La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXIV

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Capitolo XXIV

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Capitolo XXIV

Hamat-Peng e Sandiak-Sin

Molti giorni erano trascorsi senza che alcun avvenimento avesse turbata la prigionia del povero piantatore.

Il disgraziato, vinto da tanta avversità, si era ormai rassegnato al triste destino a cui l’aveva condannato il vendicativo malese.

Dapprima, preso da impeto di furore, aveva cercato di forzare, ma invano, la porta della sua tetra prigione; poi aveva cercato di corrompere i suoi carcerieri promettendo loro la protezione e l’amicizia di Diepo-Nigoro, e grandi ricchezze, ma finalmente, scoraggiato, disperato, si era abbandonato alla sua sorte non sperando più che nella morte, l’unica che lo liberasse da tante sciagure.

Già ormai aveva cominciato a rifiutare perfino il cibo onde affrettare quella fine desiderata, quando un avvenimento inaspettato venne a strapparlo dai suoi disperati propositi.

Si trovava da quindici giorni sepolto in quella caverna, quando un mattino la porta della tetra prigione si aprì, ed un uomo armato sino ai denti entrò bruscamente, dicendo:

– Alzatevi, padrone! Ho da parlarvi.

Udendo quella voce, Giovanni aveva provato una scossa come fosse stato toccato da una pila elettrica o come se una vipera gli avesse morso il cuore. Si levò fremendo dal suo giaciglio e tendendo il pugno verso l’uomo, gli urlò con voce cupa e minacciosa, improntata d’un odio violento:

– Miserabile! Da quando in qua gli assassini vengono a visitar le vittime?

Quell’uomo gli si avvicinò, dicendogli:

– Padrone, ringraziatemi invece, di non avervi fatto uccidere.

– Miserabile schiavo! Non sai che desidero la morte?

– Forse, – rispose Hamat, – ma io promisi a lei di non uccidervi.

– A lei! A lei! – tuonò Giovanni con minacciosa voce.

– Sì, a lei, a Isabella.

– Isabella! Ov’è Isabella? – gridò il portoghese avvicinandosi al malese coi denti stretti.

– Isabella! È a Giava!

– E che ne facesti di lei, miserabile?

– Io, nulla, – ghignò Hamat-Peng.

L’occhio inaridito di Giovanni si fe’ di fuoco, e avvicinatosi al malese lo toccò colla sua fredda mano sul petto. A quel contatto, un brivido corse pel corpo di Hamat-Peng. Allora il portoghese, fissandolo in volto, con voce calma e lenta disse:

– Hamat-Peng, esci!

Il malese non si mosse, ma portò la mano sul manico del kriss.

– Non sono più tuo schiavo.... No, io sono oggi un uomo libero che tiene nelle sue mani la vita del suo antico padrone! Hamat-Peng ora comanda a degli uomini, è diventato uno dei capi dell’insurrezione, ha servi, ha schiavi, ed anche ricchezze.

– Miserabile, rapitore di fanciulli! – gridò il piantatore, slanciandosi verso il malese. – Cos’hai fatto di mio figlio? Parla o ti strozzo colle mie mani!

– Adagio, padrone, – disse Hamat ridendo beffardamente. – Non sono già un uomo che ha paura di voi.

– Parla ti dico!

– Io parlerò, anzi sono qui venuto appositamente per questo, ma siate calmo o me ne vado.

Giovanni, facendo uno sforzo supremo, si era arrestato, ma si teneva pronto a gettarsi sul miserabile, deciso a impegnare con lui anche una lotta disperata.

– Parla, adunque, – disse. – Cos’è che vuoi da me? Cos’hai fatto del mio Carlo?

– Innanzi a tutto vostro figlio è vivo e si trova in buona salute. Io non ho mai odiato il vostro piccino, e se l’ho rapito l’ho fatto per avere un ostaggio.

– Ed a quale scopo?

– Padrone, voi sapete che io ho immensamente amato vostra sorella.

– Ed ella ti ha supremamente disprezzato.

– Non importa. Costringete vostra sorella a diventare mia moglie ed io vi prometto di rendervi vostro figlio e la libertà.

– Giammai, cane d’uno schiavo! Mia sorella è una donna bianca e mai sposerà un selvaggio della Malesia, un servo dalla pelle nera. Tu sei stato pazzo a sperare una simile unione.

– Tu mi disprezzi adunque, padrone, – diss’egli coi denti stretti e la voce strozzata pel furore.

– Faccio di più! Ti strangolo, cane!

Così dicendo Giovanni s’era improvvisamente scagliato sul malese, a corpo perduto.

L’assalto era stato così improvviso, che il malese non aveva avuto il tempo di mettersi in guardia, né d’impugnare i due kriss che portava alla cintura o di afferrare il fucile che aveva deposto in un angolo della caverna.

– Muori, cane! – gridò Giovanni serrandogli le magre dita intorno al collo. – Tu non uscirai vivo da qui!

– A me! A me! – urlò Hamat dibattendosi sotto la stretta di Giovanni.

– Grida pure, nessuno ci ode. Il ruggito del mare basta a soffocare le tue grida.

– A me! – ripeté il malese che era caduto al suolo.

– Muori! Muori! – ripeteva Giovanni, stringendo sempre più il collo.

– Sindiak a me! – rantolò Hamat.

Un sorriso feroce contrasse le labbra del piantatore.

– Giungeranno troppo tardi!

– Aiuto, – rantolò un’ultima volta il malese.

Di repente la porta della galleria si aperse e alcuni malesi si precipitarono su Giovanni atterrandolo. Egli però si levò rapidamente, e tentò ancora d’avventarsi su Hamat, che era stato rialzato mezzo strangolato e cogli occhi che gli schizzavano fuori dalle orbite.

I malesi a un suo cenno si scagliarono nuovamente su Giovanni. S’impegnò una lotta accanita fra il bianco e i malesi. Parecchi assalitori caddero, ma alla fine il piantatore fu atterrato e ridotto all’impotenza.

– Lasciatemi un istante, un secondo solo che lo strangoli! – urlava egli dibattendosi come un delirante.

I malesi ad un cenno del loro capo si slanciarono verso il corridoio, chiudendo con fracasso la porta.

Rimasto solo, il primo moto del prigioniero fu di correre alla porta, sperando di forzarla, ma s’avvide subito che sarebbe stata una inutile pazzia.

– Calmiamoci e non commettiamo sciocchezze, – disse.

Poi tornò nel mezzo della grotta, e per la prima volta si diè a guardar i fori e le muraglie della grotta. Un ardente desiderio di fuggire, per vendicarsi del suo antico schiavo, causa unica di tutte le sue sventure, lo aveva preso.

– Bisogna che trovi il modo di uscire da qui o morire.

Misurò la distanza che lo separava dai due fori aperti sulle pareti della grotta, ma s’accorse che era tale da non poterla superare senza un punto d’appoggio.

– Eppure voglio giungere lassù, – mormorò.

Ad un tratto si batté la fronte.

– Bisognerebbe scavare un buco onde poggiare il piede, ma dove trovare un coltello? Un coltello! Ma uno devo averlo nelle mie tasche!

Solamente in quel momento, si era ricordato di possedere un piccolo coltello che i malesi non si erano curati di prendergli, avendo le lame così corte da non poter servire né come difesa, né come offesa.

Se quell’arma ben poco o nulla poteva servire contro i nemici, poteva bastare per scavare un buco.

Giovanni si recò sotto una delle feritoie e si mise senz’altro al lavoro, deciso a crearsi un punto d’appoggio per potersi spingere in alto.

Mercé i lampi che illuminavano di quando in quando la caverna, essendovi tempesta al di fuori, trovò il punto migliore per intaccare la parete.

La roccia era dura, e dovette batterla furiosamente per ben due ore. Più di una volta aveva abbandonato il lavoro, ed era andato ad origliare alla porta, temendo di esser ascoltato, ma si era subito rassicurato. D’altronde le urla del vento, ed il mare che percuoteva le pareti esterne con de’ muggiti formidabili, che le cavità della grotta centuplicavano, bastavano a coprire ogni altro rumore.

Avuto quel punto d’appoggio, con uno slancio poderoso raggiunse uno dei due fori, aggrappandosi saldamente alla traversa di legno.

Sebbene quell’apertura non avesse che un piede di altezza su uno di larghezza, egli poté tuttavia alla luce dei lampi abbracciare colla vista un vasto orizzonte.

A destra della caverna si estendevano enormi rocce che si succedevano continuamente sino a perdita d’occhio. A sinistra invece una spiaggia bellissima, coperta d’alberi, dinanzi al mare agitato e burrascoso, che si frangeva a dieci passi. Giovanni guardò in lontananza e sulla nebbiosa linea dell’orizzonte vide profilarsi confusamente alcuni picchi lontani, che parevano perduti fra le nere nubi. Erano le montagne della vicina isola di Bali, e più oltre quelle dell’isola di Giava.

Abbassando gli sguardi, scorse alla base della caverna, seminascosto fra due massi, un uomo, con un fucile fra le mani.

– Una sentinella, – mormorò egli. – Si teme che fugga per di qui!

In causa dell’oscurità Giovanni non poté subito vedere se si trattava d’un malese, però dopo alcuni istanti, essendo sopravvenuto un lampo, poté accertarsi di non essersi ingannato.

– Se è un malese, sorveglia me, – mormorò Giovanni, fissando quell’uomo, il quale si teneva appoggiato alle roccie, senza curarsi dell’uragano che minacciava di scatenarsi.

Giovanni stette a lungo aggrappato alle sbarre della feritoia, cercando però di non farsi scorgere dalla sentinella.

L’uragano si era intanto scatenato con violenza. I fulmini scoppiavano rumorosamente, il vento ruggiva ingolfandosi attraverso i buchi, con tal violenza, che per poco il prigioniero non fu atterrato, mentre che una pioggia furiosa si rovesciava sull’isola.

Il mare, diventato spaventoso, batteva con furore le pareti esterne della caverna, facendola tremare da tutte le parti.

Giovanni, colla faccia appoggiata alle barre del buco, aspirava quel vento colle nari dilatate, seguiva cogli sguardi i fulmini, che squarciavano rumorosamente le masse dei vapori con assordante fracasso.

Cadevano in così gran numero, che il prigioniero ebbe paura di venire colpito. Anzi vi fu un momento che vide delle scintille sprizzare dalla canna del moschetto della sentinella.

– Quell’uomo corre il pericolo di venire fulminato, – disse Giovanni.

Stava per lasciarsi cadere nella caverna, quando un fracasso assordante, come se una granata fosse scoppiata nella prigione, lo trattenne.

Un sasso enorme, del peso d’una mezza tonnellata, si era staccato dalla volta della grotta, precipitando al suolo.

L’aria estremamente agitata per il rimbombo del vento e del mare, avea smosso quell’enorme macigno, certamente poco solido.

– Diamine, – mormorò egli, – sta’ a vedere che a momenti precipita la volta.

Tenendosi più sicuro presso la parete, si aggrappò più saldamente che mai alle sbarre della feritoia.

Poco dopo, un altro masso, pure di dimensioni straordinarie, si staccava spezzandosi sul suolo roccioso della grotta.

Giovanni attese un lampo e guardò la volta. Altri enormi macigni, incassati gli uni addosso agli altri, e screpolati, minacciavano di cadere. La cosa si faceva seria e Giovanni si sentiva già stanco di rimanere attaccato alle traverse della feritoia. Era prudenza trovare un luogo acconcio per dormire, al sicuro di quei macigni vacillanti.

Con gran precauzione scese a terra, guardò attorno e visto, alla luce d’un lampo, una specie di cavo, vi si cacciò dentro e si sdraiò per dormire.

Ma qual notte? Il mare che aumentava sempre più, batteva con violenza estrema lo scoglio, e le sue onde erano tali, che gli spruzzi giungevano fino al cavo che serviva di rifugio al prigioniero, passando fra le feritoie.

Per di più il vento s’ingolfava con mille ululati nella caverna, i macigni rotolavano continuamente, con cupo rimbombo, sul suolo della grotta. Giovanni, rannicchiato nel suo rifugio, non osava muoversi; solamente di quando in quando toccava la volta del cavo, temendo che anche quella fosse lì lì per cadergli addosso.

Dopo una terribile notte venne il mattino, ma l’uragano non cessò: parea invece che aumentasse sempre.

Due ore dopo che fu giorno, una sentinella venne come al solito a portare al prigioniero un po’ di cibo: del riso bollito con pesce ed alcune frutta.

Vedendo quei macigni che ingombravano la grotta, gli chiese, con voce burlesca:

– Cosa hai fatto?

– È stato l’uragano, – rispose Giovanni.

– Una vera fortuna per noi, se qualche masso ti avesse mandato all’altro mondo, – disse uscendo.

– Manigoldi! – esclamò Giovanni. – Con simili uomini non posso sperare di certo la fuga.

Volendo accertarsi della violenza dell’uragano, si issò fino ad una delle feritoie.

Un’altra sentinella vegliava al di fuori e l’acqua cadeva a torrenti. Il mare era orribile e le onde balzavano fino contro le pareti esterne della caverna.

Giovanni era intento a guardare i progressi del maroso, quando la sentinella, nel volgersi, lo scorse. Si avvicinò alla feritoia, dicendogli:

– Che cosa fai lì?

– Temete che fugga? – disse Giovanni. – Vedete bene che non sono così magro da passare attraverso queste sbarre.

– Via di là, – comandò con voce aspra la sentinella.

– Che il diavolo ti porti.

– Ah! Non vuoi muoverti, bianco?

– Lasciami tranquillo.

– Ho l’ordine di farti fuoco addosso, se non obbedisci, – disse il malese, armando il suo moschetto.

Un sorriso beffardo sfiorò le labbra del prigioniero. Il malese puntò il suo fucile, gridando con voce minacciosa:

– Giù di là, o faccio fuoco.

– Provati – rispose Giovanni ridendo.

Il malese lo prese di mira, e fece scattare il grilletto, ma la polvere, umida per la pioggia, non si accese.

– Ebbene, tira, – disse Giovanni.

– Giù di là, giù, – urlò il malese minacciandolo colla canna del moschetto.

– Guardati che attiri il fulmine, – gli disse Giovanni, vedendo scintillare la canna del lungo fucile.

Il malese per tutta risposta alzò l’arma in alto, facendo atto di colpirlo.

Fu un lampo. Una striscia di fuoco balenò in cielo, poi un bagliore acciecante avvolse il fucile e l’uomo, mentre che un tuono spaventevole rimbombava. Il malese cadde; la folgore lo aveva colpito. Il disgraziato, nell’alzare il fucile, aveva attirata la scarica elettrica come un parafulmine.

Giovanni, spaventato, intorpidito dalla scarica, s’era lasciato cadere nella caverna.

Stava per ritirarsi nel suo cavo, quando udì risuonare nella galleria un fischio prolungato.

– Un segnale? – si chiese, arrestandosi.

Poco dopo udì dei passi che andavano avvicinandosi e arrestarsi presso la porta.

– Che vengano ad assassinarmi? – pensò.

Quasi nel medesimo istante la porta si aprì e comparvero due malesi. Dietro a loro veniva un uomo di colore, il quale si era fermato sulla soglia della porta.

– Entra, – gli dissero i due malesi spingendolo brutalmente nella caverna.

– Questa sarà la tua tomba, – aggiunse uno dei malesi.

Poi se ne andarono chiudendo la porta.

Il nuovo prigioniero e Giovanni si guardarono in silenzio.

L’oscurità era troppo profonda perché si potessero veder bene.

Dopo alcuni secondi però un lampo squarciò le tenebre, illuminando la grotta.

Giovanni mandò un grido e si slanciò verso il nuovo prigioniero, esclamando:

– Sandiak-Sin!

– Sì, – rispose sorridendo il prigioniero, Sandiak-Sin, il capo dei giavanesi di mare!