La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XXXV

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Capitolo XXXV

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Capitolo XXXIV Conclusione

Capitolo XXXV

Il vulcano di Guidi

Erano le due del mattino e l’uragano rumoreggiava sempre, quando Kedir-Peng che precedeva il drappello, udì un fischio simile a quello che aveva già sentito al campo malese.

Si abbassò rapidamente temendo di esser stato scoperto e fe’ cenno a tutti di rimanere immobili.

Dopo alcuni minuti ei tornò a levarsi in piedi, e al chiaror di un lampo intravvide una capanna e presso di essa un uomo appoggiato a un albero.

Si riabbassò prontamente, dicendo a Giovanni:

– Hamat deve essersi rifugiato in quella capanna.

– Hai veduto una capanna? – mormorò il piantatore con voce sorda.

– Un malese però veglia al di fuori.

– Ebbene, uccidiamolo con una fucilata.

– No, amico mio, bisogna ucciderlo in silenzio. Il kriss è più sicuro e meno rumoroso del fucile.

– Andrò io, – disse Sandiak, slanciandosi fra i cespugli.

Kedir fermò Giovanni che stava per seguirlo.

Dopo alcuni istanti un sordo gemito giunse fino a loro, e poi Sandiak-Sin apparve col kriss in mano, lordo di sangue sino al manico.

– L’hai ucciso? – domandò Giovanni.

– È morto senza mandare un sospiro, – disse Sandiak-Sin freddamente.

– E gli altri, ove sono? – chiese Kedir.

– Non ho veduto nessuno. Forse Hamat li avrà mandati innanzi ad esplorare il bosco.

– Hai veduto se la capanna è abitata?

– Ho scorto un lume che brillava nell’interno.

– Avanti!

Tutti si misero a strisciare in silenzio, dirigendosi verso la capanna.

Dieci minuti dopo giungevano dinanzi al tugurio.

Giovanni e Kedir-Peng si avvicinarono, e guardarono attraverso una piccola finestra praticata nella muraglia.

Un lume ardeva nell’interno, o meglio un ramo di albero resinoso acceso. Il fanciullo riposava steso su alcune stuoie e accanto a lui stava Hamat-Peng, armato di pugnale.

– È nostro, – mormorò Giovanni.

– Forziamo la porta, – disse Kedir.

Giovanni si avvicinò alla capanna e tenendo il fucile spianato con Kedir-Peng e Sandiak-Sin ai lati, bussò arditamente.

– Chi va là? – domandò Hamat-Peng.

– Io – rispose Giovanni con voce stridula.

Si udì un leggiero rumore nell’interno, poi tutto tacque.

– Hamat-Peng, apri, – intimò il piantatore.

Nessuno rispose, ma poco dopo la canna di un fucile apparve fra una fessura della porta, e fece fuoco.

Giovanni, essendosi accorto a tempo, s’era gettato bruscamente da un lato, sicché la palla non aveva colpito.

Esasperato e deciso a finirla, impugnò il fucile per la canna, percuotendo furiosamente la porta.

Kedir-Peng e Sandiak l’imitarono e pochi secondi dopo le tavole volavano in pezzi. I tre uomini ebbri di furore si lanciarono nell’interno, ma la capanna era completamente vuota.

– Maledizione! È fuggito! – urlò Giovanni.

Una scarica violenta in quel mentre risuonò al di fuori. Tutti e tre uscirono precipitosamente, e videro degli uomini a cavallo fuggire confusamente attraverso la foresta.

– A me, amici! – gridò Giovanni.

Venti spari rimbombarono salutando i fuggiaschi.

Tre o quattro cavalieri furono veduti barellare sulle selle e poi precipitare al suolo.

Successero alcuni istanti di silenzio.

Mentre i giavanesi tornavano ai loro cavalli, Kedir-Peng era rientrato nella capanna. Poco dopo usciva mandando urla di rabbia.

– Cosa ti è accaduto? – domandò Giovanni.

– Hamat è fuggito per una galleria nascosta dietro a una stuoia, – rispose Kedir-Peng.

– Ma ormai non ci sfuggirà più.

– Avanti, e spronate – comandò il capo giavanese.

I cavalli partirono ventre a terra.

Man mano che divoravano la via, si udiva più distintamente il galoppo dei cavalli malesi.

– Perdono strada, – urlò Giovanni spronando il suo cavallo bianco di spuma.

– Avanti! Avanti! Sono nostri! – gridava Kedir.

I cavalli guadagnavano sempre, diminuendo la distanza che li separava dai malesi.

Dopo una mezz’ora di corsa furiosa apparvero i malesi. Galoppavano in gruppo serrato, con Hamat-Peng alla testa, il quale reggeva sempre il fanciullo.

L’inseguimento allora cominciò davvicino. I fuggitivi precedevano i giavanesi di soli cento passi. A cinquanta, Kedir- Peng ordinò il fuoco. I fucili tuonarono e le palle fischiarono, ma quasi subito, quasi che i cavalli malesi avessero ritrovato nuove forze, raddoppiarono la corsa. I cavalieri che li montavano si volsero e scaricarono le loro armi.

Questa volta due giavanesi caddero, e i fuggitivi cacciando esclamazioni di trionfo, sparvero nuovamente nei boschi.

Giovanni e gli altri non si scoraggiarono. Erano decisi d’inseguire Hamat-Peng attraverso a tutta l’isola, senza accordargli tregua.

Le traccie erano state perdute, ma ormai sapevano la direzione presa da Hamat.

Verso l’alba però, avendo ritrovate le orme dei fuggiaschi, rimasero assai sorpresi della loro direzione.

– Dove vuole dirigersi quel miserabile? – chiese Giovanni a Kedir.

– Mi sembra strano che abbia presa questa direzione, – disse Kedir.

– Non è la via che conduce al vulcano di Guidi?

– Sì, Giovanni, anzi non distiamo dal vulcano che poche miglia; non vedi quella colonna di fumo che si erge dietro gli alberi?

– Sì, la vedo.

– È il vulcano.

– Cosa vuol fare quel miserabile?

– Seguiamolo da vicino, poiché temo...

– Che cosa? – chiese Giovanni con ansietà.

– Nulla, inseguiamolo, – disse Kedir-Peng.

La corsa fu ripresa. Una mezz’ora dopo i cavalieri scorsero il vulcano di Guidi, il quale isolato, solo, fiammeggiante, si ergeva a mille piedi dal suolo.

– Sprona, sprona, – gridò Kedir-Peng. – Vedo un villaggio laggiù.

– Avanti! – gridò Giovanni.

Poco dopo, steso in mezzo ai cespugli, trovarono un cadavere.

– È un malese, – disse Sandiak-Sin.

– È morto in seguito alle ferite ricevute, – disse Kedir.

– Sprona, sprona, sono nostri! – gridò Giovanni.

Il villaggio era ormai vicino. I venti cavalieri con un ultimo sforzo vi giunsero, entrandovi al galoppo. Si componeva d’una trentina di capanne abitate da un centinaio di giavanesi.

Kedir-Peng si fe’ conoscere dal capo che lo governava e gli chiese se aveva veduto passare un drappello di malesi.

– Sì, sono passati di qui come un lampo, ma i cavalli non ne potevano più, – rispose il capo.

– Quanti erano?

– Sei, guidati da un uomo che teneva fra le braccia un fanciullo.

– Dove si sono diretti?

– Hanno preso la via che conduce a Kazen-Pinang.

– Passa pel vulcano di Guidi questa via?

– Sì, proprio alla base.

– Sono essi! – esclamò Kedir-Peng.

– Sono nostri! – disse Giovanni con feroce accento.

– Sprona, sprona, – urlò Kedir-Peng.

I venti cavalieri proseguirono la loro corsa.

I cavalli erano spossati, ma potevano ancora percorrere, con qualche breve fermata, una mezza dozzina di miglia.

Un miglio più innanzi, trovarono il cadavere di un cavallo.

I loro animali non devono correre ancora molto, – disse Kedir-Peng.

– Hamat, questa volta non mi sfuggirai più – disse Giovanni.

Ad un tratto la sua fronte si oscurò, e una espressione angosciosa si dipinse sul suo volto.

– Cos’hai fratello? – domandò Kedir, che si era accorto di quell’ansietà.

– Un presentimento triste, – rispose Giovanni.

– Non puoi aver più alcun timore.

– Mio figlio è in sue mani, Kedir.

Kedir-Peng ammutolì. Ei condivideva forse le angoscie di Giovanni. Hamat-Peng, nella sua disperazione, poteva lasciarsi trasportare da qualche violenta decisione.

In quell’istante apparvero i fuggitivi. I loro cavalli, bianchi di spuma, avanzavano a balzi, tentennando, mentre che il sangue scorreva dai loro fianchi squarciati dagli sproni.

Distavano allora un miglio dal vulcano di Guidi.

All’apparir dei giavanesi, si volsero e fecero fuoco, ma senza successo, essendo ancora troppo lontani.

– Un ultimo sforzo, amici, – disse Giovanni lasciando partire il colpo del suo fucile.

Un malese cadde, ma gli altri continuarono la corsa.

L’inseguimento cominciò a fucilate. Giavanesi e malesi caricavano e scaricavano i fucili, uccidendosi a vicenda.

Mezz’ora dopo, dei fuggitivi non rimanevano che tre uomini, fra i quali Hamat-Peng, stato fino allora risparmiato per paura di colpire il fanciullo.

Gli inseguitori erano ancora sedici, numero sufficiente per aver facilmente ragione dei fuggiaschi.

A mille metri dal piede del vulcano, un cavallo dei malesi cadde spossato, ed il cavaliere fu subito ucciso. Pochi passi più innanzi cadde anche l’altro, che ebbe l’egual sorte.

Non restava che Hamat, il quale dilaniava ferocemente i fianchi del suo cavallo, già ormai esausto.

L’inseguimento si concentrò su lui. La distanza che separava il fuggitivo dagli inseguitori spariva rapidamente, ma il malese non si arrendeva ancora. Col fucile carico in una mano, e il kriss fra i denti, fuggiva sempre, dirigendo lo spossato animale verso la base del vulcano.

Giovanni lo tolse di mira, sperando di uccidergli il destriero, ma il colpo fallì.

– Maledizione, – urlò ricaricando l’arma.

D’un tratto il cavallo del malese, completamente esausto vacillò e rotolò al suolo a pochi passi dal piede del gigantesco vulcano.

Un immenso clamore salutò la caduta di Hamat, ma egli si liberò dalle staffe, gettò uno sguardo feroce all’intorno, e serrandosi al petto il fanciullo che pareva svenuto, si gettò tra i cespugli, salendo con un’agilità sovrumana gli scaglioni della montagna tremante.

Una scarica gli tenne dietro. Due sassi volarono intorno al fuggitivo, ma egli continuò a salire, aiutandosi colle mani e coi piedi. Il kriss gli brillava minaccioso tra i denti e il fucile gli pendeva sempre dalla spalla.

Il vulcano fiammeggiante eruttava allora, con fracasso, fiamme sassi e fumo; rivi incandescenti di lava ardente scorrevano lungo i suoi fianchi dirupati.

Giovanni, Kedir, Sandiak e i giavanesi abbandonarono i cavalli e si misero a inseguire il fuggitivo il quale saliva sempre, facendo sforzi prodigiosi per guadagnare via.

Il vulcano in piena attività eruttava enormi masse di pietre incandescenti e enormi macigni che brillavano nell’aria e si frangevano in mille pezzi sui dirupati fianchi della montagna. Sulla sua cima s’innalzava a prodigiosa altezza un’immensa fiamma, sormontata da una cupola di fumo nero e denso. Giù per i suoi fianchi, torrenti di lava ardente, correvano formando migliaia di rivoletti, i quali divoravano la scarsa vegetazione che cresceva sugli scaglioni della montagna tremante. Il cielo poi tutt’intorno era rischiarato, per parecchie miglia, da quella fiaccola gigantesca.

Il malese, cogli occhi fiammeggianti, coi lineamenti sconvolti, tenendo sempre stretto il fanciullo, saliva sempre, balzando attraverso i rivi di lava.

Giovanni, quasi fuori di sé, lo inseguiva, intimandogli di fermarsi. Coll’occhio fisso sul fuggitivo, il cuore straziato dal dolore, e la disperazione in viso, faceva sforzi sovrumani per raggiungerlo.

– Dove vai? Cosa vai a fare colassù? – gridava con voce disperata.

Ma Hamat saliva ancora, saliva sempre. Parea che ridotto agli estremi, piuttosto che arrendersi volesse commettere qualche pazzia, poiché si avvicinava con spaventosa rapidità al cratere del vulcano.

– Hamat! – urlò Giovanni con voce straziante.

A quella chiamata parve che si volesse decidere a fermarsi.

Ei fece due o tre passi, guardò con occhio torvo il vulcano che eruttava con estrema violenza, poi si fermò col kriss in mano e la faccia stravolta.

Giovanni e i giavanesi distavano appena venti metri da lui.

– Hamat! Hamat! Rendimi mio figlio! – urlò il povero padre.

Dagli occhi torvi di Hamat schizzò una fiamma. Ei fe’ un passo verso Giovanni e tendendo verso di lui il pugno, con voce roca che non avea nulla di umano, tuonò:

– No, non sfuggirai né tu né tuo figlio alla morte.

Aveva impugnato il kriss e l’aveva alzato per uccidere il povero fanciullo.

Un immenso grido di disperazione echeggiò; venti fucili si puntarono e fecero fuoco.

Hamat si portò una mano al petto, e barcollò, si lasciò sfuggire il fanciullo, poi si appoggiò ambe le mani al cuore e cadde sulle ginocchia.

Giovanni s’era lanciato innanzi gridando:

– Figlio mio!

Il piccino s’era prontamente rialzato e si era precipitato tra le braccia del piantatore, esclamando con voce rotta dai singhiozzi:

– Padre! Finalmente ti rivedo!

Mentre padre e figlio piangendo di gioia, si abbracciavano, Hamat-Peng s’era lentamente rialzato.

Un terribile lampo d’odio balenava nei suoi occhi già mezzo velati dalla morte che si avanzava a gran passi. Le sue mani rattrappite già, s’erano strette attorno al fucile e la canna s’era alzata contro il piantatore.

Un momento ancora e il terribile malese non sarebbe morto solo, ma Sandiak aveva scorto la mossa del morente.

D’un balzo si precipitò su di lui e gli immerse il kriss nel cuore urlando:

– Muori, cane!