Pagina:Gogol - Novelle, traduzione di Domenico Ciampoli, 1916.djvu/180

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Appena giunto a casa, si metteva a tavola, inghiottiva in fretta la zuppa di cavoli e divorava, senza curarsi di ciò che mangiava, un pezzo di bue all’aglio, ingojandolo con le mosche e altri condimenti che Dio e il caso vi avevano seminato. Saziata la fame, si metteva, senza perder tempo, al tavolino, facendosi un dovere di copiare gli atti che aveva portati a casa. Se per caso non aveva lavoro ufficiale da copiare, riscriveva, per suo piacere, i documenti ai quali dava un’importanza particolare, non pel tenore più o meno interessante, ma perchè diretti a qualche alto personaggio.

Quando il cielo grigio di Pietroburgo si avvolgeva nel velo della notte e la società dei funzionari ha finito il pasto, ch’è vario, secondo il gusto gastronomico, o secondo il peso della borsa; quando tutti cercano di fare una diversione al raschiamento delle penne d’ufficio, alle cure e agli affari che l’uomo si crea così spesso inutilmente; è proprio naturale che si voglia consacrare il resto della giornata a qualche distrazione personale. Alcuni vanno a teatro, altri passeggiano divertendosi a guardare le abbigliature; gli uni dedicano a qualche stella che si leva sull’orizzonte modesto del loro cielo burocratico parole lusinghiere e sentite; gli altri infine vanno a visitare un collega che occupa al terzo o al quarto piano un appartamentino composto di una cucina e d’una camera, quest’ultima ornata da qualche oggetto di lusso desiderato da molto, una lampada o altro arnese casalingo comperato a prezzo di lunghe privazioni.

Insomma, è l’ora in cui ogni impiegato gode in un modo o nell’altro della sua libertà: qui si fa una partita di whist, là si prende il tè con biscotti a buon mercato o si fuma una gran pipa di tabacco. Si raccontano i pettegolezzi che corrono nell’alta società, perchè la Russia ha un bell’essere in non so qual condizione, ma non può stornare il pensiero da quest’alta società, dove circolano tanti aneddoti curiosi; come, per esempio, quello del comandante, al quale vennero a dire secretamente che un malfattore aveva mutilato la statua di Pietro il Grande tagliando la coda del cavallo.

In quei momenti di ricreazione e di riposo, Akaki Akakevic rimaneva fedele alle sue abitudini. Nessuno poteva dire d’averlo incontrato neppure una volta la sera in società. Quando era stanco di copiare e non ne poteva più,