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ne, e affettava di reputarlo un vecchio amico soltanto. Ma lui seguitava a stringerle la mano, chiamandola «la sua buona Enrichetta», ed ella si sentiva intenerire il cuore. In silenzio, gli tese le labbra e le premé sulle sue; poi, a voce bassa:

— Zitto! m’aspettano... Entra dopo di me.

Dalla sala venivano voci leggiere, ammorzate dalle tende. Ella spinse la porta, che lasciò ta a due battenti, e porse il ventaglio a una delle quattro signore che stavan sedute in mezzo alla sala.

— Eccolo! — disse. — Non sapevo piú dove l’avevo messo; e la cameriera non avrebbe saputo ritrovarmelo.

E, volgendosi, soggiunse con la sua solita aria allegra:

— Entrate, entrate, signor Mouret. Passate dal salottino: sarà un ingresso meno trionfale.

Il Mouret salutò le signore, che conosceva di già. La sala, con i mobili alla Luigi XVI, di broccatello a mazzolini, con i bronzi dorati, le grandi piante verdi, aveva una dolce intimità, nonostante l’altezza del soffitto; e per le tre finestre si vedevano gl’ippocastani delle Tuileries, dei quali il vento d’ottobre spazzava via le foglie.

— Ma è bellino questo chantilly! — esclamò la signora Bourdelais, che aveva in mano il ventaglio.

Era una biondina di trent’anni, dal naso fine, dagli occhi vivi; amica dell’Enrichetta fin da quando stavano insieme in conservatorio, aveva sposato un caposezione del ministero delle finanze. Di vecchia famiglia borghese, tirava innanzi la casa e i suoi tre bambini, con un’operosità,


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