Pensieri e discorsi/La scuola classica
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LA SCUOLA CLASSICA
a Ferdinando Martini |
Guardo e riguardo il suo punto fermo, onorevole Martini1. Cedo alla tentazione e metto una mia virgola sotto il suo punto. Permette?
Ella è stato il ministro dell’istruzione più caro alla gioventù studiosa. Poichè questo aggettivo è diventato ambiguo, come “sacro„, che vale anche “esecrando„, e può, nell’un dei sensi, della frase che le ho indirizzata fare un’ingiuria che ella avrebbe ragione di respingere, mi affretto a dichiararle, onorevole Martini, che la gioventù studiosa di cui parlo, è quella... degl’insegnanti.
Purtroppo, in Italia non studiano se non i professori (così ci chiamano), e più tra loro studiano, e meglio, il che è consolante, i più giovani. Dalla tribuna e dai giornali si annunzia ogni giorno, che l’Italia ha fatto un passo più giù per i gradini delle fatali Gemonie; e intanto, in parte ove codesti giornalisti e uomini politici non guardano e non vedono, si ascende: si lavora a rimettere a nuovo le vecchie glorie, a conquistarne di nuove, a guadagnare, se non quelle cime donde un tempo vedevamo gli altri in basso, almeno tali alture dove gli altri, e siano pure più su, ci possano scorgere e dirci: “Ah! ci siete anche voi? Da bravi!„ Oh! sarà una bella sorpresa per i nostri valentuomini che non guardano, come altezzosi, non vedono, come presbiti che sono, se non in su e lontano, e che, predicando di anno in anno che il nuovo non è ancora e il vecchio non è più, finiranno un bel giorno con l’annunziare finita l’Italia; sarà per loro uno stupore, voglio credere, progrediente in letizia, sentirsi ripetere in coro: “Come, finita? e l’arte italiana? e la scienza italiana?„ Stupiranno e si allieteranno allora codesti uomini dalla mala luce e dalle ciglia alzate; per ora trovano, credo, magro il compenso che questa gioventù studiosa prepara al danno che, in fin dei conti, essi procacciano o non evitano alla patria. E lo sanno anche loro, i bravi e modesti giovani, non consolati nè d’un poco di agiatezza nè d’un lampo di gloriola nè d’un sorriso di assentimento; lo sanno anche loro che il compenso è magro: essi fanno il loro mestiere, nè è di loro cambiarlo con un altro, nemmeno più facile, come, per esempio, il vostro, o reggitori e sindacatori nostri; che non vedete o non guardate!
È dunque tale gioventù studiosa d’insegnanti, onorevole Martini, quella che le vuol bene e da lei sperò ed ebbe, e spera (senza far torto a nessuno) e avrà ancora. Io ho cercato qualche volta e credo d’aver trovato perchè, in un crocchio qualunque di insegnanti, il suo nome come di ministro passato o futuro (specialmente futuro, peraltro) ha minor numero d’oppositori; minore dico; chè non si può, anzi non si deve, piacere a tutti. Ecco il perchè, o meglio, uno dei perchè; il principale però, a mio parere. I ministri che l’hanno preceduto, onorevole Martini, buoni, bravi, cortesi tutti, ebbero quasi tutti rivolta l’industria del loro ingegno ed esplicata la tenerezza del loro cuore a pro’ bensì della gioventù studiosa, ma di quell’altra... di quella che studia poco. Si sono accontentati gli scolari: quanto ai maestri... È stato come in una rissa; dove chi accorre a sedarla, nell’accarezzare il piccino frignone, guarda a stracciasacco il grandicello. Oh! si capisce la premura maggiore per l’avvenire più integro e più lungo di promesse e speranze, la maggiore simpatia per il passato più breve e puro di pensiero e di tristezza; ma pietà per quelli che appena entrati nella vita guardano già l’avvenire con diffidenza e il passato con rimpianto! Questi sono giorni di “passo„: 2 migrano in questi giorni da nord a sud, e da sud a nord, i giovani professori, con appena un po’ più di masserizie che le rondini, accompagnati quasi sempre da una loro mogliettina che non ebbe più dote d’una rondine e fu sposata per amore e primavera. Sono giovani: amateli! Che importa se li invecchia un poco qualche visetto (patitino, per lo più) di bimbo? È la prima cova, quella. Che fa se li invecchia, prima delle rughe, quello star sopra sè, gravi e quasi tristi, per l’abitudine d’avere avanti a sè gli scolari, per la necessità di dover fare da babbi ai loro fratelli minori? Fratelli, fratelli, e non più. Ma è come nelle famiglie chiuse e solette; che la mamma, per accarezzare i piccini, si dimentica, e a poco a poco si disavvezza, di accarezzare i grandicelli; e questi per il mancare delle carezze della infanzia prendono a poco a poco la serietà dell’adolescenza; e la madre si sente da quella serietà nuova sempre più contrariata a riprendere con loro la soavità antica: oh! ma si provi! Appena ella preme con la mano quasi sospesa, un poco, i capelli del suo fanciullone, questo le concede tutto il collo, tutto il capo, tutto il viso e ritrova con la sua bocca la cara adorata bocca, e scivola sulle ginocchie materne, e dà e riceve i baci d’una volta, e risente e ripete le paroline d’un tempo. C’è solo, di qua e di là, qualche lagrima ora, che allora non c’era.
Dove ero rimasto? Ah! A lei i giovani vogliono bene, onorevole Martini, perchè ella mostra loro, quel, diciamolo affetto, ma è un sentimento, che esercitato tra uguali, e da inferiore a superiore, si chiamerebbe più propriamente “rispetto„. Perciò sperano da lei i giovani: e lo dico io che non sono più giovane e non uso sperare più, e non sarò quindi sospettato; e lo affermo io, che sperimentai codesta sua bontà riguardosa, che era di superiore perchè pareva d’uguale; io con altri molti, e quindi sarò creduto. Fu per la famosa Commissione, si ricorda? quando ella convocò una ventina di professori secondari (che scandalo!) di latino, per ragionare e consultare... di che, Dio mio? di banchi, di scuola, di abbecedari? No: lo scandalo fu grande, perchè ci convocò a discorrere appunto di latino. Noi? Proprio noi. Ma secondari proprio? Secondarissimi: c’era l’Ercole, il Moratti, il Ronca, il Brilli, il Cima, il Decia, il Setti, il Murero, il Tincani, il Bonino: c’ero anch’io. C’erano da un venti (e potevano essere quaranta e cento) di questi anfibi che hanno il loro pascolo nello stagno, a volte melmoso, della scuola, e il loro svago nel prato sempre fiorito della scienza; di questi cari esseri che tirano con la forte rassegnazione dell’alfana la carretta dall’insegnamento tutto il giorno, e alla sera aprono le ali dell’ippogrifo nel cielo libero dell’arte: gente che meglio d’ogni altro “al mondo„ aveva decifrate e illustrate iscrizioni osche, che meglio d’ogni altro “al mondo„ aveva descritta la cultura del Medio Evo, che aveva derivato dalla ricca Germania tesori d’erudizione per l’Italia immiserita, che aveva scritto volumi, non solo grossi ma belli. Povera gente! di cui non si parla mai nei giornali, e non si parlò, per esempio, in una recente disputa sul decadimento della letteratura italiana, perchè non scrive romanzi. Ebbene quei professori, giovani allora dal più al meno, molto amarono lei, onorevole Martini, per quella sua fiducia, alla quale risposero come poterono. E meglio avrebbero risposto, se la fiducia fosse stata — ma non era a lei lecito concederla — più piena. Non le era lecito, perchè sa quale e quanta avrebbe dovuto essere quella fiducia, per fruttare? Tale e tanta: “Cari amici, eccovi regolamenti, programmi, orari, leggi e decreti: bruciate tutto e rifate tutto!„
Sicuro! e noi avremmo rifatto tutto. Che meraviglia? È superbia, se un calzolaio si assume di far nuove le scarpe che gli si portano a rattoppare? meraviglia, se le fa? In vero io, e, credo, tutti gl’insegnanti d’Italia, abbiamo in pectore i nostri bravi orari, regolamenti e programmi: e quelli tra noi che non sono già vecchi, avranno probabilmente agio di decretarli e promulgarli. Sì; perchè è impossibile che lo Stato pensi ancora per molto tempo ad essere, con tanti altri grattacapi, il gran Preside dei Licei e il gran Direttore dei Ginnasi, e, con tante spese, a pagare, quasi senza alcun rimborso, l’istruzione professionale, e a pagarla, con tanto nuovo fervore d’uguaglianza e di giustizia, quasi soltanto ai figli di quelli che la potrebbero comprare coi loro danari. Il giorno in cui lo Stato si libererà di questa briga, oh! sarà un gran giorno per gli spiriti alacri, vigorosi, impazienti d’Italia! Io ho pensato (se non sarò prima andato nel paese ricco di zolle con la donna bianco vestita), quali saranno i miei compagni; gentili sacerdoti dell’Ideale; lassù, a cavaliere di quella piccola, antica città, piena di memorie e di sogni; le cui campane nell’ora del tramonto echeggiando nella valle sembrano, udite di lassù, persuadere blandamente i vivi a ritirarsi, a chiudersi, a dormire nelle belle case bramantesche, perchè dalle necropoli etrusche e romane possano i morti due o più millenni prima uscire senza timore a godersi il fresco della notte ambrosia. Il Liceo o Ginnasio (ci decideremo per uno de’ due nomi: uno è di troppo), su quell’altura, pare il tempio di Minerva, che videro gli esuli d’Ilio, prima apparizione di culto umano, in alto, tra quell’oscuro succedersi di colli sotto la caligo mattinale... Non ricordate? Quattro cavalli bianchi macchiavano il verde d’una prateria; e quegli stranieri gridavano (la voce arrivava fioca e come stanca tra lo sciacquìo del mare), gridavano, e c’era un bel vecchione tra loro: Italiam! Italiam!
Il mio Liceo somiglia dunque a quel tempio, ed è la gemma della città, ed è l’orgoglio e la gioia de’ buoni cittadini, che vi vengono a passeggiare intorno, nelle belle sere, per il grande viale di platani e pioppi, scansandosi qualche volta rapidamente avanti la corsa di due giovinetti, che fanno la ginnastica a modo loro e mio. E... come vivremo, compagni miei? Meglio d’ora, molto meglio. Quando si parla di scuole secondarie si sdrucciola sempre a ragionare di stipendio. Ecco, io vorrei che non se ne parlasse e non se ne fosse parlato mai; ma per altro un ragionamento in proposito l’ho fatto anch’io; ed è questo, e credo che torni: se si considera e somma il valore proprio (che si deve indurre, detraendo quello che si ha a detrarre, dall’utile che recano) delle licenze ginnasiali e liceali d’ogni anno, si trova che fanno un totale molto molto molto superiore al danaro che lo Stato sborsa per paga a chi insegna e per altro. Sicchè in verità lo Stato è bensì generoso coi discenti, ma a spese dei docenti. Vivremo dunque meglio, cari compagni. E i poveri? Gl’ingenui sfortunati? Non dubitate: li sapremo bene scovare noi, nelle soffitte e nei tuguri, questi ingegni sani, semplici, primitivi; e quando li restituiremo con l’agiatezza e la gloria alle loro mamme piangenti di gioia e di riconoscenza, troncheremo i dolci loro ringraziamenti, con i nostri, spiegando come — il suo caro ragazzo, signora, coi suoi ottimi successi ci ha chiamati tanti nuovi alunni, che, non per farle torto, ma possiamo consegnarle una buona sommetta, guadagnata da lui stesso, per i suoi primi passi nella carriera... — Così diremo, e il nostro cuore sarà beato.
Ma ho divagato di nuovo? No, perchè questo volevo dire, onorevole Martini, che, siccome nelle nostre scuole classiche avremo allora anche il sanscrito, e leggeremo Kâlidâsa, e ci inebbrieremo delle musiche de’ Kinnara e de’ Gandharva, noi ora vorremmo, che per una ragione o per un’altra, non si pregiudicasse l’avvenire, togliendo ora o rendendo facoltativo il nostro greco. Rendendo facoltativo! Ma ci ha pensato abbastanza alla stranezza di questa idea? Ma non è tutto facoltativo lo studio? Chi obbliga?... Noi, si risponde: sì, noi obblighiamo i nostri giovani a procacciarsi un certo tipo e una certa dose di cultura, quale ci pare adatto e sufficiente per entrare nelle Università. Ora il greco non ci pare necessario per tutti. Sta bene: ma perchè tanta premura, tanto rovello, tanta insonnia, direi, a ciò che i giovani se la procaccino questa cultura, col tipo e nella dose richiesti? L’insegnante ha un gran registro, dove sono segnate a ogni momento le pulsazioni di codesta cultura: sette, otto, cinque meno, cinque più. Badate, tastate ad ogni quarto d’ora, abbiate sempre tra le dita i polsi giovanili. Adagino con la roba nuova: interrompetevi, provate. Ogni due mesi o ogni mese (secondo ministri) rivista generale: l’uno dopo l’altro passino tutti (trenta o quaranta in ogni scuola) avanti il sig. professore, e ripetano il poco che egli ha potuto dire di nuovo, e mostrino — di settimana in settimana, di mese in mese — quali progressi hanno fatto “nella difficile arte del comporre„. Alla fine dell’anno scolastico, il professore compulsi i suoi registri, sommi e divida, dopo aver di nuovo tastato, interrogato, rivisto: cinque e tre quarti, può dar l’esame; cinque e un quarto, non può. Poi, esame di primo appello: quindici o venti giorni passati in rivedere, interrogare, tastare: sei, idoneo: cinque non idoneo. Poi, di lì a tre mesi, esami di secondo appello; altri quindici giorni buttati a tastare, interrogare e rivedere. Perchè perdere tanto tempo? Donde tanta premura minuziosa, seccante e dannosa a forza di voler essere amorevole? Lo imaginate voi il buon legnaiolo che ha uno o due apprendisti, il quale non seghi e non pialli, si può dire, più, per esaminare mese per mese, giorno per giorno, ora per ora, i progressi de’ suoi due garzoncelli nel segare e nel piallare? Poveri bimbi! Per loro sono pedate, se non imparano, e anche quando imparano; e apprendono guardando e imitando, e se apprendono, buon per loro; se no, a casa o a un altro mestiere! Perchè tanta pietosa cura per i nostri giovinetti delle scuole secondarie, che sono in fin dei conti professionali e non altro; per i giovinetti fortunati anche nel resto, che hanno tiepida, per lo più, la casa e abbondevole la mensa? Cura pietosa che non fa poi alcun bene a quelli per i quali pare necessaria, e porta infinito male ai pochi o molti pei quali è superflua. Quanto sarebbe meglio fare che tutti gli orari, programmi e regolamenti riuscissero nel loro complesso a questa “orazion picciola„: — Cari giovinetti, quando eravate nelle elementari, noi vigilavamo su voi, perchè imparaste: vigilavamo, sì, per il vostro bene, ma ora possiamo confessare che quel vostro bene si confondeva col bene nostro, con quello di tutti. Ora le cose mutano. Voi studiate principalmente per voi. Non diciamo che alla società non sia per venire utile e onore dai bravi medici e dai bravi ingegneri; ma i bravi medici e i bravi ingegneri non mancano alla società mai, perchè ci sono sempre quelli che diventano tali per loro irresistibile inclinazione contro tutti gli ostacoli, oltre ogni eccitamento. Che ce ne siano quaranta invece di venti, è sì un bene grande, ma non necessario: i venti lavorerebbero per quaranta, se rimanessero in venti. Dunque noi faremo a meno di esortarvi e di vigilarvi; e far perdere il tempo preziosissimo ai pochi o molti che vogliono riuscire e provano immenso diletto nello studiare oggi e proveranno domani grande utile e gloria nell’esercitare; e diminuire così anche il frutto e l’onore che la società può ritrarre da loro; per tener dietro agli altri, molti o pochi, che vogliono essere pregati e ripregati (carini!), lisciati, accarezzati, per far cosa non utile che a loro stessi. Somigliano questi ai bimbi che fanno le bizze e vogliono mangiare senza aprir la bocca. Or bene, noi non siamo mamme, nè sopra tutto mammine tenerine, che con le moine si mettano attorno a quella boccuccia per farla aprire, nè infine così irragionevoli e crudeli, che, a tavola (la scuola è un convito), facciano freddare la minestra agli altri, non permettendo loro di cominciarla finchè non si sia deciso di assaggiarla il bimbettino. Avete dunque tutti facoltà di studiare, libertà di non studiare. Fate voi, chè fate per voi. — Ma che assurdo è questo che nel mercato ci sia chi offre per una certa somma un certo numero di cose — greco, latino, matematiche, filosofia — e il compratore dica, che sì, il prezzo gli va e la merce gli torna, ma delle cose ne vuole una meno? Passiamo che quella sia cosa di cui non sappia che farsi. Ma via! porta a casa anche quella, chè tu non abbia col tempo a sentirne la mancanza; e a ogni modo non danneggiare gli altri compratori, che possano già vederne l’utilità, e vedano in tanto i mercatini riporre e certo non fabbricar più nè portar più in piazza la giunta mal gradita! E se questa "giunta" non fosse poi tanto da buttar via? Se questo "greco" non fosse poi tanto inutile?
Ma questo, onorevole Martini, lo dice anche lei, che è utile, utilissimo. O dunque? Ma lo crede meno utile che il resto. E anche tra il resto c’è il meno e il più utile, non è vero? Per esempio, il latino è delle discipline che avanzano, tolto il greco, la meno utile. Come no? Non sa lei che il latino, senza greco, s’intende poco, sì come lingua, sì come letteratura? Dirò meglio: si frantende. Pensi, onorevole Martini, allo pseudo-umanesimo succeduto all’umanesimo vero, pensi al latino de’ seminari (ora si vanno rimettendo), pensi la goffaggine di quell’arte, la nullità, falsità e cecità di quella critica! Sapevano il latino quei maestri d’umanità e retorica? A ogni momento ce li ricordano per farci vergognare della nostra ignoranza; e non è vero che lo sapessero, quel loro latino campato in aria, solo solo, pieno di licenze e bizzarrie, che essi ammiravano ne’ suoi scrittori, per partito preso, per astio, si può dire, alla modernità. Senza il greco non si capisce la differenza in latino tra poesia e prosa, e tra prosa d’uno e prosa d’un altro. Senza il greco, il latino è possibile saperlo, come (io cerco un paragone per dispensarmi dal dimostrare io ciò che tutti gl’intendenti dànno per dimostrato), come sapere scrivere senza saper leggere. Senza il greco dunque il latino non può sostenersi. Ed ella lo sa di certo, che l’uno porterebbe via l’altro e che Omero ritornerebbe con Virgilio a braccetto nell’asfodelo prato; sebbene... Sebbene, mi ricordo, tra i cari giorni passati per sua benignità in Roma, una sera bella tra tutte e un conversare più d’ogni altro memorabile. La sera del banchetto, ella ci disse: Altro che greco! si tratta di difendere il latino minacciato anch’esso, e come! E io pensai che tanto fosse come in un incendio gridare che bisogna salvare il primo piano e che perciò sì deve abbattere il pian terreno. E potevo anche aggiungere, venendo da lei, così autorevole, la proposta dell’abolizione, che lei, proprio lei, appiccava fuoco al pianterreno appunto per salvare il primo piano, il quale, s’intende, senza quell’incendio non avrebbe corso altri pericoli. Ma l’aggiunta sarebbe stata ingiusta, perchè è vero, pur troppo vero, che da molti, da troppi, si parla contro il greco e contro il latino. E contro l’antico italiano? contro Dante? Eh! io non vedrei davvero con quali ragioni si potesse difendere lo studio della Divina Comedia contro chi avesse costrette alla fuga l’Eneide e l’Iliade. Non sarà certo la teologia scolastica che le parerà i colpi degli utilitari; nè le otterrà grazia presso i pietosi della giovinezza la sua relativa facilità. Oh sì! Destinate due fanciulli, di pari ingegno e voglia, uno all’Iliade, l’altro alla Comedia: giungerà prima quello a intendere l’ira d’Achille, nel testo greco, attraverso il Curtius e lo Schenkl, che l’altro a seguire Dante nel suo viaggio dalla selva selvaggia alla divina foresta, e da questa all’empireo.
Un paradosso? No davvero. Piuttosto è una asserzione gratuita quella che il greco si apprenda difficilmente e che in realtà nelle nostre scuole non si apprenda. I principii trovano il giovinetto quasi sempre curioso, voglioso, animoso. Li impara, generalmente, bene, e li ricorda con una fedeltà mirabile. Ma è vero che i suoi passi non sono sempre così lunghi: presto è costretto (dico costretto) a pestare le sue orme. Come mai? Mancano nelle nostre scuole certi strumenti necessari. E li fabbricheremo, stia certo, onorevole Martini; se ci darà tempo. Ma intanto mancano: manca, per esempio, una collezioncina ricca e svariata di scrittori con apposito vocabolario per il passaggio dagli ormai frusti esercizi dello Schenkl e d’altri a una lettura più larga. Già negli esami della quarta e quinta ginnasiale noi non ci accorgiamo di proporre a quei poveri giovanetti un logogrifo piuttosto che un tema, una tortura più che un logogrifo, un’assurdità crudele. Dobbiamo provarli nella grammatica, ed esigiamo che ci rispondano in lessico. Essi si scervellano, con effetto, per lo più, di nostre ignoranti risa, non a definire quale caso sia di quel nome e quale tempo di quel verbo, ma a rintracciare, fra trenta o quaranta significati di una parola, quale sia quello che si adatti a ognuna delle parole del tema e che non contrasti a quello della precedente e della seguente, che è anche esso da rintracciare in due colonne di un vocabolario usato e veduto forse quel giorno per la prima volta. Quella è la prova che dà il primo scoraggiamento, quasi un disinganno al piccolo alunno. Il quale cambia spesso poi lo scoraggiamento in disgusto e in odio, per molte ragioni che non tutte dipendono da lui, e delle quali la più grande è quella, che di una lingua e di una letteratura vissuta per quasi due millenni e mezzo con tante forme e con tante differenze da dialetto a dialetto, da genere letterario a genere letterario, da scrittore a scrittore, noi non sappiamo o non abbiamo saputo finora circoscrivere a mano a mano i periodi da studiare, e fornire a ciò i sussidi necessari. Ma li forniremo: intanto si è incominciato. Con tutto questo, i giovani che escono dal Liceo sapendo almeno tanto di greco quanto sanno di latino, non sono pochi; e non sono rari quelli che lo ricordano poi almeno quanto la filosofia e la matematica; e nelle facoltà letterarie è più facile trovare chi si dedica al greco, che chi si dia al latino e forse all’italiano; il che è segno non sempre e non solo di una maggiore genialità persuasiva e attrattiva nel professore di greco all’Università sopra gli altri suoi colleghi, ma anche di maggior frutto e di maggior diletto trovato in quello studio dall’alunno nelle scuole secondarie. Creda, onorevole Martini, che prima di cedere per cotesta ragione al decreto demolitore del nostro greco, noi pretenderemo una perizia comparativa. Se il greco si deve abolire perchè non si sa, cioè si sa poco dai più, noi domanderemo quale altra materia si sappia molto da questi molti o da questi troppi. La matematica? la filosofia? la fisica? l’italiano? Eh! via!
Di questo palio di ciuchi non daremo lo spettacolo, suppongo, e ci appiglieremo ad altre ragioni e ad altri sistemi. Che la coltura sia più intensa e più semplice, è desiderio comune. A proposito, che cosa è questa cultura? Confesso che non ne ho avuto sempre idea chiara: adesso mi pare che ella debba essere il preparamento dello spirito a ricevere non solo una istruzione speciale e professionale, ma anche, e più, ogni seme ideale, che sparga la scienza e l’arte. Nè si tratta solo di fornire estimatori all’arte e propagatori alla scienza (sebbene, se solo questo fine si raggiungesse, gli scrittori italiani potrebbero vendere i loro libri in Italia!), ma di tener pronto il terreno ai germi, che il genio dell’umanità semina, passando come una meteora, a capriccio; ai germi che sbullettando e sfronzando diventano le grandi opere d’arte e le grandi scoperte scientifiche, mirabili sempre non tanto a vedere quali elle sono, quanto a pensare come e donde elle nacquero.
Bene: questa coltura è dunque ben necessaria, se si vuole che l’Italia ricominci a dare anche lei le vegetazioni singolari di cui sono così feraci le altre nazioni e le altre razze. Semplifichiamola dunque pure, se semplificare vale migliorare. Si dovrà per questo togliere il greco? Strano, cominciare da quella lingua che fornisce il linguaggio a tutte le scienze, da quella letteratura che procaccia ispirazione e dà norma e regola a tutte le arti, da quello spirito che anima ancora del suo primo impulso, già così lungi, il pensiero umano! O non sarebbe meglio provare, niente più che provare, con altro? Prima di tutto si potrebbe diminuire l’orario delle lezioni, cessando d’insegnare quello che si suole imparare da sè e non si può imparare se non da sè. Ci sono complessi di cognizioni cui l’industria degl’ingegni moderni presenta in giornali e libri con precisione, diremo, uguale, con chiarezza uguale, se si vuole, e con ampiezza e allettamento molto maggiori di quelli con cui possa presentarli un povero professore che ha due polmoni soli e insegna quando vuole l’orario e non quando lo scolare è più disposto ad attendere e intendere. Si pretenda che i giovani li abbiano, tali complessi di cognizioni, si dia loro anche qualche utile avviso in proposito, si forniscano loro biblioteche sufficienti a questo fine, e si veda ogni anno, ogni tre anni, ogni cinque anni, ogni quanti anni vi pare, se li hanno acquistati e conservati; ma non si facciano perdere loro nell’ascoltare dall’insegnante, nel riudire dai compagni, nel dire alla loro volta una piccola parte di quei complessi, tante ore quante agli occhi rapidi e alla mente raccolta basterebbero per acquistarli e capirli tutti interi. Per questo verso dunque c’è da semplificare, e non importa che io dica in quante e quali discipline. Ma ce n’è una, tra esse discipline, alla quale, chi comanda, vorrebbe dare sempre più ore e lavoro, per la quale invece e il lavoro e le ore potrebbero essere diminuite. È l’italiano. Prima di tutto quel famoso esercizio di comporre a che cosa è diretto? A fare degli scrittori? Gli scrittori, degni di questo nome, che hanno cioè uno stile, vale a dire una individualità, una ragione di essere chiamati scrittori, sono necessariamente “autodidatti„. A dare l’abito del pensiero e del ragionamento? Ma a ciò non servono forse meglio le scienze che s’insegnano, dalla filosofia alla matematica o dalla matematica alla filosofia? E si badi che questo esercizio del comporre è propriamente in contrasto o almeno non è mai d’accordo con le dette scienze ragionative. Domando io ai miei bravi colleghi di italiano, se pur assegnando spessissimo temi di etica e di politica, si accorgano mai che i giovani scrittori hanno appunto un altro maestro per provvederli d’idee e agguerrirli di ragionamenti in proposito a tali temi. Domando poi ai miei bravi colleghi di filosofia, se hanno mai trovato un professore d’italiano che non abbia respinte, riempiendole di segnacci e di punti ammirativi, le pagine delle loro lezioni che i poveri alunni (caso strano, perchè gli alunni non se ne accorgono quasi mai, che un tema filosofico loro assegnato è filosofico di quella tale filosofia che insegna appunto il professore di filosofia) abbiano, i poveri alunni, trascritte per rispondere al tema del professore di italiano. E quante altre domande farei se potessi dilungarmi. Chi può accorgersi mai, leggendo un “componimento„, che il suo autore è istradato a osservare e conoscere la natura, dai professori di storia naturale e di fisica? Quando mai vi apparisce un argomento matematico? Anche la storia, che pure vi fa capolino, è generalmente solo quella dei rapporti tra le vicende politiche e le letterarie; storia così arbitraria, falsa, convenzionale, appassionata, noiosa, che nulla più.
Dunque, semplifichiamo, semplifichiamo! Smettiamo di oltraggiare nel tempo stesso la scienza e l’arte, di collare ogni settimana buoni ragazzi, invitandoli a dimostrare (niente meno nel secolo di Darwin!) con ragionamenti ed esempi (sì deduttivamente e sì induttivamente, come Platone e come Aristotele) la verità di... un assioma. Chè per lo più è un assioma, e più è chiaro e indimostrabile (per quanto in tal proposito non sia luogo a più o meno), più il tema pare bello e adatto.
Toccano quindi per lo più questi temi chiari ai bimbetti delle prime classi del ginnasio, i quali se la cavano ripetendo prima l’enunciato, poi negando il suo contrario, quindi interrogando in forma positiva e forma negativa per ribadire che l’enunciato è vero e il suo contrario è falso; dopo di che vien la volta dell’esempio: Viveva nei contorni della Toscana una famiglia composta di padre e madre e un figliuolo chiamato Luigi... Nè solo l’esercizio di comporre è troppo per non dir di troppo, in questa forma. Dall’orario dell’italiano si può sottrarre tutto il tempo che si dà alla lettura in iscuola dei libri o supremamente dilettevoli o supremamente noiosi. I primi lasciateli godere al giovinetto liberamente, in casa, nelle ore in cui la sua mente apre le ali; gli altri rimandateli ai topi di biblioteca, che se li rodano.
Del resto io dico di semplificare e non di restringere. Io non intendo una ragione che per molti è la massima e forse l’unica. Vogliono questi meno ore, meno materie, punte lingue difficili, punte materie astruse, perchè la salute dei giovani ci patisce. Quanto a questo, bisogna, cari babbi e care mamme, rassegnarsi. Sapete dell’Aedo, cui la Musa amò sopra tutti? “Degli occhi bensì lo privò, ma gli dava l’arguto canto„. Così è, presso a poco, per tutti quelli cui la Musa, la dea d’ogni scienza e di ogni arte, ama, per poco che ami. Non li accecherà a dirittura, ma li renderà, presto o tardi, più o meno, miopi. Ben altro fa la Terra, che pure è madre, di quelli che zappano la sua corteccia e frugano le sue viscere! Ed ella dà il dolore senza adeguato compenso, nè ideale nè materiale. E i vostri figli, il compenso, l’hanno, e qualche volta insigne, e spesso superiore ai loro meriti; e non si dà quasi più il caso, per lo studio, di divenire gobbi, come si dà, e senza che ne facciate troppi lamenti, per la bicicletta.
Note
- ↑ Queste sono pagine scritte alcuni anni addietro in risposta a F. Martini, un cui scritto in proposito del greco, aveva il titolo: Punto e da capo.
- ↑ Scrivevo sugli ultimi di settembre.
- Testi in cui è citato Ferdinando Martini
- Testi in cui è citato Kālidāsa
- Testi in cui è citato Omero
- Testi in cui è citato Publio Virgilio Marone
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia
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