La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXXIII

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Capitolo XXXIII

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Capitolo XXXII Capitolo XXXIV

Capitolo XXXIII

Sulle tracce del malese

Parecchi giorni erano trascorsi dopo la partenza del gran capo giavanese, ma più nessuna notizia era giunta all’accampamento.

Giovanni, impaziente, aveva pregato Nigoro di mandare parecchi corrieri in diverse parti dell’isola per avere notizie dell’amico, ma anche quegli uomini erano ritornati senza aver apportata alcuna nuova che potesse soddisfare l’ansietà crescente di lui.

Era però stato segnalato in diverse provincie, specialmente in quelle meridionali. Alcuni lo avevano veduto a Samarang, altri a Djokio-Karta ed altri ancora più lontano, verso Patizitan, una delle città più lontane dall’accampamento degli insorti.

Già Giovanni cominciava a disperare ed anche a temere che l’amico ed i suoi due uomini fossero caduti in qualche imboscata tesa dal malese o che fossero stati presi dagli olandesi, quando un mattino, mentre stava visitando il campo assieme a Nigoro, fu avvertito che Kedir era stato segnalato a non molta distanza da Kumbat.

Essendo quella località assai vicina all’accampamento degl’insorti, si affrettò a salire a cavallo per andarlo a cercare.

Nigoro, volendo visitare gli avamposti, s’era offerto di tenergli compagnia.

Avevano appena attraversate le ultime linee, quando videro tre cavalieri avanzarsi di galoppo, seguiti a breve distanza da una piccola scorta di giavanesi.

– Kedir-Peng! – gridò Giovanni. – Finalmente!

Il capo giavanese, poiché era proprio lui, in breve tempo giunse presso Giovanni e Nigoro.

– Era tempo che io ritornassi, è vero amici? – diss’egli, stringendo la mano ai due capi.

– Dunque? L’hai trovato? – chiesero ad una voce Nigoro e Giovanni.

– Sì, l’ho trovato.

– E mio figlio? – gridò il piantatore.

– È vivo.

– Lo hai veduto?

– Come ora vedo te.

– Non lo ha maltrattato quel miserabile schiavo?

– Non lo credo, Giovanni. D’altronde non aveva alcun interesse a farlo.

– Partiamo subito, Kedir!

– Calmatevi, Giovanni, – disse Nigoro.

Poi, volgendosi verso Kedir, gli chiese:

– Dove si trova questo Hamat-Peng?

– A trenta miglia da qui, presso il vulcano di Guidi, – rispose Kedir-Peng.

– Quanti uomini ha con lui?

– Otto malesi.

– Allora prendetene almeno venti con voi e partite subito, onde non vi sfugga.

Un istante dopo, venti giavanesi, Kedir-Peng, Sandiak e Giovanni erano pronti a partire.

Nigoro si avvicinò al piantatore. La sua faccia era malinconica.

– Addio, Giovanni, – mormorò egli stringendogli la mano.

– Addio, Nigoro, addio.

Entrambi si guardarono in silenzio, i loro volti erano tristi.

Un funesto presentimento li agitava forse tutti e due.

Alla fine Giovanni si rizzò sulle staffe, salutò un’ultima volta Nigoro, il quale gli rispose con un:

– Dio ti aiuti!

Il catalano cacciò gli sproni nel ventre del cavallo e partì seguito da Kedir e dal drappello. Quando fu a duecento metri dalla tenda di Nigoro si volse indietro e sentì uno stringimento di petto.

Cosa strana, Nigoro, il gran capo dell’insurrezione giavanese, si asciugava delle lagrime.

– Che io non debba rivederlo più mai? – si chiese Giovanni. – Quale funesto presentimento può turbare l’anima del capo dell’insurrezione giavanese?

Ricacciò in fondo al cuore quei tristi pensieri e raggiunse Kedir-Peng e Sandiak che lo avevano già preceduto.

Tutta la giornata essi galopparono rapidamente. I venti uomini di scorta, montati su rapidi cavalli, li avevano costantemente seguiti.

Alla sera, dopo di aver percorso quattordici miglia, essi si accamparono in mezzo a un bosco.

Dopo una frugale cena fatta nella tenda, Giovanni si avvicinò a Kedir-Peng e gli domandò:

– Fratello, mi dirai ora cosa faceva Hamat, quando l’hai veduto?

– Nulla, dormiva fuori dalla tenda, scortato dai suoi otto malesi.

– Ti hanno scorto?

– No, poiché eravamo troppo ben nascosti.

– Hai veduto mio figlio? – chiese Giovanni con voce alterata.

– Sì, lo vidi uscire da una tenda e sedersi in un prato vicino.

– Non era sofferente?

– No, Giovanni; anzi mi parve di buon umore.

– Era guardato?

– Due malesi lo seguivano costantemente.

– E Hamat?

– L’ho veduto un momento avvicinarsi al ragazzo e indirizzargli la parola, ma non ottenne risposta. Tuo figlio deve aver ormai compreso che il malese è l’autore del rapimento e forse lo odia.

– Lo avevo già messo in guardia, – disse Giovanni.

– Ma che quell’uomo speri ancora?

– Sì, Kedir-Peng. Egli non solo spera, ma attende il momento propizio per impormi le sue condizioni.

– E sarebbero?

– La mano di mia sorella o la vita del fanciullo.

– Miserabile!

– È per questo che io tremo, Kedir. Ho paura che, vedendosi scoperto, uccida mio figlio.

– Ci saremo noi per impedirgli di commettere simile delitto.

– È un uomo deciso a tutto, Kedir.

– Ma noi siamo in tale numero da renderlo impotente.

– Un colpo di pugnale fa presto a vibrarlo.

– Saremo pronti ad impedirglielo, Giovanni. Appena saremo giunti presso l’accampamento, circonderemo la tenda e faremo tutti prigionieri di sorpresa. Lascia a me la cura di guidare il drappello e rispondo della vita di tuo figlio.

Giovanni non rispose e s’immerse in dolorosi pensieri.

Pochi istanti dopo, tutta la truppa dormiva sotto la guardia di tre uomini. La notte passò tranquilla e al mattino seguente i ventidue uomini ripigliavano le mosse.

I cavalli, che avevano riposato durante la notte, erano freschi e galoppavano rapidamente.

Giovanni era più tranquillo, però tormentava incessantemente il manico del suo kriss, e cogli sproni e colle briglie eccitava senza posa la sua cavalcatura, onde raddoppiasse la corsa.

Gli pareva di avanzar troppo lentamente: avrebbe voluto varcare d’un colpo solo le foreste, i torrenti e i monti che lo separavano da Hamat.

Kedir-Peng cercava di rallentare quell’ardore, ma invano. Gli sproni dell’impaziente cavaliere tormentavano sempre il corsiero, il quale nitriva e s’impennava pel dolore.

Anche quella seconda giornata trascorse senza aver fatto alcun incontro.

Alla sera il drappello si accampava in una piccola vallata. Giovanni avrebbe voluto continuare il cammino, ma Kedir, dopo molti sforzi, riuscì a trattenerlo facendogli comprendere che Hamat poteva accorgersene e battere in ritirata.

– Domani noi scopriremo il rifugio di quel bandito, – gli disse Kedir – Ormai poche miglia ci separano dal suo campo.

– Poche miglia, e quante dunque? – chiese Giovanni.

– Sei sole.

Giovanni si era rizzato di botto.

– Sei miglia! Sei miglia sole mi separano da quel miserabile e da mio figlio?

– Sì, ma calmati.

– Kedir, lasciami partire. Lascia che vada solo; non lo temo quel malese.

– Giovanni, al tuo posto! – disse Kedir mettendosi sul limitare della tenda.

– Non vuoi dunque lasciarmi partire?

– Non voglio che tu commetta imprudenze. Pensa che ha nelle mani tuo figlio e che, vedendosi scoperto, potrebbe ucciderlo.

Giovanni lo guardò con due occhi strambazzati, poi chinò la testa sul petto e tornò a sedersi.