La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXV

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Capitolo XXV

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Capitolo XXV

La fuga

Dopo quelle due esclamazioni, successe per alcuni minuti un silenzio. I due prigionieri si guardavano l’un l’altro con stupore, come se non credessero ai loro occhi, di trovarsi l’uno di fronte all’altro.

– Ma come ti hanno cacciato qui? – chiese finalmente Giovanni rompendo il silenzio.

– Volevo domandarlo a voi, – disse Sandiak-Sin.

– Puoi immaginartelo chi può essere stato.

– Quel cane di Hamat-Peng, è vero signore?

– Lui, Sandiak.

– E anche io sono stato qui condotto dal malese.

– Da Hamat-Peng! – esclamò Giovanni meravigliato. – E per quale motivo? Io ignoravo che egli fosse tuo nemico.

– Non lo era infatti un tempo, ma ora credo che mi odii quanto detesta voi.

– E per quale motivo? – chiese Giovanni.

– Dopo che mercé vostra divenni capo dei giavanesi di mare, volli mantenere la promessa fattavi di cercare quel furfante di Hamat. Feci battere i dintorni, ma senza buon esito. In quel frattempo ebbi a sostenere alcune lotte con degli olandesi. I cannoni e le trincee del villaggio opposero una barriera insuperabile ai nemici. Più tardi, saputo della rotta di Nigoro, lasciai il villaggio per raccogliere le sue bande e anche colla speranza di poter avere nuove del malese. Saputo che era stato veduto nei pressi di Kormel, presi con me dieci uomini e mi misi in caccia, riuscendo, dopo mille pericoli, a scoprire il suo campo.

– Vi era un fanciullo con lui?

– Sì, un ragazzino di nove o dieci anni, certamente vostro figlio.

– Sì, il mio povero Carlo, – disse Giovanni con un sospiro.

– Scoperto il suo campo feci nascondere i miei uomini e strisciai per avvicinarmi al bandito. Mi ricordo ancora che stringevo il mio fedele kriss provandone la punta, quando da terra, nascosti fra i cespugli, si levarono alcuni uomini, degl’altri malesi, i quali mi piombarono sulle spalle e mi fecero prigioniero. Pensai che era inutile far uccidere i miei uomini e diedi loro l’allerta. Poco dopo Hamat mi fece abbandonare il campo, e imbarcare su d’un prahos e qui condurre scortato da una dozzina di quei furfanti.

– E di Nigoro, hai nuove? – chiese Giovanni.

– Credo che sia perduto.

– Perduto Nigoro! Lui, quell’uomo intrepido!

– Ascoltatemi, Cacciatore Nero. Nigoro, dopo la palla toccatagli, si era rifugiato sui monti con un quattromila fuggitivi della banda di Kedir-Peng, trincerandosi in una posizione fortificata. Colà raccolse altre bande, colle quali abbandonò i monti per scendere in pianura. Scontratosi con parecchi drappelli di olandesi li sconfisse a più riprese. Sconfisse pure una colonna forte di tremila uomini. Poco dopo diecimila olandesi piombarono su lui sconfiggendolo. Ora Diepo si trova sui monti con duemila uomini, circondato da sedicimila nemici.

– E Kedir-Peng? E le bande dei fuggitivi?

– Kedir-Peng fece come Nigoro. Con settemila uomini marciò contro gli olandesi, onde poter unirsi al capo dell’insurrezione. Per molto tempo riescì vittorioso e già sperava di accorrere in aiuto di Nigoro, quando, assalito da nemici numerosi, dovette ritirarsi verso il sud, raccogliendo però lungo la via nuove bande di fuggitivi e sollevando i distretti di Gratti e di Madoma. So che ora è alla testa di sessantamila giavanesi, marcia verso il nord per venire a liberare Diepo Nigoro. Temo però che non giunga a tempo. Circa diecimila uomini sono radunati presso le montagne, e stringono Nigoro in un cerchio di ferro.

– Maledizione! E noi non siamo liberi! – esclamò Giovanni.

– Spero signore, che non rimarremo però molto qui.

– Non sarà cosa facile, amico.

– Avete nessuna arma?

– Un misero coltello, appena capace di tagliare una pagnotta.

– Può bastare, signore.

– Sai che vi è una sentinella che veglia al di fuori?

– La uccideremo, – disse il giavanese.

– Eh via, non si può uccidere un uomo attraverso un buco, senza possedere almeno una pistola.

– Forse ho una buona idea che mi frulla pel capo, signore. Desidererei però prima osservare un po’ quelle due feritoie.

– Sono così strette da non permettere la fuga.

– Vediamo, – disse il giavanese che doveva avere la sua idea.

Senza servirsi dei buchi per appoggiare i piedi, con una agilità da scimmia si slanciò verso la feritoia, aggrappandosi strettamente alle sbarre. Aveva appena sporta la testa che mandò un grido di stupore.

– Cos’hai? – gli domandò Giovanni.

– Ci sono dei malesi al di fuori.

– Cosa fanno?

– Portano via un uomo; è morto senza dubbio.

– Ah, sì, la sentinella che è stata fulminata poco fa.

– Toh!... e perché non possiamo togliere queste sbarre di legno? Forse si può passare.

– Sono troppo dure perché sono fatte di legno tek, e poi l’apertura è troppo angusta.

– Giù di là, – gridò, in quel mentre, al di fuori una voce.

– Ah! Sei tu furfante! – gridò Sandiak-Sin. – Se non m’inganno guidavi il prahos che mi ha condotto qui!

Il malese, che doveva essere poco paziente, rispose con una fucilata e una palla fischiò agli orecchi di Sandiak-Sin, schiacciandosi contro la parete opposta della grotta.

– Giù, grandina! – gridò Giovanni.

– Ah! Cane d’un malese! – gridò Sandiak, lasciandosi ricadere precipitosamente. – Pare che qui non si faccia economia di polvere né di palle.

– Sei convinto che per quelle due aperture non è possibile fuggire?

– Bisognerebbe essere magri come i gatti selvaggi, – disse il giavanese.

– Fortunatamente credo d’aver un bel piano – disse Giovanni.

– Parlate, capo.

– Non sarà certamente facile, anzi sarà molto pericoloso, ma sono sicuro di riuscire.

– Se si arrischia di buscarsi una pugnalata non sono uomo d’aver paura, – disse Sandiak-Sin.

– No amico mio, si tratta di darne e non di riceverne.

– Tanto meglio, almeno avremo la soddisfazione di uccidere dei traditori. Gettate fuori il vostro piano!

– Si tratta di sorprendere il malese che deve portare i viveri.

– Sarà uno solo?

– Non sono mai venuti in due.

– Appena giungerà gli salteremo addosso e lo disarmeremo e poi usciamo per la galleria, e di notte abbandoniamo la nostra prigione.

– L’idea mi sembra buona, signore, ma all’estremità della galleria non vi sono degli altri uomini?

– Piomberemo di sorpresa su di loro, e tanto peggio per chi ci capiterà sotto le mani.

– Quando tenteremo il colpo?

– Domani mattina.

– Va bene, capo, io sarò pronto e deciso a tutto.

Calata la sera Sandiak-Sin si stese tra due sassi, Giovanni sul suo letto di foglie, e poco dopo entrambi russavano tranquillamente.

Al primo raggio di luce che fece capolino da una feritoia, Giovanni si svegliò. Con grande sua meraviglia, vide Sandiak-Sin che spiccava salti e che dava una infinità di colpi all’aria, con tutta serietà.

– Che cosa fai? – gli chiese Giovanni, ridendo suo malgrado delle grottesche posizioni del giavanese.

– Mi esercito per veder se i miei muscoli non hanno perduto nulla della loro elasticità, – rispose Sandiak-Sin.

– Lascia i tuoi muscoli e mettiamoci in agguato. Tra poco il malese incaricato di portarci i viveri sarà qui.

Così dicendo Giovanni si levò in piedi, si armò del suo temperino e andò ad appostarsi presso la porta, presso lo stipite destro, mentre Sandiak-Sin si metteva presso il sinistro.

– Che abbiano intenzione di farci morire di fame? – si chiese Sandiak-Sin.

– Taci! – esclamò in quel momento Giovanni. – Qualcuno s’avvicina.

Infatti dei passi sonori risuonarono nella galleria. L’uomo incaricato di portare i viveri si avvicinava lentamente.

– Devo ucciderlo? – chiese Sandiak a Giovanni.

Giovanni gli fece un segno negativo.

– Come volete, – mormorò il giavanese.

Un istante dopo il malese incaricato di portare le vivande entrava, colla sua solita calma.

Giovanni e Sandiak-Sin gli si avventarono addosso colla rapidità della folgore, stringendogli la gola onde non potesse gridare, poi lo rovesciarono a terra. Allora il primo, passandogli un ginocchio sul petto, e puntandogli il temperino alla gola, gli disse:

– Se mandi un grido sei morto.

Il malese stralunò gli occhi e cercò di cacciare una mano sotto la casacca. Sandiak-Sin fu però pronto ad afferrargliela e frugatolo gli trovò indosso un kriss, una splendida arma col manico intarsiato, e ornato di pietre e di smeraldi.

– Il kriss regalatomi da Nigoro! – esclamò Giovanni, mentre Sandiak lo appuntava alla gola del malese.

– Che volete da me? – chiese il povero diavolo, vedendosi perduto.

– Innanzi a tutto rispondi alle mie domande, – disse Giovanni.

– Parlate, – mormorò il malese.

– Quanti uomini vi sono di sentinella all’uscita della galleria?

– Volete fuggire?

– Il desiderio lo abbiamo, – disse Sandiak-Sin ridendo.

– Parla, – comandò Giovanni.

Il malese si agitò, ma non rispose.

Giovanni gli fece sentire la punta del temperino dicendogli:

– Vedi bene che ti uccido se ti ostini a non parlare.

Il malese cacciò un grido di dolore; di repente quando meno i due prigionieri se lo aspettavano, fece un movimento rapido e rovesciando il piantatore, balzò in piedi, correndo verso la porta.

– Uccidilo! O siamo perduti! – gridò Giovanni a Sandiak.

Il giavanese si avventò sul malese, e afferrandolo nel momento che varcava la porta, gl’immerse il kriss nel petto.

Il malese si appoggiò alla porta e aprì la bocca, come per gridare, ma uno sbocco di sangue gli uscì dalla bocca e stramazzò al suolo, senza mandare un lamento.

– Fuggiamo! – disse Giovanni, slanciandosi nella galleria.

Sandiak-Sin lo seguì, impugnando il kriss ancora lordo di sangue.

La galleria era assai oscura e così bassa che il giavanese, essendo assai alto di statura, doveva curvare il capo per passarvi.

– Quando sei entrato ti parve che fosse molto lunga questa galleria? – gli chiese Giovanni.

– Circa duecento metri, – rispose il giavanese.

– Il tratto mi pareva assai più lungo.

– Seguitemi signore, vi guiderò io.

Il giavanese prese Giovanni per una mano, e tutti e due s’inoltrarono silenziosamente.

– Ho contato centocinquanta metri, – disse il piantatore dopo qualche tempo.

– Non vedo ancora l’estremità né odo alcuna voce, – disse Sandiak.

– Eppure dobbiamo essere allo sbocco.

– Sapete signore che la galleria mi sembra più bassa di quando sono entrato?

– Non è possibile Sandiak.

– Anzi aggiungo che non ci vedo più, – disse il giavanese, fermandosi.

– Camminiamo egualmente.

– È impossibile: abbiamo un muro dinanzi.

Infatti la galleria era sbarrata da una roccia, o meglio da una parete rocciosa.

– Ci siamo smarriti – disse allora Giovanni.

– Così sembra, signore.

– Ritorniamo.

Il giavanese fece un fronte indietro, cercando di ritornare sui propri passi; cosa però alquanto difficile essendo la galleria oscurissima.

Infatti pochi minuti dopo trovarono un nuovo muro che sbarrava la via.

– Ma dove siamo noi? – esclamò il giavanese fermandosi nuovamente più stupefatto di prima.

– Pare che ci siamo rinchiusi fra quattro mura.

– Ritorniamo ancora, signore.

Il giavanese fece di nuovo un fronte indietro, seguito sempre da Giovanni. Dopo mezz’ora di girare e rigirare, ora volgendo a dritta e ora a sinistra, si trovarono dinanzi alla porta della grotta.

– Abbiamo fatto una gita inutile, – disse Sandiak-Sin ridendo.

– Forse questa volta ritroveremo la buona via, – rispose Giovanni.

– Lasciate che approfitti di questo ritorno per raccogliere i viveri che ci aveva portato il malese, – disse Sandiak, – ci possono essere preziosi più tardi.

Ripresero il cammino avanzandosi nuovamente nella galleria. Percorsi venti metri, Sandiak disse:

– Adesso comincio a veder chiaro. La galleria si divide in due rami, l’uno a destra e l’altro a sinistra.

– Pieghiamo a destra perché prima abbiamo piegato a sinistra, – disse Giovanni.

– Avete ragione signore, questa volta spero che usciremo a dispetto di tutte le gallerie del mondo.

Di passo in passo che s’allontanavano dalla caverna sentivano un’aria fresca e vivificante penetrare nei loro polmoni.

– Questa volta ci siamo – disse Sandiak-Sin.

– Zitto, ho udito delle voci umane, – disse Giovanni, arrestandolo per un braccio e tendendo gli orecchi.

– Oh! Oh! Sembra che ci siano parecchi uomini, – disse Sandiak-Sin.

– Andiamo innanzi con precauzione.

Procedendo lentamente e senza far rumore, poco dopo giungevano a pochi passi dall’uscita della galleria. Colà quattro malesi, appoggiati a dei lunghi fucili stavano discorrendo fra loro. Giovanni e Sandiak-Sin si fermarono e tesero gli orecchi.

– Dove si è cacciato quel maledetto Bahamo che non è ancora ritornato? – diceva uno dei quattro facendo gesti d’impazienza.

– Si sarà fermato a chiacchierare coi prigionieri – rispose un altro.

– Si potrebbe andare a vedere ciò che fa, – soggiunse il primo. – Può essergli capitata qualche disgrazia.

– T’accompagno, – disse un altro. – Questo ritardo dà a sospettare.

I due malesi armatisi dei loro moschetti si avviarono verso il fondo della galleria.

Giovanni afferrò Sandiak-Sin per la mano e lo trasse rapidamente indietro, finché trovò una cavità entro la quale si nascosero entrambi.

Un minuto dopo i due malesi passavano a qualche passo da loro, fortunatamente senza scorgerli.

Appena essi si furono allontanati, Giovanni e Sandiak-Sin uscirono dal loro nascondiglio.

– Bisogna agire subito o verremo scoperti, – disse il portoghese all’orecchio del suo compagno.

– Sì, piombiamo su loro col kriss – rispose il giavanese.

– Avanti prima che tornino gli altri.

Entrambi si avanzarono strisciando dietro i muri.

I due malesi appoggiati ai loro fucili, discorrevano fra loro, guardando l’apertura della galleria, cioè voltando le spalle ai due fuggitivi.

Un secondo dopo Giovanni e Sandiak-Sin, piombarono sui due uomini e mentre il primo, con forza sovrumana stringeva al collo una delle sentinelle e la soffocava, il secondo immergeva il suo kriss fra le spalle dell’altro uccidendolo. I due malesi caddero entrambi nel medesimo tempo, senza emettere un lamento.

Subito i prigionieri si precipitarono sui due cadaveri, strapparono loro i fucili e le munizioni, poi fuggirono con tutta la celerità che permettevano le loro gambe.