La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXIX

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Capitolo XXIX

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Capitolo XXIX

Il forte di Ampa

L’indomani, seicento uomini scelti fra i più caldi partigiani di Kedir-Peng ed un centinaio di giavanesi di mare con Sandiak-Sin, erano pronti a partire pel forte di Ampa.

Poco dopo il piantatore e Nigoro uscivano dalla tenda. Il primo, dopo alcuni passi si fermò e volgendosi verso il gran capo, gli disse:

– Nigoro, io ho giurato di salvare Kedir-Peng o di morire nell’impresa, è vero?

– Sì, – rispose Nigoro mestamente.

– Essendo probabile che io muoia nell’impresa....

– Non chiamate la sventura innanzi tempo, – lo interruppe Nigoro.

– L’uomo che va alla guerra, non è mai certo di tornare vivo, Nigoro.

– Lo so.

– Ascoltatemi Nigoro. Una notte fra le ruine di un incendio, giurai di vendicarmi di un uomo, o di morire nell’impresa. Fino a ora non ho potuto compierla, ma se muoio nell’assalto del forte di Ampa, la compierete voi?

– Sì, ma di quale vendetta volete parlare?

– Voi sapete perché io abbandonai la mia piantagione e voi sapete perché mi lanciai nel turbine della insurrezione. La causa della mia sventura ha un nome; non lo conoscete voi?

– Hamat-Peng, – disse Nigoro.

– Ditemi, Nigoro, se io domandassi al gran capo dell’insurrezione giavanese di vendicarmi, e di salvare mio figlio, in memoria dei servigi che gli resi, lo farebbe egli?

– Giovanni! E lo dubitate? – disse Nigoro.

– Grazie, Diepo. Se io dovessi morire, vendicatemi di Hamat-Peng, liberate mio figlio e prendetelo sotto la vostra protezione.

– Ve lo giuro, vi prometto di adottare vostro figlio.

– Grazie Nigoro, – mormorò Giovanni con voce soffocata. – Ora posso affrontare serenamente la morte.

Balzò rapidamente su un magnifico cavallo arabo, e lasciò il campo, seguito da Sandiak-Sin e dai seicento giavanesi.

Ben presto il piccolo esercito si trovò le montagne che separavano il campo di Nigoro dal mare. Il paese era deserto, privo di vegetazione, irto solo di enormi rocce dirupate, aride e arse dai cocenti raggi del sole. Un caldo terribile regnava fra quelle vallate. Non vi era né un cespuglio, né un albero che potessero dar riposo agli occhi affaticati e neppure un palmo di ombra. Una densa polvere sottile, impalpabile di cui era coperto il suolo arido, si levava come immensa nube e avvolgeva tutti, soffocandoli.

I cavalli non si avanzavano che con grandi stenti, essendo il terreno coperto di antiche lave e di lapilli, i quali cadevano incessantemente sotto gli zoccoli degli animali.

Anche gli uomini soffrivano assai. Coi volti bianchi dalla polvere, grondanti sudore, col respiro affannoso, tacevano ed eccitavano incessantemente i cavalli, perché li traessero presto da quel luogo che non a torto essi chiamano il cammino ardente.

Però, dopo quattro ore di quella marcia penosa sotto quel sole implacabile, essi scorsero i boschi che apparivano a due miglia innanzi. Cavalli e cavalieri si scossero, tutti si precipitarono sotto quei folti alberi, che promettevano un’ombra deliziosa. Venti minuti dopo essi accampavano in una piccola spianata, ombreggiata da alberi alti ottanta piedi. I gambir, i tek, i banani e i kijatil vi crescevano a profusione, e i giavanesi dopo di aver piantate le tende si diedero a saccheggiare gli alberi fruttiferi dei dintorni. Alcuni di essi uccisero parecchie antilopi rosse, le quali bastarono per provvedere la cena di quella sera. La notte passò in silenzio. Nessuno venne a turbare il sonno degli accampati.

Alla mattina essi ripresero la marcia, camminando a piedi, perché i boschi erano troppo folti. Alle dieci del mattino, salendo un’erta collina, essi scorsero il mare a tre miglia di distanza; e poco sopra scopersero pure il forte di Ampa, che sorgeva a breve distanza dalla riva.

Giovanni fece radunare in buon ordine i suoi seicento uomini e marciò diritto sul forte. Un’ora dopo essi s’accampavano a quattrocento metri dalla cinta.

Il forte di Ampa era ben costrutto e ben difeso. Piantato a pochi passi dal mare esso difendeva l’approdo e rendeva difficile gli assalti da parte di terra. Esso era circondato da una vasta muraglia merlata lunga quattrocento metri all’ingiro, e difesa da due grosse spingarde. Entro le mura si alzava un vasto fabbricato, in pietra, di forma rotonda, munito d’infinite feritoie e di fuciliere, e da dove la guarnigione poteva opporre una resistenza accanita.

Però se era ben costrutto, la guarnigione era debole, non contando che duecento persone.

In quel forte Kedir-Peng era tenuto prigioniero. Gli olandesi lo sorvegliavano attentamente, sapendo che egli era uno dei capi più celebrati e più popolari dell’insurrezione.

Appena gli olandesi scorsero i seicento giavanesi non si meravigliarono. Già da parecchi giorni si aspettavano la comparsa del nemico, ma confidavano nella robustezza e nella vantaggiosa posizione del forte. Essi si erano già preparati alla difesa; sebbene i viveri non fossero molti. Alla comparsa dei giavanesi essi si accontentarono di caricare le due spingarde, i fucili e di alzare la bandiera olandese sulla cima del forte.

Giovanni seguito da Sandiak-Sin che portava una bandiera bianca, si avvicinò al forte per trattar la resa. A trenta passi dalla cinta si fermarono, e Sandiak con voce robusta gridò:

– Pace, – e alzò la bandiera bianca.

– Olà, – gridò il comandante del forte sporgendo il capo dai merli. – Via di qui, è inutile trattar di resa. Spicciatevi o vi prenderemo a fucilate.

– Volete la guerra adunque? – gridò Sandiak-Sin, abbassando la bandiera bianca.

– Tutto quello che volete, fuorché la resa, – rispose il comandante.

– Non volete dunque renderci Kedir-Peng? – chiese Giovanni.

– Kedir-Peng! – ghignò il comandante.

– Sì, Kedir-Peng!

– Oh! Mai! Kedir-Peng deve venire a Batavia, mio bel bianco.

– Ebbene, è ciò che vedremo, – gridò Giovanni con gesto minaccioso.

– Sia pure, – rispose tranquillamente il comandante.

– Guerra! guerra! – urlò Sandiak-Sin, abbassando la bandiera e tornando rapidamente al campo, seguito da Giovanni.

Giunti colà, Giovanni si volse verso i giavanesi, gridando:

– Circondate il forte in tutti i punti, e impedite che nessuno possa entrare o uscire. Se noi non lo prenderemo d’assalto lo prenderemo almeno per fame.

I guerrieri si divisero in tante compagnie e circondarono tutto il forte, però dalla parte che guardava il mare dovettero in breve ritirarsi perché le due spingarde degli olandesi minacciavano di spazzarli.

Tuttavia se quella parte rimaneva libera, gli olandesi non potevano fuggire, non possedendo alcuna imbarcazione.

Quella prima giornata, nessun tentativo fu fatto dagli insorti; però l’indomani Giovanni fece fare preparativi per l’assalto. Tutti gli uomini furono muniti di scale di bambù costrutte in fretta, poi divisi in sei compagnie di cento uomini ciascuna.

Alle dieci del mattino i giavanesi, in buon ordine, col fucile in mano e il kriss fra i denti, mossero all’assalto.

Gli olandesi, visti i preparativi del nemico, si erano schierati dietro i merli delle mura, pronti a difendersi vigorosamente.

Quando gli assalitori furono a cento passi dalle mura, li accolsero con una viva scarica, a cui i giavanesi risposero bravamente. Appoggiate le scale con rapidità meravigliosa, i guerrieri si slanciarono all’assalto. Giovanni seguito da alcuni valorosi, toccò pel primo le mura e tentò di giungere sulla spianata interna; ma gli olandesi prontamente accorsi, impegnarono una lotta disperata, contrastandogli il passo.

Mentre egli, spalleggiato dai suoi, tentava di resistere per non farsi precipitare dalle mura, altri duecento giavanesi, protetti dal fuoco dei loro compagni, riuscirono pure a guadagnare la cima, correndo in suo aiuto.

La lotta era diventata terribile. Si battevano accanitamente su quella stretta muraglia, precipitandosi giù quando riuscivano ad afferrarsi. Le due spingarde facevano gran danno ai giavanesi, sicché Giovanni con un pugno di prodi, si precipitò sui pezzi, e dopo molta fatica riuscì ad impadronirsene, ma per poco, giacché gli olandesi ritornati alla carica più numerosi, ributtarono nuovamente gli assalitori.

Intanto altri giavanesi avevano guadagnata la cima della muraglia. Per dieci minuti gli olandesi si sostennero, poi si ripiegarono rapidamente e fuggirono nel vasto fabbricato. I giavanesi con Giovanni li seguirono in massa, sperando di poter entrare con loro, ma non giunsero a tempo. La grossa porta del forte fu sbarrata ed essi rimasero al di fuori.

– Bruciamo il forte, – gridò Giovanni.

– No, e Kedir-Peng? – esclamò Sandiak-Sin.

– Allora assaltiamolo.

Già i giavanesi appoggiavano le scale per entrare dalle feritoie, quando una grandine di palle venne a colpirli in pieno.

Gli olandesi, riparati dietro le feritoie, facevano fuoco quasi a brucia-pelo, spazzando le muraglie già coperte d’assalitori.

Era impossibile che i guerrieri di Diepo-Nigoro potessero resistere a simile tempesta di piombo. Giovanni comprese subito l’impossibilità di continuare l’attacco se prima non venivano diroccate le muraglie del fabbricato.

Postosi alla testa di alcuni valorosi, per sostenere la ritirata, comandò di sgombrare onde non esporre quei bravi a delle perdite inutili.

I giavanesi, pur fremendo di rabbia per quell’insuccesso, mentre già speravano nella vittoria, abbandonarono le mura e si ripiegarono sul campo mentre gli olandesi salutavano quel felice risultato con frenetiche grida.