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giovanni meli i7i


— E mettici tu pure, — dice la Fata a lui che voleva essere un gran poeta, e lui ci mette i suoi sette anni di scuola. (Ilarità)

                               Appizza si tu hai cosa d’appizzari.
Iu allura appizzu sett’anni di scola,
Cridennu ch’un gran premiu avia a pigghiari.
E chi cosa pigghiasti, Vanni Meli?
Un gran pezzu di Patri Emmanueli.
               

La botte dà di quello che ha: padre Emmanuele non gli poteva dare che padre Emmanuele. Il presuntuoso non si trovò in mano che i sette anni di scuola, e abbassò le ali:

                               Cussí partivi cu l’ali caduti.                

Gli ultimi poeti, i più vicini alle Muse, furono i poeti del suo cuore, Teocrito, Sannazaro e Metastasio, che in una gran «Cafittaria» vendeva spiriti e sorbetti:

                               Oh chi biddizza! oh chi ducizza! (Ilarità)
Ieu liccava li gotti a stizza a stizza,
E tuttu arricriari mi sintia:
Cosi di Metastasiu!  .  .  .  .  .  (Ilarità)
               

Fra queste dolcezze ecco in vista l’ultima baracca più vaga e galante, e le nove Muse, e in mezzo il biondo Dio, e le Grazie sopra la bancata,

                               Ma poi lu Gustu conza la ’nzalata.                

Molte femmine stanno attorno a ornare la lucente baracca, e ci era una, ora lunga lunga sino alle nuvole, ora più piccina che una pulce, e la Fata dice:

                               Chista chi crisci e ammanca tutti l’uri,
É l’ Iperbuli; e tantu cci piacia
A lu seculu strammu chi spiddiu,
Chi senza d’ idda ’un sapia diri ciu.