Pagina:Callimaco Anacreonte Saffo Teocrito Mosco Bione, Milano, Niccolò Bettoni, 1827.djvu/146

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     Or qua ne vieni, e tutto quanto avrai.
     Lascia, che il glauco mare il lido sferzi.
     Più grata meco passerai la notte
     Colà nell’antro, a cui son presso allori,
     Alti cipressi, ellera negra e viti
     Di soavissim’uve, e gelid’acque,
     Onde a me l’Etna arboreggiato invia
     Dalle candide nevi alma bevanda.
     Chi fia, ch’elegga in vece il mare e l’onde?
     E quand’io sembri a te soverchio irsuto,
     Ho ben legna di quercia, e sotto cenere
     Foco indefesso, e sarò pago ancora,
     Che tu m’abbruci l’alma stessa, e questo
     Sol occhio, di cui nulla è a me più dolce.
     Ahi lasso me! perchè con l’alie al nuoto
     La madre mia non femmi, ond’io sott’acqua
     Venendo a te baciassi almen la mano
     Se la bocca non vuoi? Da me tu avresti
     O bianchi gigli, oppur di rosse foglie
     Papaver molle; ma quei sol l’estate,
     Queste mettono il verno, ond’io recarti
     Non potrei tutto insieme e l’uno e l’altro.
     Or io, donzella, qui medesmo or voglia
     Imparare a nuotar, se fia che approdi
     Qua certo forestier con la sua nave,
     Ond’io pur veggia, qual piacer vi sia
     Lo starvi in fondo al mar. Deh! Galatea,
     Vien fuori, e poi dimentica (com’io
     Fo qui seduto) il ritornare a casa.
     Meco t’eleggi il pascolar la greggia,
     Mugner il latte, e rappigliarlo in cacio,
     Facendovi stemprar l’acido caglio.
     Ella sola mia madre a me fa torto,
     E ben di lei mi lagno: a mio vantaggio
     Nulla ti dice mai, benchè mi veggia
     Più smunto divenir di giorno in giorno.