Pagina:Poe - Perdita di fiato, traduzione di A.C. Rossi, Bottega di Poesia, Milano, 1922.djvu/45

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miamo per la violenza del nostro conflitto interiore, del definito contro l’indefinito, della sostanza contro l’ombra. Ma, se il dibattito è andato tanto innanzi, è l’ombra che prevale. Noi lottiamo invano. L’ora scocca, e quel suono è il rintocco funebre della nostra prosperità. Nello stesso istante, è anche il canto dell’alba per quel fantasma che tanto a lungo ci ha terrificati. Esso fugge, esso scompare; siamo liberi. L’antica energia ritorna. Lavoreremo, ora. Ahimè, è troppo tardi!

Siamo ritti sull’orlo di un precipizio. Arrischiamo lo sguardo nell’abisso, siamo colti da un malessere vertiginoso. Il nostro primo impulso è di ritrarci dal pericolo. E tuttavia restiamo. Poco a poco il nostro malessere e la nostra vertigine e il nostro orrore vengono sommersi nella nebbia di una sensazione ineffabile. Per gradazioni ancor più impercettibili, questa nebbia assume una forma, a modo del vapore fuori della bottiglia dalla quale uscì un genio, nelle Mille e una Notte. Ma da questa nostra nube sul limite del precipizio, si concreta un forma molto più terribile che qualsiasi genio o demonio da racconto, e tuttavia non è altro che un’idea, ma un’idea spaventosa, un’idea che ci agghiaccia il midollo delle ossa colla intensa voluttà del suo orrore. Non è altro che