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Si distruggea sull’ermo lido algoso
Fin dal mattino, sotto al cor recando
Atrocissima piaga, ove gl’infisse
La gran Ciprigna il dardo. Ei pur rimedio
Trovava, e assiso in rilevata rupe,
Guatando verso il mar così cantava.
Candida Galatea, perchè rifiuti
Chi t’ama? o ben più candida a mirarti
D’una giuncata, più d’un’agna molle,
Superba più d’una giovenca, e cruda
Più dell’agresto acerbo. A queste parti
Ten vieni allor; che tiemmi il dolce sonno,
E tosto che mi lascia il dolce sonno
Tu rapida di qua t’involi, e fuggi
Qual pecora al mirar canuto lupo.
Io m’invaghii di te quando venisti,
Con mia madre a côr foglie di giacinto
Su la montagna, ed io facea la strada.
Dacch’io ti vidi infino ad or più pace
Non trovo, e tu nol curi, ah! no, per Giove.
Io so ben io perchè mi fuggi, o bella:
Perchè in tutta la fronte mi si stende,
Unico, e lungo da un’orecchia all’altra
Irsuto sopracciglio, e un occhio solo
V’è sotto, e sopra i labbri un largo naso.
Ma pur, qual ch’io mi sia, ben mille pasce
Pecore, e il miglior latte i’ mungo, e beo.
A me cacio non manca o nella state,
O nell’autunno, o nell’estremo verno,
E stracolmi son sempre i miei canestri.
Io so fistoleggiar come null’altro
De’ Ciclopi qui intorno; e te, mio caro
E dolce pomo, e in un me stesso canto
Sovente nel più cupo della notte.
Undici cavrioletti ancor t’allevo,
Che tutti han bei monili, e quattro orsatti,