La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXXIV

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Capitolo XXXIV

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Capitolo XXXIII Capitolo XXXV

Capitolo XXXIV

L’inseguimento

La mattina seguente, ai primi albori, Giovanni, Kedir e Sandiak-Sin, seguiti dai venti uomini di scorta, si mettevano in cammino, decisi a punire l’infame che da oltre un anno era sfuggito a tutte le ricerche.

Giovanni, colla faccia alterata, i capelli sciolti al vento e la mano diritta appoggiata al calcio del suo fucile, cavalcava in testa a tutti.

A mezzogiorno, dopo una corsa furiosa, Kedir-Peng arrestava bruscamente il suo corsiero. Guardò il terreno, poi gli alberi, quindi afferrando Giovanni per un braccio, disse:

– Ci siamo.

– È qui che Hamat ha il suo accampamento?

– Sì, qui a poca distanza.

Una gioia selvaggia si sparse sul volto di Giovanni. Balzò giù da cavallo colla rapidità del lampo, dicendo:

– Scendete tutti.

I venti giavanesi ubbidirono, e legarono le loro cavalcature agli alberi circostanti.

– Avvolgete le teste degli animali nelle vostre coperte, – disse Kedir. – Hamat tiene altri cavalli e potrebbero nitrire.

Quando ciò fu fatto, ei lasciò due uomini a guardia delle cavalcature, poi con Giovanni, Sandiak in testa e i diciotto uomini, si avanzò con precauzione fra gli alberi che ingombravano il suolo, colle mani sul calcio del fucile e gli occhi e gli orecchi in guardia.

Il drappello continuò ad avanzare, aprendo i rami con precauzione, passando fra i tronchi di enormi alberi, finché udì un fischio che partiva dal centro di una foltissima macchia di banani.

Tutti si fermarono di botto.

– Che sia un segnale? – si chiese Kedir-Peng.

– Che si siano accorti della nostra presenza? – disse il piantatore con voce roca.

– Non credo, – disse Sandiak.

– Ebbene, avanti.

Tutti ripresero la marcia. Dopo pochi passi udirono dei rumori che indicavano la vicinanza d’un accampamento. Si udivano dei cavalli a nitrire, e delle voci umane.

– Sono essi, – mormorò Kedir-Peng.

– Avanti, avanti ancora, avanti sempre, – sibilò Giovanni.

Ripresero la marcia, ma lentamente e con tutte le precauzioni possibili.

D’un tratto Sandiak-Sin che strisciava innanzi a tutti, si fermò facendo cenno agli altri d’imitarlo. Con una mano indicava un grosso albero, che cresceva in mezzo ad una piccola radura.

Giovanni, Kedir e la scorta gli si avvicinarono. Attorno a quell’albero si vedevano quattro capannuccie formate con rami intrecciati ed una tenda. A breve distanza pascolavano otto vigorosi cavalli.

Giovanni mandò una sorda esclamazione e da pallido che era divenne livido.

– Vedi? In quella tenda si trova tuo figlio, – gli mormorò Kedir-Peng.

– Ah...

– La capanna che le sta presso è quella di Hamat-Peng.

– Del... miserabile!

– Ora, silenzio e guarda.

Giovanni si lasciò cadere sulle ginocchia, serrandosi al petto con una specie di frenesia il suo lungo fucile.

Tutti rimanevano in silenzio a guardare, ma non vedendo uscire ancora nessun uomo, Giovanni s’alzò dicendo:

– Avanti!

– No, aspetta, – disse Kedir.

In quel mentre da una delle capanne era uscito Hamat.

Il malese girò intorno uno sguardo indagatore, poi si avvicinò alla tenda chiamando ad alta voce il fanciullo.

– Mi condurrete finalmente da mio padre? – chiese il giovinetto con ansietà.

– Tuo padre! – esclamò il malese con voce sorda. – Faresti meglio a non pensare a lui poiché a quest’ora è morto.

– Tu menti! – gridò il fanciullo. – Mio padre vive ancora e presto verrà a liberarmi.

– Venga pure, io lo desidero, – disse Hamat con voce minacciosa.

– Vorresti forse fargli del male?

– Io lo ucciderò tuo padre, m’intendi fanciullo?

– Tanto adunque lo odi? Eppure mio padre non ti ha mai fatto male alcuno.

– Egli mi ha rifiutata la mano di sua sorella.

– Tu non eri un bianco, bensì uno schiavo, e non potevi aspirare a tanto.

– Ma ora lo schiavo si vendicherà, – gridò il malese.

Il fanciullo lo guardò con ispavento.

– Vuoi uccidermi forse? – gli chiese.

– Lo saprai più tardi, ragazzo mio.

– Tu mi fai paura, Hamat.

Il malese alzò le spalle, poi prendendolo brutalmente per un braccio, gli disse:

– Vieni! Io ho saputo che tuo padre si trova al campo di Diepo-Nigoro e noi andremo a trovarlo. Se questa volta non cederà al mio volere, giuro su Allah che vi ucciderò entrambi.

– Tu sai bene che è inflessibile, Hamat.

– Tanto peggio per lui e per te! – disse il malese con sorda voce. – Olà, amici! Levate il campo e partiamo.

Aveva afferrato il fanciullo e stava traendolo a forza verso i cavalli, quando i suoi sguardi s’incontrarono con quelli di Giovanni.

Il piantatore era uscito lentamente dal nascondiglio e lo prendeva di mira col fucile.

Hamat-Peng nel vederlo era rimasto come pietrificato dalla sorpresa; tutto d’un tratto però fece un balzo dietro la capanna più vicina, urlando:

– A me, malesi!

Giovanni non aveva osato far fuoco, per tema di colpire, colla medesima palla, il fanciullo. Quel momento di esitazione era bastato al malese per mettersi al coperto, riparandosi dietro il tronco dell’albero.

Giovanni, Kedir e Sandiak erano balzati fuori urlando:

– Avanti, amici!

D’improvviso otto o dieci malesi si precipitarono fra loro e Hamat-Peng, tentando di contrastare il passo. Alcuni erano armati di fucili, ed altri di picche.

– Fuoco! – urlò Giovanni.

Una scarica echeggiò. Quattro malesi caddero, ma gli altri si slanciarono verso i cavalli salendo rapidamente in arcione.

Mentre i suoi uomini tentavano di trattenere i giavanesi, Hamat tenendo sempre stretto il fanciullo per farsene scudo contro le palle degli avversari, aveva inforcato un destriero e si era slanciato attraverso la foresta.

– Fermati, miserabile! – urlò Giovanni. – Rendimi mio figlio!

– A cavallo! A cavallo! – gridò Kedir. – Presto od il malese ci fugge!

Il piantatore era balzato in sella e si era già lanciato sulle tracce dei fuggiaschi, chiamando disperatamente il povero fanciullo.

– Seguiamolo! – gridarono Kedir e Sandiak.

I ventidue cavalli partirono al galoppo sfrenato dietro le traccie dei fuggitivi.

Si udiva ancora il galoppare furioso dei corsieri montati dai malesi nelle cupe profondità della foresta. Attraversata la radura in meno di due minuti i giavanesi si erano pure cacciati nel bosco.

Si vedevano le traccie lasciate dai fuggitivi, sicché Giovanni e Kedir che stavano alla testa della colonna, non avevano difficoltà a seguirli.

Tutta la giornata i giavanesi continuarono ad inseguire i fuggitivi, ma calata la notte, le traccie diventarono quasi invisibili. Il bosco diveniva sempre più folto, sicché dovettero discendere dai cavalli, marciare colla faccia rasente al suolo, per seguire le orme, e qualche volta dovettero anche accendere dei lumi resinosi per poterle rilevare.

Avanzavano allora con grandi stenti, curvi sino a terra, tenendo i cavalli per la briglia.

Alcune volte udivano dei rumori, e allora si fermavano di botto, tendevano gli orecchi, ma poi certi di essersi ingannati, ripigliavano la faticosa marcia in silenzio.

Verso mezzanotte un lampo venne a rischiarare per alcuni secondi il bosco.

– Minaccia un uragano, – disse Kedir-Peng.

– Meglio per noi, i lampi ci serviranno di guida, – rispose Giovanni con accento cupo.

Qualche ora dopo, l’uragano che continuava ad addensarsi sul loro capo, ingrossò.

I lampi si seguivano più rapidamente, il tuono cominciò a rumoreggiare, e il vento, precursore del temporale, incominciò a fischiare nella foresta, producendo dei suoni strani e facendo gemere i rami degli alberi. La notte non era certamente propizia per un inseguimento attraverso a quelle grandi e folte foreste, però gl’inseguitori continuavano ad avanzare.

Ogni qualvolta un lampo brillava, essi gettavano uno sguardo indagatore all’ingiro, per accertarsi se erano sempre sulle orme dei fuggiaschi, poi tornavano a marciare rapidamente finché un nuovo lampo veniva a rischiarare la foresta.

Gli alberi della foresta, quando l’oscurità subentrava al chiaror del lampo, assumevano aspetti strani. Parevano legioni di giganti, messi là a spiare gli inseguitori. Alcune civette nascoste negli alberi facevano risuonare il loro lugubre grido, mentre il vento ululava sinistramente con crescente lena.