo vedremo, uomo bianco. Addio!

La porta si rinchiuse e Giovanni si trovò solo, perduto, abbandonato in quella grotta oscura e orribile ove non udiva che il mare che muggiva, quando il vento lo sollevava in enormi ondate.

Per alcuni istanti ei rimase immobile come smarrito, poi si trascinò lentamente in un angolo della grotta, e si lasciò cadere sopra un mucchio di foglie. Però chi avesse guardato entro la caverna al chiaror dei lampi che illuminavano a soli intervalli quell’antro, avrebbe veduto delle lagrime silenziose scendere sulle pallide guancie del povero piantatore.

Passarono molti giorni, giorni di pianto e di disperazione. Ogni dì, un malese recava a lui del cibo, poi spariva, ma il cibo rimaneva sempre là, quasi intero. Il disgraziato prigioniero rinchiuso in un silenzio feroce, rimaneva dei giorni interi steso al suolo, senza mai muoversi.