La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXXII

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Capitolo XXXII

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Capitolo XXXI Capitolo XXXIII

Capitolo XXXII

La liberazione di Kedir-Peng

Mentre il vascello olandese si allontanava salutato dalle ultime fucilate degl’insorti, Giovanni e Sandiak, ritiratisi nella cabina a loro assegnata, facevano i loro piani per liberare prontamente Kedir-Peng prima che la nave si allontanasse troppo da quelle spiagge.

Era necessario agire senza perdita di tempo, onde non suscitare qualche sospetto e mettere in guardia gli olandesi, ormai troppo numerosi per poterli affrontare in campo aperto.

– Bisogna giuocare d’astuzia e tentare il colpo questa sera istessa, – disse Giovanni al giavanese.

– Io ed i miei compatriotti siamo pronti a tutto, – rispose Sandiak. – Basta che voi esponiate il vostro piano.

– Hai notato dove è stato chiuso Kedir?

– Sì, in una cabina del quadro.

– Vi sono delle sentinelle?

– Una, capo.

– Mi sarà facile spacciarlo od allontanarlo per un momento dalla cabina, – disse Giovanni. – Questa sera, quando tutti dormiranno, noi scenderemo nel quadro, e appena sbarazzatici della sentinella, forzeremo la porta di Kedir.

– E poi? – chiese Sandiak.

– Poi chiuderemo tutti i boccaporti, onde impedire ai soldati di irrompere in coperta, e verremo alle mani cogli uomini di guardia. Siamo in cento, ci sarà quindi facile ridurli all’impotenza. Padroni della nave, metteremo in acqua le scialuppe e sbarcheremo sulla costa più vicina. Io, da parte mia, cercherò possibilmente di fare un bel giuoco al timoniere. Va’, avverti i nostri bravi guerrieri di tenersi pronti, e bada di non lasciar trapelare nulla agli olandesi.

– Contate su me, capo, – rispose il giavanese, uscendo per tornare in coperta.

Poco dopo anche il piantatore lasciava la cabina per salire sul ponte. Stava attraversando il quadro, quando vide una porta socchiudersi e comparire una testa.

Giovanni trasalì.

– Che sia spiato?

La testa era subito scomparsa, non così presto da impedire a Giovanni di riconoscere in quel viso il comandante del forte.

– Che quell’uomo diffidi di me? – si chiese il piantatore con inquietudine.

Salì in coperta e si mise a passeggiare, ora avvicinandosi ai marinai che discorrevano a prora, ed ora avvicinandosi agli olandesi che stavano a poppa.

Dopo qualche tempo, visto Sandiak-Sin avviarsi verso il cassero, gli fece cenno di avvicinarsi.

Costui finse di non aver compreso nulla, ma poco dopo passò vicino a Giovanni, quasi toccandolo.

– Sei spiato, – gli soffiò questi all’orecchio.

Sandiak fe’ un cenno col capo, e fischiando fra i denti, andò a unirsi a una quarantina di olandesi.

Giovanni rimase tutto il giorno sul ponte, onde non provocare dei sospetti.

Alla sera tutti andarono a dormire eccettuati Giovanni e una dozzina di uomini che rimasero di guardia. Il piantatore avrebbe voluto approfittare di quel momento per sbarazzarsi di costoro, ma la tema di precipitare troppo le cose, lo consigliò ad attendere.

A mezzanotte egli si avvicinò alla barra del timone, e vedendo che la sorvegliava un sol uomo, gli ordinò d’andarsene coi compagni, volendo dirigere personalmente la nave.

– Ma voi non siete uomo di mare, – disse il marinaio.

– V’ingannate, amico mio, fui ufficiale di marina, e me ne intendo quanto il vostro capitano. Lasciate a me la barra, conoscendo questi paraggi meglio di voi.

Il marinaio gli cedette il posto, contento di andarsene a prora a fumare coi compagni.

Un sorriso di trionfo apparve sulle labbra del piantatore.

Dopo essersi accertato che nessuno lo vedeva, mise la barra sottovento, dirigendo il vascello verso terra. All’una del mattino, ei vide dei frangenti, i quali segnavano le vicinanze della costa.

Allora virò dolcemente di bordo, e mentre che i marinai di guardia continuavano a chiacchierare ed a bere, diresse il vascello non più al nord-ovest, ma verso il sud, per avvicinarsi più che poteva al forte di Ampa, dove i cinquecento giavanesi dovevano aspettarlo.

Alle tre del mattino scorse in lontananza alcuni fuochi che sembravano dei falò.

– Sono i giavanesi, – mormorò egli.

Quasi subito udì un fischio modulato.

Delle nere ombre uscivano in silenzio dal boccaporto di prora e strisciavano lungo le murate.

– Eccoci capo, – disse Sandiak accostandosi.

Giovanni comandò ai suoi uomini di tenere occupati gli uomini di guardia onde di nulla si avvedessero, poi impugnò il kriss e discese la scala che conduceva al quadrato di poppa, cioè alla prigione di Kedir-Peng.

Il momento decisivo era giunto, ed egli si preparava ad affrontarlo risolutamente.

– Chi siete? – domandò la sentinella, vedendolo avvicinarsi.

– Io, Van Dik, – rispose Giovanni.

Il soldato gli presentò l’arma e rimase immobile per attender gli ordini.

– Va’ sul ponte, dove sei atteso da uno dei tuoi ufficiali, – disse Giovanni. – Intanto veglierò io.

Il soldato depose il fucile e s’allontanò lentamente.

Giovanni osservò la porta. Essa era chiusa da due soli catenacci. Ne tirò uno, e già stava per far lo stesso dell’altro, quando una larga mano gli si appoggiò sulla spalla.

Si volse subito, come se fosse stato morso da una serpe, e soffocò un grido di rabbia, mentre impallidiva orribilmente.

Il comandante del forte di Ampa gli stava vicino.

– Ove andate? – gli chiese l’olandese con un sorriso che metteva i brividi.

– Da Kedir-Peng, – rispose freddamente Giovanni che si era rimesso.

– Van Dik, cosa volevate fare?

– Mi pareva di aver udito uno strano rumore, e temendo che il giavanese tentasse fuggire, sono qui venuto.

– E la sentinella, dove l’avete mandata? – chiese l’olandese con ironia.

– Non so nulla della sentinella, – rispose Giovanni. – Qui non vi era.

In quell’istante udirono un sordo gemito risuonare sul ponte, seguito poi da un rumore come d’un uomo che cade.

L’olandese si avvicinò vieppiù a Giovanni, con una faccia terribile.

Giovanni rabbrividì suo malgrado, ma rimase immobile colla mano sul manico del kriss.

– Avete udito? – chiese l’olandese.

– Sì.

– Sapete cosa sia stato?

– No, e non me ne importa.

– Ebbene, ve lo dirò io, – continuò l’olandese.

– Finitela, signore; che volete da me? Spiegatevi.

– L’uomo che ha mandato quel sordo gemito è stata la sentinella. I vostri giavanesi l’hanno uccisa.

– Ah! Voi sapete questo? – gridò Giovanni.

– Van Dik, sei mio! – urlò il comandante.

Una pistola gli brillò nella mano, e seguì una detonazione accompagnata da un grido di rabbia.

Il piantatore aveva veduto a tempo l’arma e si era gettato prontamente da un lato, evitando la palla che doveva attraversargli il petto.

D’un balzo fu addosso al comandante col kriss in mano, e glie lo cacciò sino al manico nella gola. Un fiotto di sangue nero uscì dall’ampia ferita, e l’olandese stramazzò al suolo fulminato.

Quasi subito sul ponte si udirono rimbombare degli spari, delle grida e un rumore di corpi che cadevano.

Giovanni si precipitò verso la porta della prigione, con un calcio violento l’atterrò, e vi si lanciò dentro.

Kedir-Peng, in piedi in mezzo alla prigione, parea che ascoltasse i rumori che venivano dal di fuori. Alla vista di quell’uomo che entrava con un kriss rosseggiante in mano, indietreggiò vivamente, temendo che lo volesse uccidere.

– Kedir-Peng! – esclamò Giovanni.

– Tu, Giovanni! – gridò il giavanese, precipitandosi nelle braccia del piantatore.

– Presto, vieni, bisogna fuggire subito, – disse Giovanni, porgendogli una pistola.

– Grazie, Giovanni, – mormorò Kedir-Peng. – Non scorderò mai che devo a te la libertà e forse anche la vita.

– Taci e seguimi se non vuoi perderci.

Appena giunti alla scala, udirono dei passi che si avvicinavano, mentre sul ponte le fucilate rimbombavano con crescente fragore.

– Presto, gli olandesi stanno per giungere! – esclamò Giovanni lanciandosi sul ponte.

Kedir-Peng lo seguì.

Chiuso il boccaporto del quadro, onde impedire agli ufficiali di salire in coperta, Giovanni e Kedir-Peng si slanciarono verso prora, dove i giavanesi erano affaccendati a respingere una ventina di marinai che erano usciti dalla camera comune.

– Addosso! – urlò Giovanni.

– Giava! Giava! – gridò Kedir-Peng.

Un lungo urlo entusiastico tenne dietro alla comparsa di Kedir-Peng. Tutti i giavanesi si gettarono come tanti demoni sui nemici, e poterono ricacciarli nella camera di prora, e chiudere il boccaporto.

– In acqua le imbarcazioni! – comandò Giovanni.

Le otto lancie dopo alcuni istanti galleggiarono intorno al vascello.

– Gettate i cannoni in mare!

Le artiglierie e buon numero di fucili furono precipitati nei flutti.

– In barca ora! – comandò Giovanni.

Tutti i giavanesi presero posto nelle imbarcazioni. Giovanni e Kedir s’imbarcarono alla lor volta, e le otto scialuppe si allontanarono rapidamente, dirigendosi verso terra.

Dei rumori e delle grida soffocate si levavano talvolta dal vascello. Erano gli olandesi che si sforzavano di rompere i boccaporti.

Quando i giavanesi furono a duecento metri da terra, sul vascello videro degli uomini correre come indemoniati, ma ormai se ne ridevano, poiché le rovine del forte d’Ampa erano in vista. Mezz’ora dopo, Kedir-Peng, Giovanni, Sandiak e gli altri prendevano terra, accolti dalle bande accampate, con strepitose acclamazioni.

– Evviva Kedir-Peng! Evviva il Cacciator Nero! – urlavano tutti, in preda ad un vero delirio.

Dopo tre ore di riposo, tutta la truppa con Giovanni e Kedir-Peng alla testa abbandonava le ruine del forte di Ampa dirigendosi verso l’accampamento di Diepo-Nigoro.

Fu una marcia trionfale quella che fecero. In ogni luogo abitato, in ogni posto di giavanesi, essi venivano accolti con grande entusiasmo.

Dopo due giorni di marcia faticosa, in mezzo a boschi, a radure e a monti, essi giungevano al campo di Diepo-Nigoro.

Sarebbe impossibile descrivere con quali dimostrazioni di gioia vennero accolti dai guerrieri e da Diepo-Nigoro. Le grida di: – Viva Nigoro! Viva Kedir! Viva il Cacciator Nero! – risuonarono per trenta miglia all’ingiro. I boschi e i monti ne ripeterono i nomi e le scariche dei fucili, tirate in onore dei tre grandi capi.

Giovanni fu salutato da tutti col titolo di gran capo, pari al titolo di Kedir-Peng, e gli fu affidato il comando di dieci bande di cinquecento uomini ciascuna.

Alla sera, nella tenda di Nigoro, fu dato un banchetto straordinario, fra gli spari delle armi da fuoco e il suono dei serdoug e dei tam-tam.

Tutti i capi dell’armata giavanese vi presero parte.

Alla mezzanotte, quando il banchetto stava per finire, Kedir-Peng si alzò in piedi, e avvicinandosi a Giovanni che gli sedeva in faccia, e poggiandogli le mani sulle spalle, disse:

– Giovanni, tu mi hai salvato dalla prigionia, dal disonore e forse dalla morte. Ora spetta a me contraccambiarti.

– Cosa vuoi dire? – chiese il piantatore.

– Giovanni, perché sei venuto al campo di Nigoro, e perché hai abbandonato Batavia?

La fronte di Giovanni s’increspò, un amaro sorriso gli contrasse le labbra, e levandosi in piedi pallido e terribile, mormorò:

– Per compiere una vendetta e per salvare un fanciullo, mio figlio.

– Ebbene, hai scoperto quell’uomo?

– No, – disse Giovanni con accento cupo.

– Ebbene, se io non lo troverò, non sarò più Kedir-Peng.

– Cosa vuoi fare, Kedir?

– Giovanni, dieci giorni fa tu promettevi a Nigoro di salvarmi o di morir nell’impresa; ebbene, oggi sono io che ti faccio questa promessa.

– Ma tu non sai ove si trova quell’uomo.

– Lo cercherò e lo troverò: addio, fratello, – disse Kedir uscendo rapidamente dalla tenda.

Giovanni, Nigoro e tutti gli altri si levarono.

Kedir-Peng era salito su un cavallo, e seguito da due uomini, s’allontanava rapidamente verso il sud.