Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano VIII.djvu/95

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dell'impero romano cap. xliii. 91

erano perfino prive dei meriti di un forte e ben disciplinato servaggio. Al primo scontro queste abbandonarono le loro insegne, gettarono a terra le armi, e si dispersero da ogni banda con una viva sollecitudine che sminuì la perdita, ma aggravò la vergogna della loro disfatta. Il Re dei Goti, che arrossiva per la codardia de’ suoi nemici, seguitò con rapidi passi il cammino dell’onore e della vittoria. Totila passò il Po, valicò l’Appennino, differì l’importante conquista di Ravenna, di Fiorenza e di Roma, e marciò pel cuore dell’Italia a stringere Napoli di assedio, o per meglio dire di blocco. I Condottieri romani, imprigionati nelle rispettive loro città, ed intesi ad accusarsi vicendevolmente fra loro della comune disgrazia, non ardirono di perturbar la sua impresa. Ma l’Imperatore, intimorito per l’estremità ed il pericolo in cui erano le sue conquiste d’Italia, mandò in soccorso di Napoli una flotta di galee, ed un corpo di soldati Traci ed Armeni. Questi approdarono in Sicilia, che li fornì di provvisioni copiose; ma gl’indugj del nuovo comandante, Magistrato che nulla sapeva di guerra, trassero in lungo i mali degli assediati; ed i soccorsi ch’egli lasciò cadere con mano timida e tarda, furono successivamente tagliati fuori dalle navi armate che Totila aveva posto in crociera nel golfo di Napoli. Il principale uffizial dei Romani fu trascinato con una corda intorno il collo al piè delle mura, d’onde con tremante voce esortò i Cittadini ad implorare, come faceva egli stesso, la clemenza del vincitore. Essi chiesero una tregua, colla promessa di arrendere la città, se in capo a trenta giorni non appariva alcun soccorso efficace. In luogo di un mese l’audace Barbaro volle concederne tre, giustamente, confidando che la fame