Pagina:Annalena Bilsini, di Grazia Deledda, Milano, 1927.djvu/51

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mezzogiorno; quasi due feritoie, per affacciarsi alle quali bisognava salire su uno scalino che serviva anche da sedile: nel vano di una di esse, ancora aperta, appariva la luna, ed il suo chiarore, più che quello del lume, rischiarava i fitti travicelli gialli che sostenevano il soffitto.

I vecchi mobili dei Bilsini stonavano, e ne parevano umiliati, in quell’ambiente quasi di castello primordiale: solo il letto era ampio, con una coltre rossa che dominava prepotente su gli smorti colori intorno e faceva caldo a vederla: letto di contadini che pensano solo a godersi la moglie, la terra, la numerosa figliuolanza.

I bambini si guardavano attorno fra curiosi e spauriti, ed il maggiore tentava di sottrarsi alla tirannia della nonna che già lo spogliava per metterlo a letto.

— Ho paura, Mammalena; ci saranno i sorgòn.

— Ma va là, i grossi sorci sono nei fossi, non nelle case: e tu, che non hai paura di andare dentro i fossi, hai paura qui. E poi quando si sono dette le preghiere non si ha più timore di niente. Up, là!

D’un balzo il bambino si trovò a letto; e si mise a ridere, nascondendosi sotto il lenzuolo, mentr’ella rimboccava la coperta.