Pagina:Opere (Dossi) I.djvu/39

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8 l’altrieri

sedia alta, a bracciuoli, con al collo un gran tovagliolo. La sala ò calda, inondata dal giallo chiarore di una lucerna a olio e, intorno intorno alla tàvola dalla candidìssima mappa, dai lucenti cristalli quà e là arrubinati, dalla scintillante argenteria, vi ha molti visi — di chi, non sovvengo — visi rossi ed allegri, da gente rimpinzita. E lì, due mani in bianchi guanti posano nel mezzo, su un piatto turchi no, quel dolce che ò la vera imàgine dell’inverno, che così bene rappresenta la neve e le foglie secche. Io batto le palme, e.... Io mi trovo un cialdone, gonfio di lattemiele, appiccicato al naso....

E tutto rovina. Segue una tenebrìa: a mè par d’èssere solo, solìssimo, in una profonda caverna in cui l’aqua stilla, gelata, lungo le pareti; in cui la terra risuona. E mi fu detto ch’io ebbi molto bìbì... Sia! doppiamente presto che sopra un teatro, la scena si muta. Rimpolpato, rimpennato, stavolta le rondinelle mi scòrgono in un giardino a capo di una viuzza orlata dall’una e dall’altra banda con cespi di sempreverdi. Il cielo è d’un azzurro smagliante; l’àura, fresca, odorosa. Una bambina con i capelli sciolti spunta all’estremo della viuzza e corre spingendo davanti a sé un cerchio. Com’ella mi giunge, si arresta, si sbassa: stringendomi colle sue manine le guancie, m’appicca uno di quelli schietti baci che lasciano il succio. E il cerchio intanto,, abbandonato, traballa, disvia.... giravollando, cade.

Ma, col sangue che questo baciozzo attira, vien, pelle pelle, ogni ricordo dei tempi andati. È la paletta che sbracia il caldano. Spiccatamente io comincio a vedere, io comincio a sentire.

E tò, in un salone che stanzeltina mi sem-