Pagina:Gogol - Taras Bul'ba, traduzione di Nicola Festa, Mondadori, Milano, 1932.djvu/56

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GOGOL


— Almeno, lèvati la pelliccia! — disse finalmente Taras — vedi come fuma!

— Non posso — gridò il Saporogino.

— Perché?

— Non posso; io sono avvezzo cosí: quel che mi tolgo di dosso, me lo vendo per bere.

Il cappello già da un pezzo non era piú sulla testa del giovinotto, né la cintura del caffettano, né il fazzoletto ricamato; tutto era andato a finire a dovere. La folla crebbe; a quei danzatori se ne aggiunsero altri, e non era possibile sedere senza un’interna commozione come tutto trascinava dietro a sé quella danza, la piú sfrenata, la piú indiavolata che si sia mai vista al mondo, e che dai suoi poderosi inventori era chiamata la cosacca.

— Eh, se non fosse per il cavallo! — esclamò Taras — mi lancerei dritto dritto, mi lancerei anch’io nella danza!

Frattanto cominciarono a sopraggiungere in quella folla anche parecchi personaggi stimati per le loro benemerenze in tutta la Sjec: vecchi ciuffi canuti, che piú volte avevano avuto la carica di capoccia. Taras incontrò presto una quantità di facce conosciute. Ostap e Andrea non sentivano altro che parole di saluto: «Ah, sei tu, Peceriza! Salute, Kosolup!». «Da che parte Dio ti mena qui, Taras?» «Tu come ti


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