Pagina:Annalena Bilsini, di Grazia Deledda, Milano, 1927.djvu/176

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— Adesso rientreranno i ragazzi, e faranno un po’ di chiasso. Rimani.

Egli invece si alzò di scatto.

— No, devo andare, — poi si fermò e parve ricordarsi. — No, che non devo andare. A casa non c’è nessuno.

Tornò a sedersi e chiamò il cane.

— Tom, lo vedi? Tu credi che il padrone, qui, sia io: invece sono il mendicante al quale si dà una scodella di minestra.

Annalena soffriva. Davanti alla reale miseria di lui sentiva cadere ogni scoria impura della sua passione, come se egli si fosse ripresentato non più uomo ancora giovane e ricco di ardore, ma vecchio impotente e decaduto. Eccolo lì, era come un sacco vuotato, cento volte meno interessante di Pinon, più scialbo dello stesso zio Dionisio.

Eppure, s’ella avesse voluto, con un solo sguardo avrebbe riacceso la vita della carne in lui. Ma ella non voleva. Tuttavia gli si avvicinò e gli battè una mano sulla spalla.

— Va là, Urbanone, lascia queste melanconie: non un piatto di minestra, ma un pollo saltato in padella voglio offrirti. E le ossa a Tom.

Il cane guardava ora l’uno ora l’altra,