La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXVIII

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Capitolo XXVIII

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Capitolo XXVIII

Il ritorno fra i giavanesi

La piroga, leggiera e agile come una penna, si comportava benissimo, malgrado le ondate.

Il vento, che si manteneva costante, soffiava sempre dall’est e la spingeva con notevole velocità verso le coste giavanesi.

Tutta la notte essi navigarono dirigendosi verso il nord di Giava, contando di approdare possibilmente al villaggio fortificato di Sandiak-Sin.

– Cacciator Nero, mi pare di scorgere il mio villaggio! – gridò Sandiak verso le nove del mattino.

– I tuoi occhi non s’ingannano, – disse Giovanni.

– Guardate, vedo anche numerosi uomini sulla spiaggia.

– E anche dei prahos, – disse il naufrago.

– Il vento ci spinge, e fra poco approderemo, – disse il piantatore che si era alzato, per meglio manovrare il remo che serviva da timone.

Venti minuti dopo giungevano a trecento metri dal villaggio.

– Guardate, sono i miei uomini! – gridò Sandiak battendo le mani. – Io li distinguo già.

– Ed io scorgo dei cannoni che sono puntati verso di noi, – disse Giovanni sorridendo.

– Olà! amici! amici! – gridò Sandiak-Sin levandosi in piedi e facendo mille gesti. – Non conoscete più il vostro capo?

Si udirono delle esclamazioni di gioia alzarsi dalla spiaggia e poco dopo i tre naviganti sbarcavano in mezzo alle grida entusiastiche di tutti i giavanesi di mare.

– Il Cacciator nero! Il Cacciator Nero! – gridavano affollandogli attorno.

– Sandiak, il nostro capo! – gridavano altri stringendo la mano al bravo e valoroso giavanese.

– Alla capanna, – ordinò Sandiak.

Alcuni sotto-capi li seguirono tosto, mentre tutti gli altri si fermavano al di fuori, esprimendo la loro gioia con canti e danze, accompagnate dai suoni acuti dei serdoug.

– Che nuove di Nigoro? – domandò Giovanni appena si fu seduto.

– Buone, gran capo; buone, buone, – rispose uno dei tre giavanesi.

– È riuscito a liberarsi dagli olandesi che lo assediavano?

– Sì, Kedir-Peng, con un forte esercito ha assalito gli olandesi alle spalle, costringendoli a prender la fuga. La battaglia fu feroce, ma i nemici furono sconfitti, lasciando un gran numero di morti.

– E ora, cosa fa Nigoro? – domandò Sandiak-Sin.

– Si è messo alla testa di sessantamila uomini, e pare che voglia marciare su Samarang. Tutte le bande d’indigeni sparse per l’isola accorsero frettolose sotto la sua bandiera.

– Sai dove si è accampato? – domandò Giovanni.

– Ieri mattina si trovava a dodici miglia da qui, in una bella posizione, pare che egli aspetti altre bande.

– E Kedir-Peng è con Nigoro?

– No, Kedir-Peng con una colonna di cinquantamila uomini, è in marcia verso l’est per sbaragliare alcune colonne olandesi trincerate nei boschi che cingono Samarang.

Ad un tratto la fronte di Giovanni si oscurò.

– E di Hamat-Peng, non sapete nulla? – chiese.

– Lo abbiamo veduto pochi giorni or sono.

– E non lo inseguiste? – gridò Sandiak-Sin.

– Gli abbiamo data una caccia accanita. Egli si trovava a bordo d’un grosso prahos, armato di tre cannoni e montato da quaranta uomini. Appena avvertiti della sua presenza, lo inseguimmo coi nostri vecchi velieri ma, malgrado i nostri sforzi non lo potemmo raggiungere. Sparammo le nostre spingarde uccidendogli parecchi uomini, poi lo perdemmo di vista.

– Dove andava?

– Verso Sourabaya, ci parve.

– Maledetto malese! Me la pagherà cara se mi cade fra le unghie! – esclamò Sandiak-Sin.

– Lasciamo per ora quel cane e andiamo al campo di Diepo-Nigoro, – disse Giovanni. – Più tardi penseremo a trovarlo.

– Si preparino dei cavalli ed una scorta, – ordinò Sandiak.

Dieci minuti dopo, dodici cavalli scalpitavano dinanzi alla capanna.

Sandiak-Sin, Giovanni e dieci uomini, scelti fra i più valorosi, salivano in sella e lasciavano il villaggio, seguiti per qualche po’ da tutta la popolazione esultante che gridava:

– Ritornate presto!

La marcia fu faticosa, ma breve. I cavalli, malgrado gli ostacoli che offrivano le foreste cattive, divorarono le dodici miglia in tre ore. Alle due dopo il mezzogiorno, i cavalieri poterono scorgere il campo di Diepo-Nigoro, il quale era stato piantato su di un immenso altipiano. La bandiera del gran capo sventolava sulla cima della tenda principale. A poca distanza dal campo i cavalieri furono fermati da alcune sentinelle giavanesi, ma appena riconobbero Giovanni, mandarono un’esclamazione di giubilo, urlando a squarciagola:

– Il Cacciator Nero! Il Cacciator Nero!

Due minuti dopo, Giovanni entrava nel campo, fra gli evviva delle bande giavanesi che accorrevano da ogni angolo del campo per salutarlo.

– Il Cacciator Nero! Il Cacciator Nero! – gridavano tutti quegli uomini, urtandosi a vicenda l’un l’altro, per salutarlo.

– Alla tenda di Nigoro! – gridò Giovanni, accennando che sgombrassero la via.

I giavanesi si ritirarono in fretta per lasciargli libero il passo, affinché il piantatore potesse giungere rapidamente alla tenda.

Il gran capo giavanese era intento ad esaminare una carta di Giava. Al rumore però che fece il piantatore nell’entrare, si volse rapidamente, mandando un’esclamazione di meraviglia:

– Voi, Giovanni! – balbettò egli, levandosi in piedi e stringendogli calorosamente la mano.

– Nigoro! – gridò il piantatore.

– Non era adunque vera la vostra morte?

– Come vedete, sono ancora vivo.

– E allora ove siete stato tutto questo tempo? Al campo correva la voce che gli olandesi vi avessero ucciso.

– Sono stato, fino a pochi giorni fa, relegato in un’isola lontana, laggiù verso l’oriente.

Nigoro fe’ un gesto di meraviglia.

– Ma da chi? – chiese.

Una nube oscurò la faccia di Giovanni.

– Dovreste indovinarlo, – disse.

– Da Hamat-Peng, forse?

– Sì, da lui, – disse Giovanni con voce cupa.

– Maledetto malese! È il demonio costui? E di vostro figlio, cosa è avvenuto?

– Si trova sempre prigioniero di Hamat.

– Appena gli olandesi mi concederanno un po’ di tregua, ci occuperemo di quel miserabile malese, – disse Nigoro. – Vivaddio!... la sua punizione sarà tremenda!

– Grazie, Nigoro, – disse il piantatore. Poi, cambiando tono: – E Kedir-Peng, dov’è?

– È partito da otto giorni per assalire Samarang, ma questa prolungata tardanza, senza aver sue notizie, incomincia ad inquietarmi assai.

– Mandate alcuni esploratori.

– È impossibile. Intorno all’accampamento i cacciatori olandesi formicolano.

– E perché non mandate alcune colonne a sbaragliarli?

– Sacrificherei molti uomini per ucciderne un centinaio, che...

Ei non finì la frase. Una scarica di moschetteria era improvvisamente echeggiata in lontananza.

– Cosa vuol dir ciò? – esclamò Giovanni.

– Che i cacciatori olandesi cerchino di forzare le mie linee? – disse Nigoro, uscendo.

Tutto il campo era in movimento. Tutti accorrevano verso gli avamposti, dove si vedeva alzarsi del fumo e dove si udivano delle fucilate.

Nigoro, seguito da Giovanni, si diresse da quella parte. I giavanesi, appena li scorsero, gli aprirono rispettosamente il passo.

Scorgendo alcuni capi, Nigoro si volse verso di loro, dicendo:

– Che cosa avviene laggiù?

– Non lo sappiamo, gran capo. Abbiamo udito delle fucilate e ci parve intendere delle grida di bande giavanesi.

– Che giungano degli amici? – chiese.

– Non lo sappiamo.

– Che duecento uomini mi seguano.

Duecento giavanesi balzarono a cavallo, e Nigoro e Giovanni montati anch’essi su due rapidi corsieri, abbandonarono il campo, dirigendosi verso il luogo ove rombavano le fucilate. Di passo in passo che si avvicinavano, le fucilate diventavano più frequenti e udirono pure delle grida che parevano mandate da olandesi e da giavanesi.

– Adagio! – gridò ad un tratto Nigoro. – Ecco il nemico!

Alcuni drappelli di olandesi, trincerati fra gli alberi, erano intenti a sparare contro un gruppo di uomini, che cercava di accostarsi all’accampamento giavanese.

– Fuoco! – urlò Nigoro, scaricando il suo fucile.

Duecento spari rimbombarono, formando una sola detonazione.

Una quarantina di olandesi caddero, e gli altri si diedero alla fuga, disperdendosi pel bosco.

– Amici! amici! – gridò Nigoro lanciando il suo cavallo verso una banda di coloro che stavano dall’altra parte.

– Il gran capo! – esclamarono quegli uomini, uscendo dal bosco e correndo verso Nigoro.

D’un tratto Diepo rattenne violentemente il cavallo; i suoi occhi lanciarono fiamme. Con voce rauca gridò:

– Uomini delle bande di Kedir-Peng!

– Sì, apparteniamo alle sue bande, – risposero quei guerrieri.

– E Kedir-Peng?

– Sconfitto! Battuto!

– Battuto! Lui! – esclamò Nigoro con dolore.

– Ottomila olandesi ci hanno assaliti improvvisamente e dopo due ore di lotta, abbiamo dovuto fuggire, – disse il capo di quegli uomini.

– E Kedir-Peng, ov’è egli?

– Kedir-Peng! – esclamarono i fuggitivi graffiandosi la faccia con rabbia.

– Morto forse? – domandò Nigoro, coll’occhio fiammeggiante e i pugni stretti.

– È caduto nelle loro mani.

– Prigioniero! – esclamarono Nigoro e Giovanni ad un tempo.

– È stato rinchiuso nel forte di Ampa, a otto miglia da qui, presso la riva del mare.

– Bisogna liberarlo! – esclamò Nigoro.

– Sì. Andrò io a salvarlo, – disse Giovanni con calore.

– Silenzio, e guai chi parla! – gridò Nigoro volgendosi verso tutti i suoi uomini, poi spronato il cavallo, si rimise in marcia per ritornare al campo.

Tutti gli uomini lo seguirono in silenzio. La sconfitta del prode Kedir-Peng aveva scoraggiato quasi tutti.

Mentre tornavano, Giovanni si avvicinò a Nigoro e gli disse:

– Perché volete tacere? Perché non volete che nel campo si sappia la prigionia di Kedir-Peng? Io credo che palesandolo gli animi si esalterebbero.

– No, Giovanni. Nel campo vi sono più di quindicimila partigiani di Kedir-Peng, e se sapessero che egli è prigioniero tutti diserterebbero per andare a liberarlo.

– Ma non siete voi il capo assoluto dell’esercito?

– È vero e potrei impedire loro di muoversi, ma sarei certo che comincerebbe il malcontento. Voi non sapete quanto sia difficile comandare le bande indisciplinate degl’insorti.

– Forse avete ragione, – mormorò Giovanni.

Dieci minuti dopo si giungeva all’accampamento. I capi e i soldati si affollarono tutti attorno a Nigoro, interrogandolo collo sguardo, non osando domandargli direttamente. Nigoro comprese e rizzandosi sulle staffe con voce robusta gridò:

– Amici, Kedir-Peng ci ha mandato questa piccola banda per avvertirci delle sue vittorie. Egli ci chiede dei rinforzi per continuare la campagna e domani glieli manderemo.

– Viva Kedir-Peng! Viva Nigoro! – urlarono gl’insorti agitando le armi con frenesia.

Nigoro lasciò che sfogassero il loro ardore guerriero, e si ritirò con Giovanni nella tenda. Appena entratovi, prese il piantatore per la mano e con voce dolce e commossa gli disse:

– Giacché vi siete offerto, domani partirete con seicento guerrieri e andrete ad assalire il forte di Ampa. Sacrificate se occorre tutti gli uomini, assaltate giorno e notte il forte, mandate a chiedere rinforzi se occorre, ma liberate Kedir-Peng.

– Contate su di me, Nigoro. Egli mi ha salvato una volta la vita, in un momento terribile, e sebbene io avessi fatto altrettanto con lui molto tempo fa, prima ancora che lo conoscessi, lo salverò una seconda volta. Se occorre sacrificherò tutti gli uomini, mi farò uccidere, ma Kedir-Peng sarà libero.

– Grazie Giovanni.... ma cosa sono questi clamori? – disse Nigoro tendendo gli orecchi.

Si udivano pel campo delle vociferazioni che andavano crescendo. Tutto il campo era in moto. I guerrieri afferravano le armi, e correvano verso la tenda di Nigoro urlando:

– Nigoro salva Kedir! Nigoro salva Kedir!

Poi quella massa d’uomini andò a urtare, come marea crescente, la tenda di Nigoro, gridando sempre:

– Nigoro salva Kedir-Peng!

A quelle grida, una fiamma di collera salì sul viso del gran capo. Afferrato un fucile uscì dalla tenda.

I suoi sguardi lanciavano lampi di collera, mentre che il suo corpo fremeva di rabbia. Giovanni non avea mai visto Nigoro in preda a simile scoppio di furore.

Nigoro, appena uscito dalla tenda, si piantò, e tendendo con moto minaccioso il pugno verso tutte quelle genti armate, con voce tonante gridò:

– Insensati, cosa volete? Chi osa di trasgredire i comandi del capo? Chi sono adunque io? – e col volto minaccioso si avanzava verso i guerrieri che indietreggiavano rapidamente dinanzi a lui. – Orsù, cosa volete?

– Kedir-Peng, – mormorarono tutti quegli uomini.

– Kedir-Peng? Chi è che mi ordina di liberarlo? – e i suoi occhi lanciavano lampi, mentre che le sue mani stringevano convulsivamente il fucile.

Vedendo che nessuno osava parlare, raddolcì alquanto la sua voce e riprese:

– Avevo già dato ordini perché domani partissero degli uomini a liberar Kedir-Peng, ma non avrei mai creduto che i miei guerrieri venissero a domandarmelo.

Gli insorti non fiatavano; rimanevano immobili, dominati dalla presenza del capo.

– Ritiratevi, – gridò Nigoro con gesto imperioso.

I guerrieri si affrettarono a sgombrare.

Nigoro prendendo per una mano Giovanni e accompagnandolo nella tenda gli disse:

– Vedete ora quanto sia difficile comandare eserciti d’insorti. Se io avessi lasciato passar oltre questa dimostrazione, la mia autorità sarebbe stata finita.