Ricordi storici e pittorici d'Italia/I monti degli Ernici

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I monti degli Ernici

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La campagna di Roma I monti Volsci
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I MONTI DEGLI ERNICI

1858.

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I.

Sonvi nella campagna di Roma alcune località speciali, le quali o per la loro remota antichità, o per la bellezza dei dintorni, o per le doti caratteristiche delle popolazioni o per monumenti architettonici, invitano il forestiero a visitarlo, ed a trattenervisi. La regione della quale voglio ora far parola appartiene alla legazione di Frosinone, e si stende superiormente al fiume Sacco sulle pendici dell’Apennino; le città principali in questo territorio degli antichi Ernici, sono Anagni, Ferentino, Alatri, Veroli, e Frosinone, località tutte più antiche di Roma, e che risalgono ai tempi favolosi di Saturno, ed a quelli in cui i Ciclopi edificavano le loro mura gigantesche. Era mio disegno, non solo visitare queste città, ma penetrare eziandio più addentro ai monti, per vedere la bella rinomata e solitaria certosa di Trisulti, ed il pozzo od imbuto nelle roccie di Santulla, in vicinanza della grotta di Collepardo, a cui si dà nome di fonte d’Italia, del quale molti parlano, ma che pochi si recano a visitare.

Partii d’Anagnì a cavallo in compagnia di un campagnuolo che mi ero tolto a guida e per servitore, facendo una strada amenissima, della quale vorrei potere dare una idea a miei lettori.

Nello scendere dalla collina su cui sorge Anagni, si vede in distanza di otto miglia la città di Ferentino. Dessa compare quale paese ragguardevole, collocato in cima ad ampia ed estesa vetta di un colle tutto [p. 8 modifica] verdeggiante per vigne, e per giardini, mentre sorgono qua e là pittoricamente in cima dei monti nere torri del medio evo, chiese, e conventi. Amenissima si stende ai piedi di quelli la pianura, e si contempla sempre con nuovo piacere a diritta la catena dei monti Volsci, i quali sorgono belli e vari d’aspetto perdendosi nell’azzurro del cielo. La strada del resto sino a Ferentino sarebbe monotona, quando non valesse di quando in quando a distrarre il viaggiatore l’incontro di un gruppo di Ciociari. Ne trovai parecchi, imperocchè la via Latina serve al trasporto a Roma dei prodotti non solo di queste contrade, ma ancora di quelli dei confini napoletani, e gli Arpinati, compaesani di Mario e di Cicerone, sogliono portare i loro bestiami sul mercato della città eterna. Incontrai parecchie comitive degli abitanti dei dintorni: carri di forma grossolana e pesante, con due ruote enormi, denominati barocci, tirati da buoi di pelame bianco dalle corna lunghissime. Alcuni di questi barocci erano carichi di sacchi di grano, altri di mercanzie, la maggior parte però di gabbie di polli, ed i campagnuoli che li guidano sbadatamente con i loro cappelli a punta, con i loro abiti di colore scarlatto, e coi loro sandali, avevano un aspetto propriamente curioso.

Giunto a Ferentino avevo speranza di potervi godere colà la società di una famiglia della città, alla quale ero stato raccomandato. Un giovane di mia conoscenza, impiegato nel tribunale di una città della Sabina dove aveva soggiornato a lungo, aveva la sua innamorata a Ferentino, e siccome questa geniale relazione si era da alcun tempo venuta raffreddando, il giovane il quale avrebbe voluto rannodarla, e non mi aveva potuto accompagnare nella mia gita, come sarebbe stato suo desiderio, mi aveva pregate di volermi incaricare della parte di Galeotto, o di messaggiere di amore; ufficio al quale mi prestai di buon grado. Mi consegnò pertanto una tenera epistola per la sua bella, raccomandandomi di consegnarla in secreto a questa, senza che se ne accorgesse un suo fratello prete. [p. 9 modifica]Sceso appena alla locanda, mi portai alla casa che mi era stata indicata; la bella e graziosa ragazza stava appunto alla finestra, salii le scale, e trovandosi soli nella prima stanza, che il prete non era presente, dopo avere fatto in buona forma i saluti dell’amico, trassi fuori la missiva e la consegnai. La giovane signora si trovò molto confusa; e dopo aver presa la lettera diventò pallida in viso come una morta; senza dire una parola, andò nella stanza vicina, di dove dopo pochi minuti uscì pregandomi di entrare. Appena entrato mi trovai di fronte al prete, che stava caricato in un letto tutt’altro che pulito, tenendo in mano la lettera dell’amico che leggeva attentamente.

Non tardai a riconoscere che la povera ragazza stava sotto l’influenza dispotica del fratello; che doveva pure vivere una misera vita, e che non aveva la forza morale di sottrarsi alla dura tirannia del reverendo. Questi, il quale per altra parte mi avrebbe potuto essere utile per agevolarmi la cognizione della storia e delle cose notevoli della sua città, mi accolse freddamente, ed imbarazzato; ed io abbandonai la casa, malcontento di avere acconsentito incaricarmi di quel pietoso ufficio. Intanto trovai altre persone che mi servirono di guida in Ferentino, e visitai in tutti i sensi questa antichissima città del Lazio.

Dessa, tuttora oggidì ragguardevole sede vescovile, consiste in un laberinto di strade, per la più grande parte strette, interrotte qua e là da qualche piazza. La tranquillità tutta campestre, l’assenza totale di movimento, la solitudine che regna nel maggior numero delle case, danno alla città un aspetto di medio evo, mentre qua e là tronchi di colonne, avanzi di sepolcri, frammenti di marmi con iscrizioni romane, ricordano età più remota. Mi posi a sedere sur una piccola piazza, di dove si godeva bella vista del territorio degli antichi Volsci, e non tardai a provare un vero senso di ben essere. Vidi una schiera di donne attorno ad un antico pozzo del medio evo, intente a cacciare giù, affidato ad una corda, l’uno dopo l’altra il loro secchiello di latta, lavoro pesante e [p. 10 modifica]faticoso, imperocchè non vi sono a Ferentino, come del resto difettano generalmente in tutte le città del Lazio fontane, dalle quali sgorghi naturalmente l’acqua. Spesse volte in queste regioni il viaggiatore dura fatica scuotersi da quel torpore, da quella specie di vita meramente contemplativa, a cui lo invita il caldo della state, e la profonda tranquillità che lo circonda. In quello stato fisico e morale, in quella solitudine, il pensiero va vagando, e si porta spontaneamente alle idee delle persone, delle cose lontane, alle memorie dei tempi trascorsi, delle età remote. Intanto il mio sguardo cadendo sopra una iscrizione romana che mi stava vicina, la vista di questa mi scosse, e mi richiamò al mio disegno di visitare le mura ciclopiche e romane di Ferentino, dove punto non mancano le antichità.

In origine dessa era circondata da mura ciclopiche, mentre sul punto più eminente della collina sorgeva la rocca. Non reca punto stupore che sussistano tuttora avanzi notevoli di quelle opere gigantesche, frutto di una civiltà della quale non si hanno guari altri ricordi, ma che doveva pure essere già innoltrata; fa sorpresa piuttosto che costruzioni di tanta solidità, abbiano potute essere in parte rovinate. Imperocchè in molti punti quei massi enormi furono spostati; in altri vi furono sostituiti muri di costruzione romana; in altri si ravvisano costruzioni del medio evo, alla foggia detta Saracena, in guisa che con un solo colpo d’occhio, si possono ravvisare sopra un ristretto tratto di muro i caratteri di tre diversi periodi di civiltà grandemente gli uni dagli altri discosti. Meglio che da qualunque altro punto, si può fare questa osservazione presso la porta di Frosinone, ed a quella Sanguinaria, antica porta di meravigliosa struttura ciclopica, che fu dapprima ridotta ad arco dai Romani, quindi deturpata peggio ancora da costruzioni infelicissime del medio evo. Le fondazioni però, sino ad una certa altezza, sono costituite tuttora da massi ciclopici voluminosissimi, irregolari, congiunti gli uni agli altri con singolare perfezione. [p. 11 modifica]

Più degna però ancora di osservazione si è l'antica rocca, che sorge in cima alla collina, circondata dessa pure di mura da quell’epoca. Sussistono tuttora in gran parte queste mura di cinta, come parimenti le fondazioni della fortezza, costrutta con pietre rettangolari dai Romani la quale aveva porto, ed era munita di torri. Quella fortezza doveva essere inespugnabile, ed ancora oggidì si potrebbe con poca pena rendere tale quella posizione. Durante la dominazione romana, teneva colà la sua stanza il prefetto delle città. Durante poi il medio evo, sostenne quella rocca parecchi assedi; scorgonsi tuttora all’estremità del piano, in cima alla collina gli avanzi del castello superiore, e particolarmente due torri mozze, le quali sorgevano agli angoli di una fortezza di forma quadrata. Desse preducono un effetto sommamente pittorico. Si può osservare in quasi tutte le città del Lazio, che le chiese cattedrali vennero costrutte sull’area dove sorgevano gli antichi castelli, e per certo non potevano trovare località più adatte. I vescovi fabbricarono per lo più a fianco delle cattedrali i loro palazzi, e per tal guisa si trovavano contemporaneamente protetti dal castello, ed in grado di dominare da questo la città. Il vescovato di Ferentino si è uno dei più antichi dei dintorni, e quelli che lo fondarono si stabilirono a fianco della rocca o castello, riducendo ad uso di abitazione del vescovo l’antico palazzo del prefetto, mentre il duomo venne edificato coi materiali tolti agli antichi monumenti.

Nell’entrare in città per la porta romana, costruzione di una solidità imponente, si hanno tosto davanti agli occhi il duomo ed il palazzo vescovile che gli sorge a fianco e si entra in pieno medio evo. La chiesa è piccola, però di belle proporzioni ricca di iscrizioni, e di frammenti di sculture antichissime, risalendo talune perfino al secolo X; parte incastrate nei muri, parte disposte nel pavimento. Il palazzo vescovile a fianco offre un misto di vari stili architettonici, e porge pienamente l’immagine di un piccolo castello deserto. [p. 12 modifica]

Esistono inoltre in Ferentino vari monumenti del medio evo degni di attenzione, fra quali voglio ricordare almeno la graziosa chiesa di S. Maria Maggiore. Sorge questa sur una piccola piazza, nella parte inferiore della città, ed è una fra le opere più perfette di stile gotico-romano nel secolo XIV e XV, che esistano nel Lazio. Mi dissero sia affatto simile alle due chiese di Fossanova e di Casamari, che non ho viste ancora. Ad onta che più di ogni altra cosa m’interessino i monumenti del medio evo, e che per la natura de’ miei studi, la mia attenzione sia rivolta più di tutto alle iscrizioni che riguardano Roma in quel periodo, non trascurai però di farmi condurre alle antichità romane, che stanno disperse qua e là nella città. Se non che, queste non sono nè molte, nè di grande interesse. Sotto questo aspetto gli abitanti di Ferentino menano gran vanto del così detto Testamento. Mi dovetti arrampicare con gran fatica sulla roccia, e fra le spine di un monte, in parte coltivato a vigneti, per arrivare a questa meraviglia, e finalmente mi trovai di fronte ad una grande iscrizione scolpita nel vivo sasso. I caratteri di questa erano elegantissimi, e vi si diceva che Aulo Quintilio, quattro volte edile, era stato benefattore della sua patria, avendo lasciato a questa per testamento tutto il suo avere, e che il municipio per gratitudine aveva decretato gli fosse eretta una statua nel foro.

Allorquando, stanco di tutte queste escursioni, feci ritorno alla mia locanda presso la porta di Frosinone, trovai tutta quanta la casa in moto. Erano ultimati in quel giorno gli esami pubblici al ginnasio della città, e parecchie famiglie agiate delle città dei dintorni, erano arrivate per ritirare i loro figliuoli, e portarli a casa a passare le vacanze autunnali. Padri, madri, ragazzi occupavano tutte le stanze della locanda, facendovi un chiasso il quale non aveva fine; gli uni partivano, gli altri pranzavano, gli altri si preparano a passare la notte, e durai grande fatica a potermi conservare la camera che mi era stata fissata dapprima. Se non che mi fu impossibile quietare, imperocchè [p. 13 modifica]donne, ragazzi, servitori, continuarono ad agitarsi per tutta quanta la notte. E quasi non bastasse cominciarono a farsi udire al di fuori canti continui. Erano compagnie di pellegrini i quali profittavano della frescura di quelle ore, per recarsi a non so più qual santuario. Le loro litanie, le quali eccheggiavano in quelle ore tranquille, producevano una profonda impressione, ed il canto di tutte quelle persone che non si vedevano, non si sapeva d’onde venissero, nè dove fossero dirette, nel silenzio della notte colpiva vivamente la fantasia. Era appena passata una compagnia, che si udivano in lontananza gli Ora pro nobis di un’altra, la quale non tardava a passare davanti la casa, ed ad essere seguite da altre ancora.

Fui lieto di vedere spuntare il giorno, ed il sole non era ancora comparso sui monti, che attraversavo la città a cavallo per portarmi ad Alatri. La strada era magnifica, dapprima in mezzo a vigneti, quindi in una regione montuosa, ombreggiata da piante annose di castagne, e rallegrata da copiose sorgenti. Se non che, procedendo avanti si faceva sempre più severa, correndo a traverso una campagna solitaria, in fino a tanto che arrivammo ai piedi di una collina nera, in cima alla quale trovammo le rovine di una torre del medio evo, ed alcuni avanzi di antiche mura. Mi recò viva soddisfazione passare in vicinanza a questo castello che avevo contemplato già da Anagni, senza sapere che io lo dovessi trovare sulla mia strada nel recarmi ad Alatri. Era questo l’antico Fumone, e la sua comparsa inaspettata mi richiamò tosto ai tempi di Dante, e di Bonifacio VIII. Coloro i quali sono al corrente della storia dei Papi, ricorderanno che Celestino V dopo essere stato costretto ad abdicare in Napoli, e dopo essere stato consegnato a Bonifacio suo successore, venne rilegato in questo castello, dove morì il 19 maggio 1296 nella grave età di ottantun anno, dopo dieci mesi di dura prigionia. Nel contemplare Fumone perduto in questa regione malinconica e solitaria, non potei a meno di riconoscere sarebbe stato difficile trovare località più adatta di questa, [p. 14 modifica]a sito di confine od a prigione. Non era però la solitudine la quale doveva riuscire dolorosa a Celestino, il quale aveva vissuta tutta quanta la sua vita quale eremita in una specie di deserto. Sebbene grandemente allettato da quelle memorie del medio evo, non potei però visitare Fumone, e mi contentai di contemplarlo sospeso alle rupi, quale un nido di briganti, sopra la mia strada. Proseguii questa superando due altri monti, e salendo sulla vetta di una terza altura, dove giunto, mi si presentò agli occhi un panorama di inarrivabile bellezza; di là si scorgevano tutti gli Apennini, la pianura, la catena dei monti più lontani e qua e là biancheggiavano borghi e città, fra le quali Vico e Guercino, che facilmente si discernevano in lontananza.

Di là la strada scende dolcemente nella fertile campagna di Alatri, la quale mi si presentò tutto ad un tratto in bello aspetto, dopo di avere girato una collinetta. Cavalcando attraverso mura annerite dal tempo, in uno splendido mattino di estate, fui rallegrato dall’aspetto pieno di vita della città, ricca di molte belle case del medio evo, le quali davano a capire come a quell’epoca la fosse stata in fiore. Non ho veduta altra città del Lazio, nella quale predomini cotanto nell’architettura lo stile gotico-romano. Alatri è il più gran centro d’industria e di commercio dei monti Ciociari; vi si fabbricano stoffe, tappeti, coperte di lana, e quelle giubbe, e quei capelli neri fatti a punta, che si portano in tutta la campagna di Roma. Era inoltre giorno di mercato, ed in tutte le strade si vedevano ammonticchiate le frutta di agosto, fichi, pesche, albicocche, pere voluminose, le quali facevano bellissima vista. Gli abitanti dei monti, alti di statura, nerboruti, con i loro abiti di colore scarlatto, coi sandali, con i loro cappelli guerniti di fiori, e piantati fieramente in testa, mi ricordavano che mi trovavo nel Latium ferox di Virgilio, la cui popolazione robusta ed energica mantenne tale carattere durante tutto intiero il medio evo. [p. 15 modifica]

Le strade sono in generale ristrette, oscure e nere, imperocchè le case sono tutte costrutte di roccia calcare di colore cupo, e di rado imbiancato con calce. Mi recò poi stupore il trovarne buon numero le quali avevano aspetto di palazzo, nome che si dà nelle città romana ad ogni casa signorile la quale abbia un portone, tanto più se appartiene ad antica famiglia patrizia; e convien dire fossero molte in Alatri durante i secoli XV e XVI le famiglie nobili, imperocchè la maggior parte dei palazzi della città appartengono a quell’epoca. Hanno in generale tetto piatto, molto sporgente all’infuori, e la facciata formata di massi regolari di roccia calcare, presenta per il colore nero, aspetto severo. Le porte sono di architettura gotica, ad archi leggieri; ne osservai sei in un bel palazzo, sopra le quali correva una cornice di ottimo gusto, e sopra questa sei finestre di bellissime proporzioni. Tutte le finestre poi sono di stile gotico romano affatto simili a quelle degli antichi campanili di Roma, consistenti in due archi sostenuti da una piccola colonna nel mezzo. Questo stile di architettura dà un carattere imponente alla città; vidi però alcuni edifici i quali mi richiamarono alla memoria quelli dei tempi delle repubbliche toscane, particolarmente di Siena; il palazzo Jacovazzi si distingue dagli altri per la sua altezza, e per la sua facciata seria ed imponente di stile semigotico, ed essendo ora proprietà del municipio che vi tiene la sua stanza, può valere opportunamente quale tipo dell’architettura locale.

Era stato raccomandato da Roma ad una delle famiglie più distinte di Alatri, la quale per ricchezze e per influenza aveva sostenuta parte notevole nella storia della città. Cercai tosto del palazzo Grappelli, e difatti meritava quella casa il nome di palazzo. Una ampia corte interna, belle scale in pietra, un salone vastissimo nel quale trovavasi eretto un teatrino di dilettanti, molte stanze ornate di pitture a fresco, finalmente un’antica torre del medio evo che sorgeva tuttora fra mezzo ad alcune costruzioni latterali in cattivo stato, e che addittava che una volta la [p. 16 modifica]casa doveva essere stata fortezza; il tutto dava a comprendere che questa doveva essere stata residenza di ricchi signori. Se non che ora tutta andava in rovina; gli addobbi interni erano più che modesti, e composti per la più gran parte unicamente di reliquie di tempi migliori, e mi si assicurò che questa famiglia al pari di molte altre della città fosse caduta in povera fortuna. Intanto la gioventù che vidi nella casa era tutta fiorente di vita e di salute, e contemplai con piacere le vivace ragazze, cresciute stupendamente in quest’aria purissima dei monti. Non hanno qui probabilmente i divertimenti lunghi e noiosi di Roma, ma nella cerchia di una piccola città sono di continuo in moto, ed alla sera si ricreano col canto e col ballo.

Allorquando domandai conto delle cose notevoli di Alatri, mi si raccomandarono in modo particolare la chiesa di S. Maria Maggiore, ed i muri ciclopici, i quali erano stati del resto lo scopo della mia gita. La chiesa, posta sopra una piazza assai curiosa, composta tutta di case del medio evo, è di piccola architettura gotica-romana. Aveva due torri delle quali una sola sussiste, e neanco ultimata od in parte distrutta. Le finestre di questa sono ad archi romani; la facciata della chiesa irregolare, e composta di tre torri di architettura gotica, produce una singolare impressione colla mostruosa finestra di forma circolare aperta sopra la porta principale e sproporzionata affatto al resto dell’edificio. La rosa di essa è guarnita di vetri colorati, però moderni. La cornice della porta è ornata di foglie di acanto, e l’arco di quella riposa sopra un gruppo di colonne riunite le une alle altre. L’aspetto antico della facciata prometteva all’interno pure una chiesa del medio evo, se non che, appena entrato in questa, provai un vero disinganno, imperocchè, sebbene le tre navate composte di quattro grandi archi siano di stile semigotico, tuttavia tutto l’interno venne malamente ristaurato senza gusto, prodigandovi in ogni dove quelle imitazioni di marmi a vivi colori, che sono ora pur troppo di moda in Roma. [p. 17 modifica]La navata di mezzo venne illuminata con due finestre a rosa ad ognuno dei lati, ed una parimenti ne venne aperta sopra la tribuna. Cercai invano sculture antiche; l’unica che possa meritare qualche attenzione, si è il battistero formato da un vaso sostenuto da tre cariatidi, lavoro grossolano del medio evo.

Me ne andai tosto alle mura ciclopiche. Alatri era in origine circondata di queste al pari di Ferentino, ma pochi avanzi rimangono della cinta della città, e solo sussiste quella detta rocca, monumento sorprendente di quell’epoca remota, e di cui non trovasi l’eguale in tutte le città del Lazio. La sola vista di queste mura, le quali sosterrebbero il paragone colle costruzioni più colossali dell’Egitto, basterebbe a compensare ampiamente la fatica del viaggio. L’antica rocca di Alatri (chiamata ora Civita, quasi la città per eccellenza) si trovava all’esterno, sulla collina la più elevata, attualmente nel distretto del duomo, imperocchè quivi pure, come a Ferentino, la cattedrale ed il vescovato si appoggiarono all’antica fortezza. Questa collina sulla sommità della quale, ridotta a piano trovasi il duomo, è internamente circondata, sostenuta, e rivestita di mura ciclopiche, dell’altezza di ottanta a cento piedi. Allorquardo mi si presentò davanti agli occhi quella costruzione mostruosa, allorquando contemplai quei massi titanici in ottimo stato, quasi non contassero secoli e secoli di durata, ma unicamente pochi anni, provai impressione di stupore maggiore a quella che mi colpì la prima volta che vidi il Colosseo. Imperocchè in un periodo di maggior coltura, con maggiori mezzi meccanici, si comprende come si siano potuti edificare, ed il Colosseo, e le terme di Caracalla e di Costantino, ed anche le mura di Dionigi a Siracusa, le più grandi opere di tal genere che io abbia vedute fin qui. Ora in Alatri abbiamo davanti agli occhi mura di tanta altezza, di cui ogni sasso non è un parallellepido od un cubo lavorato, ma un ingente masso rozzo di forma irregolare, e non possiamo comprendere quali fossero i mezzi meccanici atti a muovere quelle [p. 18 modifica]moli, e meno ancora a disporle le une sopra le altre in guisa, da non lasciare il menomo interstizio, per modo che il tutto riuscisse a formare quasi un mosaico gigantesco, lavorato con singolarissima precisione.

II.

La tradizione attribuisce queste opere ai tempi di Saturno, andando al di là del periodo di civiltà che l’erudizione attribuisce agli Indo-germani ed ai Pelasgi, riducendosi in sostanza ad ammettere che non si sanno quali popoli abbiano eseguite tali costruzioni. Basta però vederle per persuadersi che furono opera di popoli già inoltrati grandemente nelle vie della civiltà, ed inoltre trovandosi queste città ciclopiche vicine le une alle altre, e sparse su tutta quanta la superficie del Lazio, è facile argomentare che esistette in tempi antichissimi in questa regione buon numero di tali republiche, o tribù, o comunità, di cui non conosciamo le relazioni delle une colle altre. Ed inoltre la costruzione di tali fortezze spiega come quelle città dovessero trovarsi di continuo in guerra fra di loro, esposte a continue sorprese e scorrerie, e come mal secure dovessero essare fra loro le condizioni della vita. Che ove si volesse che alla natura colossale delle opere corrispondessero le forze fisiche degli uomini, allora sarebbe forza ammettere che quelli i quali le innalzarono, od erano destinati ad attaccarle, a difenderle, dovessero essere vera razza di giganti; se non che questi edifici risalgono tutti al periodo del lavoro colossale, inizio della civiltà di tutti i popoli, ed in tutte le regioni, al quale poco alla volta succede il gusto del puro e del bello, ottenuto con minore spreco di forze. E sovratutto non converebbe far risalire questi lavori ciclopici a tempi troppo remoti, a tempi favolosi; forse furono eseguiti quando Roma era già fondata, ed il passaggio da queste costruzioni a quelle poco meno colossali con pietre lavorate e regolari degli Etruschi [p. 19 modifica]e dei Romani, fu più rapido di quanto generalmente si ritenga.

Si aveva accesso a questa cinta ciclopica degli antichi abitanti di Alatri per una porta principale, costrutta con enormi massi disposti orizzontalmente, la quale tuttora sussiste, ed inoltre si scorgono nella cinta un altro ingresso minore, e nel muro esposto a mezzogiorno tre nicchie di forma quadrata, destinate probabilmente a ricevere le imagini degli Dei, mentre in mezzo alla stessa si scorgono tuttora avanzi di costruzione ciclopica, i quali si possono ritenere con fondamento avere appartenuto all’altare dove si praticavano i sacrifici solenni. Queste mura fino al 1843 rimasero sepolte per metà sotto le macerie e le piante parasite, e non eravi strada la quale permetesse farne il giro. Una visita di Gregorio XVI fece sorgere negli abitanti di Alatri il felice pensiero di scoprire e liberare dagl’ingombri quei ruderi imponenti; vi lavorarono ben due mille persone per lo spazio di dieci giorni, in guisa che non fu soltanto liberata da ogni ingombro l’antica acropoli, ma venne aperta altresì una strada, alla quale si diede il nome di via Gregoriana, la quale permette di farne con tutta comodità il giro. Venne in tale occasione riaperta pure l’antica porta, ed agevolata la salita alla sommità della collina. La bella ed ampia piazza che colà si trova, venne circondata da un parapetto innalzato sopra le mura ciclopiche, e siccome non sorge su quello altro edificio all’infuori del duomo, si può di là godere a tutt’agio della stupenda vista dei monti circostanti. E per dir vero è quesia di tanto meravigliosa bellezza, che io non mi arrischierei a descriverla con parole, nè a dare un’idea delle forme dei monti che si profilano nell’azzurro del cielo. La profonda solitudine che regna colassù, la vista di quelle reliquie di età remote, producono una profonda impressione. Poche parole farò pure della cattedrale, che sorge isolata ad un lato della piazza, piccola chiesa di aspetto romantico, con un campanile di forma bizzarra, ed una facciata che dallo stile si riconosce appartenere all’ultimo secolo. Un’ampia [p. 20 modifica]gradinata di pietra dà accesso al tempio. Pur troppo nell’interno venne tutto malamente rimodernato, ed ho potuto anche quivi persuadermi, come pure nelle località le più appartate del Lazio, la falsa ambizione dei preti e dei municipj, vadi deturpando con così detti ristauri, i monumenti della veneranda antichità; e che nella stessa guisa in cui le mode moderne vanno facendo scomparire poco a poco la foggia di vestire nazionale, si vadino pure guastando gli antichi edifici collo appiciccarvi facciate moderne, col dipingerli malamente all’interno di tinte disarmoniche, come si pratica oggidì in Roma stessa, dove per cattivo gusto oramai si gareggia con i Siciliani.

Percorsi con piacere tutte le strade di Alatri, e rimasi ognora più contento della città. I giardini ben coltivati che la circondano, la vita attiva ed operosa all’interno, rivelano buone condizioni economiche; e siccome in tutte le altre località dei dintorni non scorgevo altre preoccupazioni fuori di quella di procacciarsi il pane ed il vino, le derrate più indispensabili a sostentare la vita, era agevole conchiudere che questa in Alatri doveva essere più facile, migliore. Il vino quivi è forto ed eccellente; il pane di buona qualità, e di buon peso. Alatri trovandosi poi al di fuori delle località, visitate in generale dai forastieri, questi non vi sono molestati come nelle località più frequente, dalle istanze indiscrete della popolazione. La gente vi è buona, ingenua, di aspetto gaio, ed io mi ricordo aver visto un solo di quei pezzenti che vi domandano la limosina a torme, in tutti i paesi della Sabina, e dei monti Albani. Domandano però ivi l’elemosina dalla loro prigione i carcerati, spettacolo curioso che si può vedere del resto in quasi tutte le città delle Romagne dove mi avvenne osservarlo più di una volta. Mentre nel nostro sistema rigoroso di prigionia, si procura di tenere per quanto più sia possibile i carcerati isolati dal resto del mondo; rinchiudendoli anzi quali persone colpite dalla peste in celle isolate e solitarie, privandole della vista innocente della strada, dei dintorni della prigione; la tolleranza meridionale concede loro ben altre [p. 21 modifica]agevolezze. Mi avvenne udire più d’una volta nelle città delle Romagne i prigionieri cantare liete canzoni o ritornelli, a cui rispondevano le persone della strada, o fare con queste di dietro alle loro inferriate lunghi colloqui a segni, assolutamente inintelligibili ai forastieri. Di più si permette ai prigionieri, spesso condannati a quella vita oziosa per lievi trascorsi, di mendicare sulla pubblica strada per mezzo di lunghe canne le quali tengono appesa una piccola borsa ad una funicella. Si vedono spesso due, tre, quattro di tali canne sporgere dalle inferriate delle prigioni, ed i prigionieri fanno la figura dei pescatori alla canna, i quali stanno aspettando con tranquillità filosofica che il pesce morda all’amo. I borsellini si dondolano nell’aria, ed allorquando passa taluno davanti alla prigione, la canna si abassa, ed il borsellino compare davanti al naso del passeggiero, mentre il carcerato domanda un baiocco per amore della Madonna. Si contenta pure di un sigaro, ma preferisce però i baiocchi, che non frappone indugio a convertire in vino. Non potevo mai vedere questo modo strano di domandare l’elemosina senza aver voglia di ridere e mi ricordavo la favola di Belisario mendico alla finestra della sua prigione, la quale se non altro prova esser quella tolleranza molto antica, ed in uso già probabilmente la mendicità dal carcere presso i Romani.

Partii di Alatri per recarmi a visitare la famosa grotta di Collepardo, di cui avevo udito narrare meraviglie. Vi si arriva per una stradicciuola di montagna, imperocchè alla distanza di poche miglia della città cangia la natura della campagna; cessa ogni coltura, e camminando a traverso roccie calcari di colore roseo, si arriva nella solitudine profonda dei monti. Un carbonaio del piccolo villaggio di Collepardo, il quale faceva ritorno a casa dopo aver venduto il suo carico in città, e che incontrai casualmente per istrada, fu il mio compagno e la mia guida per quei monti, ed ascoltavo con interessamento quanto mi narrava quel buon uomo, della vita povera e stentata del suo paesello natio, sebbene durassi molta fatica a capire il rozzo [p. 22 modifica]dialetto de’ suoi monti. Le rupi diventano sempre più ripide e più scoscese; le valli più romantiche e deserte, ed attraversammo il bel torrente Cosa, il quale si precipita con impeto fra quelle gole. Le sue acque sono stupende, di tinta verdognola come quelle dell’Inn nell’Engadina, fresche, leggiere, ed abbondano di trote. Le uniche traccie di coltura in questa regione s’incontrano lungo le sponde di questo torrente, il quale dopo un corso rapido e romoroso si getta nel Sacco, congiunto al quale si versa poi nel Liri.

Risalendo il Cosa, ed al punto dove il torrente si apre strada a traverso ad un gola angusta, giace Collepardo. Non ho veduto mai abitato di aspetto più derelitto, più malinconico; poche case nere, disposte le une in fila alle altre, interrotte da una chiesa bizzarra, circondato ancora in parte il tutto dalle rovine di un muro del medio evo, prova manifesta che neanco questa località poverissima trovavasi al sicuro dalle scorrerie dei ladroni. Pochi giardini, alcune vigne, ed oliveti attornano l’altipiano su cui giace il paesello; del resto tutto all’intorno non sono che roccie nude e sterili. Il bravo carbonaio m’invitò a fermarmi in casa sua, offerta che accettai di buon grado, perchè del resto sarei stato in imbarazzo a sapere dove scendere, e mi adagiai alla meglio per passare in quella piccola stanza le ore calde della giornata. Se non che, ebbi la sorte di vedere arrivare dopo, a cavallo dessi pure, alcuni signori di Velletri, i quali venivano parimenti per vedere la grotta, e di poterla per tal guisa visitare bene illuminata.

Montammo di bel nuovo in sella, e ci portammo alla grotta. Dessa trovasi nella valle del Cosa, al disotto di Collepardo. Vi si scende per un ripido sentiero; si cammina alcun poco lungo la riva del torrente, che romoreggia uscendo da una gola. La strade ombreggiata di piante di castagno, corre fra due pareti gigantesche di nudo scoglio. A sinistra del Cosa sorge grandioso ed imponente il monte Marginato, il quale stende la sua ombra cupa sulle acque del torrente, il quale lotta contro i sassi che attraversano [p. 23 modifica]il suo corso, ed alla destra sorge altra rupe ricca di vegetazione, nella quale trovasi scavata dalla natura la grotta. Si presenta bene questa fin dall’ingresso. Si apre fra i massi una bocca nera, dalla quale esce una corrente di aria fresca. Ci coprimmo accuratamente prima di scendere. Le guide ci avevano preceduti colle fiaccole, ed il fumo che non tardammo a vedere uscire dalle fessure del monte ci provò che erano pervenuti nella grotta. Avevo veduto parecchie già di queste caverne nei monti, e non sono del resto soverchiamente propenso ad ammirare questi scherzi di natura, ed in conseguenza di ciò non mi ripromettevo neppure gran chè dalla grotta di Collepardo. Ciò nulla ostante mi fece questa una profonda impressione, particolarmente a motivo della sua ampiezza. Consta dessa di due parti, di due immense sale, divise l’una dall’altra da una parete interna a trafori. Le pareti ed il suolo sono di colore nero, o di un giallastro cupo: il suolo è cosparso di grossi mazzi di scoglio su per i quali è d’uopo talora arrampicarsi; e dalla volta irregolare pendono in grande quantità stalattiti di ogni forma, mentre altre bizzarre e variate sorgono isolate ed in gruppi dal suolo. Gli scherzi più curiosi si trovano nella parte interna, o seconda della grotta, e pertanto ci fecero aspettare un certo tempo nella prima, in fino a tanto fosse quella bene illuminata. Imperocchè le guide e parecchi ragazzi non avevano soltanto disposte colà in bell’ordine le loro torcie a vento, ma avevano pure acceso qua e là mucchi di stoppa. Nell’entrare in quella parte illuminata per tal guisa, mi parve essere capitato in una caverna abitata da fate, o da diavoli. Ora la fantasia me la rappresentava quale un tempio egiziaco, sostenuto da neri pilastri, popolate di sfingi o di idoli di Dei mostruosi; ora quale una foresta in pietra di palme, e di altre piante fantastiche; ora mi pareva vedere pendere dalle volte od appese alle pareti, lancie, spade, armature di giganti. Tutto questo scintillava, splendeva, al chiarore delle fiaccole, le quali producevano d’altra parte effetti d’ombra sorprendenti. Il fumo velava qua e là gli oggetti [p. 24 modifica]ed i gufi, i pipistrelli, disturbati nella loro quiete, svolazzavano su e giù in tutti i sensi, facendo udire i loro lamenti selvaggi. Non si può dare ad altri un’idea precisa di quella grotta, imperocchè ognuno la contempla a suo modo, e secondo la sua natura la popola di varie figure fantastiche.

Si applicarono, come è naturale, vari nomi agli scherzi più notevoli delle stalattiti e degli scogli, e parecchi me ne furono nominati e fatti osservare, fra i quali ricordo unicamente i così detti Trofei romani, accidenti di roccie e stalattiti, che per dir vero ricordano fino ad un certo segno, quei trofei che si vedono a Roma sulla salita che porta al Campidoglio.

Trovansi del resto nei dintorni varie grotte naturali nei monti, le quali possono avere servito nei tempi andati di stanza ad eremiti, ed uno di questi abitò tuttora nel 1838, una grotta nel monte Avrienna, presso Collepardo. Era un giovane francese per nome Stefano Gautier, il quale era giunto nel settembre di quell’anno, dicendo avere seguito la vocazione divina, che lo chiamava alla vita centemplativa in quella remota solitudine. Il singolare forastiero si stabilì in quella caverna, dove gli si recava cibo; viveva solo, pregava, lo si vide spesso in Collepardo, Veroli, e nella certosa di Trisulti, dove visitava le chiese e s’intratteneva con i monaci. La sua vita era più che regolare, poteva dirsi vita di un santo, e sì che desso era tuttora giovane d’età. Erano trascorsi già due anni dacchè si trovava in quella solitudine, allorquando un bel giorno comparvero gli arcieri i quali circondarono la grotta, arrestarono l’eremita e lo portarono via prigione. Nessuno ne conobbe la ragione, e nessuno udì di poi fare parola del solitario; si seppe unicamente che desso era stato portato a Roma, e consegnato alla giustizia di Francia, correndo voce vaga fosse implicato in uno dei vari attentati contro la vita di Luigi Filippo, e che, fuggito, in Italia, si fosse ritirato nei monti di Collepardo per farvi penitenza del suo misfatto, o colla speranza di sottrarsi all’azione punitrice delle leggi. [p. 25 modifica]

La natura riunì parecchie rarità nelle vicinanze di Collepardo, breve essendo la distanza dalla grotta delle stalattiti alle rinomate sorgenti d’Italia, ossia pozzo di Santulla; e fui lieto di udire che si trovava questo propriamente sulla strada la quale porta alla certosa di Trisulti. Era mio disegno arrivare ancora nella sera a questa, per profittare dell’ospitalità dei monaci. Dopo avere cavalcato una mezz’ora fra giardini, e sopra una pianura sassosa, vidi davanti a me questo singolare fenomeno, e non fu poca la mia sorpresa nel trovarmi di fronte al cratere di un vulcano spento. Mi trovai tutto ad un tratto sul margine di una profonda cavità circolare, la quale mi ricordò vivamente le latomie di Siracusa. Dessa presenta una periferia di circa mille e cinquecento passi, e scende quasi verticale alla profondità di circa centocinquanta piedi, lasciando vedere in fondo quasi una foresta di arbusti e di piante rampicanti di un verde cupo, le quali agitato da un vento leggiero oscilliavano, e si muovevano quasi le acque di un lago. I raggi del sole scendendo in quella profondità vi producono curiosi scherzi di luce, e vidi farfalle bianche che là entro svolazzavano, e si posavano sulle piante. I rami di queste portavano fiori, e mi si assicurò che talune le quali veduto dall’alto parevano piccoli arbusti, raggiungessero l’altezza di ben trenta piedi; tutti quei fiori, gli scherzi di luce, l’agitarsi delle foglie mosse dal vento, davano a quella cavità un aspetto fantastico, in guisa da farla parere la stanza di Titania, o di Oberon. Non havvi dubbio che in fondo vi devono essere sorgenti, le quali mantengono la frescura e promuovono la vegetazione in questo calice gigantesco, il quale concentra d’altronde in sè le rugiade della notte. Lo sguardo si fissa poi volontieri sulle pareti della cavità, le quali sebbene quasi verticali sono coperte di piante rampicanti di ginestri, e di lentischi, e dove nuda si scopre la roccia, presenta tutti i colori dell’iride, essendo qua e là di colore verde, rosso, azzurro, e giallo. Che se poi si considera questo scherzo grandioso di natura, assieme ai monti scoscesi e maestosi [p. 26 modifica]che circonscrivono l’orizzonte, forma il tutto uno spettacolo imponente, che non si può con parole descrivere. Scorgevasi di là Collepardo nero e bruno, circondato di piante; la valle del Cosa; più in là il profilo di monti più lontani e maestosi, indorati dai raggi del sole volgente all’occaso, o che si perdevano confusi framezzo agli accidenti, ed alle forme bizzarre delle nuvole.

Trovavansi accampati attorno al cratere spento pastori selvaggi, coi loro sandali, coi loro lunghi bastoni a foggia di lancie, i quali portando le loro capre al pascolo, animavano quella scena, mentre baldi garzoncelli si divertivano a lanciare i sassi più pesanti che potessero smuovere nell’abisso. Cadevano questi producendo un tonfo cupo, facendo scricchiolare i rami delle piante, e fuggire spaventati dai loro nidi i colombi selvatici, che avevano fissata colà la loro stanza. Sebbene i pastori mi assicurassero che in fondo all’abisso si trovasse un tigre, mi ammettevano però, che talvolta scendevano colà capre affidandole ad una fune. Quegli animali vi trovavano erba in abbondanza, ed acqua; vi si lasciavano talora mesi intieri, quindi venivano tratti fuori grassi e benestanti, facendosi i pastori stessi calare giù, legati ad una corda per cavarli di colà. Se questo pozzo si trovasse in Germania od in Iscozia, l’imaginazione popolare non avrebbe mancato al certo di popolarlo di gnomi, di spiriti, ma gl’Italiani hanno poca tendenza per quelle creazioni fantastiche; il loro cielo è troppo limpido, troppo sereno. Trovai caratteristica del popolo italiano l’origine di questo pozzo, quale mi fu narrata da un pastore, imperocchè la è una vera leggenda. Secondo questa il pozzo non era in origine che una aja circolare, ed in quella vollero un giorno i contadini battere il grano ad onta fosse la solennità dell’Assunta, per modo che la Madonna incollerita di quel mal operare, fece tutto ad un tratto sprofondare l’aia con quanto in essa si trovava, e ne nacque il pozzo. Mi parve scorgere in questa leggenda la scaltrezza di un qualche prete, o di un qualche frate. Del resto non si [p. 27 modifica]trovano in quei dintorni traccie di volcani, la qual cosa rende probabile l’opinione di coloro i quali sostengono sia il pozzo una caverna, di cui sia precipitata la volta. Mi allontanai con dispiacere da questa curiosità naturale, pensando quanto debba esserne fantastica la visita di notte, allorchè i raggi pallidi della luna scendono in quella profonda conca, tingendo della sua luce magica le variopinte pareti di essa, non che le piante che per entro vi crescono.

I pastori guidarono me ed il mio campagnuolo per ripidi sentieri alla strada mulattiera che dovevamo battere per arrivare alla certosa di Trisulti. Ci trovavamo alla distanza di un buon miglio tedesco dalla rinomata badia, la quale non era di là visibile; ma ci additarono sulla montagna la macchia nera di una foresta di elci al di là quale avressimo trovato quel podere modello, per così dire, di coltura alpestre. Ricordo aver vedute poche regioni montuose solitarie e bella come quella per la quale stavamo salendo. L’occhio ora spaziava sulla strada percorsa scendendo nella valle dove romoreggiava il Cosa; ora contemplava la mole dei monti, fra cui primeggiava a foggia di piramide gigantesca la vetta del Monna. Ci fu forza girare varie sporgenze del monte che ci sbarravano la strada, e dopo una buona mezz’ora di cammino faticoso e malagevole, ci trovammo sulla sponda di un torrente che sgorgava impetuoso da una stretta gola, a traverso la quale si era aperta la via. Il sole era già sceso dietro i monti, le cui cime erano tuttora imporporate degli ultimi suoi raggi. Prendemmo allora a salire sul fianco del monte, e nel volgermi addietro per guardare la strada che avevamo battuta, vidi a poca distanza un otto o dieci soldati i quali si avanzavano con passo rapido. Credetti dessero la caccia ai banditi, ma la cosa non era probabile, essendo tranquillo il paese dove una volta Gasparone aveva compite talune delle sue imprese, e dove si leggono tuttora nelle rupi i nomi di vari briganti, che li scolpirono coi loro pugnali. Questi soldati, mi disse la mia guida, non danno punto la caccia ai banditi; vengono da Alatri per [p. 28 modifica]visitare la certosa, e godere per una notte della ospitalità dei monaci, imperocchè dovete sapere che le ricche tonache bianche hanno obblico per la loro regola, di dare ricovero e vitto gratuito per tre giorni ad ogni viandante; e che se comparisse davanti alla certosa un esercito intiero, non potrebbero chiudergli la porta del monastero. Sapendo che quella brigata di Velletri che avevo incontrato a Collepardo aveva passata la notte precedente alla certosa, vivendo a spese dei monaci, e vedendo dietro di me quei soldati, i quali per il cammino fatto dovevano avere buono appetito, come cominciavo a provarlo io pure, mi prese una vaga inquietudine per l’accoglienza che mi si sarebbe fatta al monastero, dove intendevo passare la notte ancor io. E dissi «Francesco, affrettiamo il passo, per arrivare prima di quei soldati, e non correre rischio di trovare i monaci troppo di cattivo umore, allorquando picchieremo alla loro porta, per domandarvi alloggio e vitto.» Francesco sorrise; ma però il passo lo accelerò.

III.

Eravamo arrivati sull’alti piano in cui sorge la certosa, il quale trovasi sul versante dei monti grandiosi che ci attorniavano; ma non vedevo però ancora il monastero, di cui ci era tolta la vista dal bosco bellissimo di elci, che mi era stato additato dal pozzo di Santulla. Nell’andare avanti, cominciai a vedere due monaci bianchi, i quali se ne stavano passeggiando pensosi sotto quelle maestose piante; e quasi invidiai la quiete assoluta, la tranquillità filosofica, di cui parevano godere. Imperocchè vidi in pochi siti radunato, al pare di quivi, quanto in una profonda e bella solitudine può portare l’animo umano a seria ed elevata contemplazione. Soffiava un venticello fresco in quella pianura, ed attorno noi sorgevano solenni ed imponenti le alte cime dei monti. Tutto ad un tratto si fece udire nella foresta il suono della campana del mo[p. 29 modifica]nastero, che chiamava i monaci alla preghiera, e mi pareva essere trasportato in pieno medio evo. Mi avanzai verso uno dei monaci, mi diedi a conoscere quale viaggiatore, e lo pregai della ospitalità per una notte. Il fratello laico; che tale era desso; mi additò la via del monastero dove mi sarei dovuto far annunciare al guardiano, e dopo avere camminato breve tratto lungo una siepe, mi trovai di fronte alla certosa. La vista su quei monti alti e solitari, su quelle rupi dove a mala pena si arrampica il viandante, di una oasi di bella coltivazione, che vi appare tutto ad un trappo, e vista propriamente incantevole e sorprendente. Il regno terreno, l’Eden di quei monaci splendeva in mezzo ad una lussureggiante vegetazione, in modo fantastico ed ammirevole. La certosa non si compone già di un unico edificio, ma di una quantità di cappellette, di chiese, di recinti, di costruzioni di diversa natura, adatte a diversi usi, tutte in buono stato di conservazione, e tali da annunciare l’agiatezza, la prosperità. Scorgevansi tutto all’intorno piante annose od isolate o riunite in gruppi, tori, vacche, pecore, capre che pascolavano liberamente, monaci che andavano qua e là, coltivatori intenti a lavorare; quadro di operosità di buon numero di persone, che tutte sono mantenute dal monastero.

Il guardiano, uomo di alta statura, di aspetto serio, con lunga barba, mi accolse molto cortesemente alla porta della prima corte, dicendomi di presentarmi al superiore, il quale avrebbe dati gli ordini perchè fossi ricevuto ed avessi stanza. Venni introdotto nella corte interna, vasta di forma, rettangola e formata dai casamenti della certosa, e dalla facciata della chiesa principale. Ogni cosa è mantenuta quivi con una cura ed una pulizia particolare; le costruzioni del resto non sono punto antiche, e dallo stile architettonico si riconosce, che risalgono soltanto al secolo XVIII. Nell’interno sono lunghi e spaziosi corridoi, fiancheggiati in ambo i lati dalle celle dei monaci, Trovai il superiore occupato a scrivere in un’ampia stanza, e [p. 30 modifica]stavano attorno ad esso alcuni servitori, i quali parevano aspettare suoi ordini. Mi accolse con tutta cortesia, aderendo tosto alla mia preghiera di essere ricevuto nel monastero, senza richiedermi nè della mia patria, nè della mia religione, che del resto un rapido sguardo gettato da quei monaci sul forestiero che si presenta, e poche parole pronunciate da questi, bastano loro per discernere un cattolico, da un protestante. Il superiore mi consegnò ad un frate laico; e tolto da quello congedo, venni condotto nella foresteria, che tale nome si da nei monasteri di quell’ordine, ad alcune stanze appartate, e destinate ad alloggio dei visitatori; ve ne sono di prima e di seconda classe, per le persone più o meno distinte. Le prime ottengono una camera nella foresteria nobile o dei signori; le altre si devono contentare di alloggio in comune, e gli individui d’infima condizione sono alloggiati nelle stanze dei servitori, o nelle stalle, dove dormono sulla paglia. Mi si assegnò una buona camera attigua al refettorio. Il letto pulitissimo e fatto accuratamente mi prometteva un buon riposo, ed il cameriere, giovane disinvolto il quale aveva servito in parecchie locande di grandi città, e che trovavasi da poco presso i mouaci incaricato della foresteria, mi diede la grata notizia che all’ora prescritta dalla regola del monastero mi sarebbe servita la cena nella sala vicina. Mi disse che intanto ero padrone, se così mi piaceva, di visitare il monastero.

Un frate laico mi condusse in ogni parte, servendomi di cicerone. Sonvi del resto poche rarità da osservare nella certosa, imperocchè tutte le antichità scomparvero sotto i ristauri posteriori, e trovai pochi appunti da prendere per lo scopo de’ miei studi. Se non che la posizione stessa del monastero in questi monti, il modo di vivere dei monaci in repubblica solitaria, la storia del loro ordine, l’influenza pratica di questo sulla società, bastavano di già a dar ampia materia ad osservazioni. S. Brunone, uomo di carattere straordinario, quali parecchi ne produsse l’epoca delle Crociate, e quali furono pure poco [p. 31 modifica]dopo S. Francesco e S. Domenico, scandolezzato della vita sregolata di Manasse arcivescovo di Reims, dettò la regola dei Certosini verso la fine del secolo XI. Quest’ordine, il quale riuniva in sè la vita dei monaci e degli anacoreti, destinato alla massima abnegazione, tolse il suo nome della località detta la Certosa presso Grenoble, dove venne fondato. I suoi statuti Consuetudines Cartusiæ, portano la data del 1134 ma non vennero approvati dal sommo pontefice che nel 1170. In un’epoca in cui gli animi erano richiamati ad un’estasi mistica dalla lotta coll’Islamismo in Oriente, dalla guerra della chiesa cogli eretici Albigesi, dalle vive contestazioni fra il sacerdozio e l’impero, una riforma del monachismo non poteva porgere che probabilità di esito favorevole. L’ordine dei Certosini non tardò ad allargarsi, e certamente vi contribuirono per molto le singolarità pronunciatissime della loro regola. Fin dal 1208 si fissarono quei padri a Trisulti, di cui Innocenzo III fece loro donazione. Trovarono colà un monastero rovinato, che aveva appartenuto dapprima ai Benedettini; e nel 1211 posero mano ad edificarvi la novella certosa. Dicesi avesse dato nome a questa un castello di Trisalto; il quale avrebbe a sua volta tolta la sua denominazione a Tribus saltibus, dai tre monti imboschiti presso cui sorgeva.

Sebbene la regola imponesse ai monaci personalmente, voto di povertà, non vietava però ai monasteri di possedere, e Trisulti acquistò col tempo vaste proprietà nella provincia di Frosinone alla quale tuttora appartiene. Questa certosa non può vantare come quella di Pavia splendidezza di edifici, di opere d’arte, e si distingue piuttosto per il suo carattere campestre e rurale, che stupendamente corrisponde alla foggia di coltivazione primitiva della campagna di Roma; non si trovano in essa i vasti locali che seppe procurarsi nelle antiche terme di Diocleziano la certosa di Roma, fondazione recente del resto del secolo XVI la quale riconosce l’antica e veneranda certosa di Trisulti quale sua fondatrice, e superiore. La chiesa del monastero [p. 32 modifica]edificata in origine da Innocenzo III nel 1211 venne ricostrutta per intiero nel 1768; è piccola però ornata di bei marmi, e di sculture. Sulla porta d’ingresso havvi una pittura, la quale ricorda la fondazione della certosa stessa rappresentando Papa Innocenzo, che ne mette in possesso i monaci. Ai due lati della chiesa sono rappresentati il martirio dei Maccabei, e le persecuzioni che i Certosini ebbero a patire in Inghilterra, ai tempi di Enrico VIII. Nel coro bellissimo dei monaci, vi sono le imagini degli apostoli, Mosè che fa scaturire la fonte dalla rupe, e lo stesso miracolo rinnovato da S. Brunone. Non manca neppure la rappresentazione dell’orribile martirio di S. Bartolomeo, patrono dei Certosini.

Maggiore soddisfazione però che la vista di queste pitture moderne, alle quali alla lunga nell’abbondanza si finisce per diventare indifferente; mi procurò il visitatore e percorrere le altri parti della certosa. Il refettorio nel quale si scorgono dipinti i miracoli della moltiplicazione dei pani e pesci, è una vasta e bella sala. Ivi si radunano a mensa comune i monaci nei giorni di festa, imperocchè nelli altri giorni la regola prescrive deva ognuno prendere il suo cibo solo nella propria cella. Mi si fece vedere la cucina vasta e pulitissima, e la panatteria, dove si fabbrica ottimo pane di due qualità, l’una più fina per i monaci, l’altra inferiore per le persone di servizio, e per tutto il numeroso personale addetto allo stabilimento. In una delle corti del monastero havvi un molino, messo in moto da un canale d’acqua derivata dai monti. La cosa però che mi fu più vantata, e della quali i monaci traggono giusto orgoglio si è la farmacia, ed io vi entrai con rispetto uguale a quello che avrei potuto dimostrare entrando in una chiesa. L’associare la cura delle infermità corporali alla cura delle anime, è usanza antica dei monasteri posti in contrade solitarie e deserte; i monaci i quali si dedicano alla medicina, spiegano in quella un impegno ed uno zelo degno del più grande encomio. La natura dei monti invita d’altronde per sè allo studio delle [p. 33 modifica]piante medicinali, che ivi crescono in abbondanza; e qual più grata distrazione si potrebbe rinvenire che quella di cercarle per quelle balze, per quei dirupi, di studiare le loro proprietà, di preparare le medicine?

Fui ricevuto nel tempio di Esculapio da un monaco di alta statura, di bella presenza, dall’aspetto sereno, con una bella barba rossa, la quale gli dava sembianza di un astrologo del medio evo. La farmacia era collocata in vicinanza all’ingresso del convento, ed all’interno del muro di cinta. Si apriva davanti a questa un orto botanico ben tenuto, ricco di piante medicinali, e dove non mancavano neppure fiori. Il terrazzo aperto che dava accesso al giardino, era ornato di grandi vasi, contenenti arbusti in fiore i quali facevano bellissima mostra, e davano l’idea più di una villa, che di un monastero. Volgendo lo sguardo all’interno, a traverso la porta a vetri, si scorgeva la farmacia la più pulita, e la più elegante che si potesse imaginare. L’erudito monaco mi additò con compiacenza i suoi tesori, rinchiusi in ampolle ed in vasi, facendomi provare rincrescimento di non essere maggiormente versato nelle discipline mediche. Mentre mi trovavo colà, vennero parecchi contadini a ricercare medicine, le quali vennero loro tosto somministrate, imperocchè la fama della farmacia Trisulti non è soltanto largamente diffusa nei monti circostanti, ma l’influenza benefica di essa si fa risentire eziandio nelle campagne del Lazio, miseramente travagliate dalle febbri intermitenti. Non potrà poi che riuscire grato a’ miei connazionali il sapere, che trovai le opere di Hahnemann nella biblioteca della farmacia.

Del resto se questa torna di grande utilità agli abitanti dei dintorni, i monaci vi hanno raramente ricorso per se stessi. La salute di tutti questi Certosini è ottima, ed io non ricordo aver visto altrove monaci di aspetto ugualmente florido. La tranquillità di animo, la vita regolata e sobria, e più di tutto l’aria purissima di questi monti li mantengono in salute, e le loro notti, ed i loro giorni interrotti da frequenti preghiere, e dal servizio della chiesa, [p. 34 modifica]vanno esenti da patemi d’animo. Esiste nel monastero una piccola biblioteca, ed alcuni monaci si dedicano a severi studi, ma in generale il culto delle muse è poco osservato in questa solitudine. Ebbi occasione di persuadermene passeggiando col padre bibliotecario nella corte maggiore del monastero; ed avvedendomi che le mie domande lo ponevano in non poco imbarazzo, stimai conveniente prescinderne. Presi congedo da lui, e mi portai in altra parte del convento, ad osservare le figure dei monaci che di là passavano. Erano propriamenti belli nelle loro tonache bianche, e potei osservare che non portano nè barba nè capelli, facendosi radere accuratamente questi due volte al mese. I soli fratelli laici portano la barba lunga, alla foggia dei Cappuccini. Sonovi diversi gradi fra i Certosini, come fra i seguaci di Pitagora. Non mi fu dato vedere monaci del grado superiore, i quali vivono isolati e rinchiusi nelle loro celle; il perpetuo silenzio al quale sono assoggettati, può essere considerato quale la espressione della maggiore abnegazione a cui possa spingere il fanatismo religioso. Nel rinunciare alla parola, veicolo delle idee, espressione di vita, riducono l’animo loro ad una quiete tale di spirito, la quale equivale ad una assoluta cecità intellettuale. L’unico saluto che si fanno nell’incontrarsi gli uni cogli altri si è memento mori. Mi si disse permesso a questi morti che camminano, a questi spettri viventi, avere qualche distrazione nelle loro celle; gli uni coltivano fiori in vasi, coi quali hanno silenziosi colloqui, altri passano il loro tempo a contemplare qualche sacra immagine; altri tengono un uccelletto in gabbia, per essere rallegrati dal canto di questo, se tant’è che un povero uccello possa avere tuttora vaghezza di cantare, in quel profondo silenzio, in quella cupa solitudine. Talora la natura compressa riprende suoi diritti, infrangendo la regola che impone il silenzio perpetuo; il muto volontario parla, ed allora viene punito; offre pubblicamente il suo dorso ai colpi della disciplina, che lo martoriano non solo fisicamente, ma moralmente. Può darsi [p. 35 modifica]che un assoluto silenzio sia più agevole ad osservare in questi monti severi che altrove; qui lo spirito di Dio pare parli dovunque, ad ogni istante, nel vento che passa a traverso la foresta, nel muggito del Cosa impetuoso in fondo alla valle, nei lampi e nei tuoni che guizzano, e romoreggiano in cima ai monti.

Rapide mi trascorsero le ore della sera, in queste visite con queste riflessioni. Il mio servitore disinvolto venne ad annunciarmi che la cena era in tavola, e grande era l’appettito come pure la curiosità. Non si mangia carne di sorta nel monastero; anche gli ospiti devono adattarsi alla regola; aceto ed olio loro se ne dà per contro quanto domandano. La mia cena si componeva di un piatto di maccheroni conditi all’olio con aggiunta di erbe eccellenti dei monti, in sostituzione del cacio parmigiano; di una insalata di fave fresche; di una torta fatta all’olio, e di un fiasco di vino mediocre, tendente all’acido. Ad onta mi sforsassi di far onore alla cucina de’ miei ospiti, duravo fatica ad adattarmi a tutto quel lusso di olio, mi contentai dei maccheroni e del pane che era stupendo; volli dopo andare vedere come fosse stata trattata la mia guida, e mi disse che le si era dato un pane, e pesce salato.

Era intanto venuta la notte; la luna nel suo pieno splendeva in cielo, ed illuminava quello stupendo anfiteatro di monti. Gli alberi rischiarati da quella luce, le nere rupi, l’oscurità in fondo alle valli, il canto malinconico del gufo e dell’upupa, il romoreggiare del torrente, tutto ciò nel cuore della notte, produceva una impressione che con parole non si può descrivere. Al punto di mezza notte fui svegliato dal suono della campanna, che chimava i monaci a mattutino, e mi fu detto che un fratello laico si reca a svegliarli, l’uno dopo l’altro, nelle loro celle. Si alzano, recitano i salmi della penitenza, quindi si portano in coro, dove cantano il mattutino per tre ore. Ritornati nelle loro celle si trattengono ancora alquanto in preghiere, quindi è loro concesso alcun tempo di riposo. E così si pratica ogni notte. Udivo il suono della [p. 36 modifica]campana che mi pareva quasi voce sopranaturale, e mi serei alzato volontieri per andare io pure nella chiesa, se non avessi temuto di peccare d’indiscrezione verso i monaci. Mi riaddormentai al loro canto, ed era appena sorta l’alba, quando la mia guida venne picchiare alla mia porta, avvertendomi essere ora di partire per Veroli.

Partii dal monastero senza avere potuto ringraziare il padre superiore della sua buona accoglienza, non avendo visto altra anima viva che il portinaio, ed il servitore, il quale si scusò di non potermi recare il caffè che mi aveva annunciato alla sera, imperocchè anche l’ora dello asciolvere è fissata dalla regola. L’annuncio mi tornò poco grato, giacchè la strada per arrivare a Veroli era lunga, ed io non era assuefatto come i monaci al digiuno. Mi vendicai con un pezzo di pane che Francesco aveva posto in serbo, e con saporite more selvatiche, raccolte in vicinanza al monastero.

Il mattino era di una bellezza stupenda in quella regione montuosa, la quale variava di aspetto ad ogni tratto di strada. Corre questa per un’ora in cima al monte, a fianco del precepizio scavato nel corso dei secoli dal Cosa; quindi scende in mezzo a praterie naturali, circoscritte da selve di quercie, e di castagni. Camminavamo sempre sulle proprietà della Certosa. I cavalli dei monaci pascolavano sciolti in quelle praterie, e di quando in quando incontravamo mandre di capre; i pastori erano occupati attorno al fuoco, a convertire in cacio il latte di queste. La solitudine era di quando in quando interrotta da piccole fattorie, appartenenti per lo più alla Certosa, e l’aspetto di quelle regioni montuose era cotanto seducente, che mi parevano dovere essere felici coloro che ivi passano in piena tranquillità i loro giorni. Tutte le persone che incontrammo avevano buono aspetto, e non una di esse ci domandò la limosina. Dopo parecchie ore di strada lasciammo a tergo i monti, e sboccammo nella fertile campagna di Veroli, paese ragguardevole, che ci si presentò pittoricamente collocato sur [p. 37 modifica]una altura, dalla quale domina tutto il Lazio fin verso il confine del regno di Napoli, scorgendosi all’orizzonte le azzurre cime dei monti, e qua e là bianchi castelli e città.

Veroli è città vescovile, che non manca di una certa industria, provvedendo tutti i dintorni di tappeti formati a liste di vivaci colori, merce propriamente nazionale, ad uso dei Ciociari, di poca finezza per dir vero, ma che ha esito largo e sicuro. Le strade sono strette, per lo più tortuose, e tutta la città è un vero laberinto di case piccole, bizzarre, le quali per lo più hanno portici aperti. La piazza era coperta dì frutta di estate, che si vendevano a prezzo tanto minimo, da non credersi. Vi abbondavano particolarmente le angurie, che trovai eccellenti. Un soldato congedato, veterano ancora delle guerre napoleoniche, udì per caso nel caffè dove ero sceso a riposare, che io venivo dalla Certosa, e postosi accanto a me fece una descrizione entusiastica della vita di paradiso che si viveva in quella solitudine, dicendo essere l’ultimo suo desiderio di potere ivi finire suoi giorni, in qualità di fratello laico. Disse che avrebbe anche potuto esservi ricevuto in pensione, se avesse potuto pagare la somma che era perciò stabilita, ed entrato in famigliarità, continuò a parlare imprecando al governo pontificio come fanno tutti. Il bravo veterano mi fece nascere il desiderio di visitare l’ampia tenuta che i Certosini posseggono al di là di Veroli, se non che, stringendo il tempo, mi risolsi a rinunciare a vedere Frosinone che mi era vicino, ed a portarmi invece a quella tenuta verso Ferentino.

Partii da Veroli durante uno stupendo temporale. I monti Volsci e l’Apennino erano tinti di un azzurro cupo, interrotto qua e là da strisce di sole, le quali producevano effetto grandemente pittorico, illuminando in quella oscurità ora un monte, ora un castello od una città. Affrettai il passo, che la pioggia cominciava a cadere, attraversando una fertile pianura, ricca di alberi da frutta e di viti, e non tardai ad arrivare al podere dei Certosini. Il casamento è di aspetto grandioso, molto ben tenuto, ed offre [p. 38 modifica]il doppio carattere di convento, e di castello. Anche ivi, secondo la loro regola caritatevole, i padri offrono ristoro ai viandanti, ed anche alloggio per la notte. Io non profittai nè dall’una nè dall’altra cosa, pregai invece mi si concedesse facoltà di visitare la tenuta. L’ispettore di questa, robusto fratello laico in tonaca bianca, non solo mi diede il permesso, ma volle essere la mia guida. Assuefatto qual ero nella mia patria, a rappresentarmi l’amministratore di un latifondio uomo di modi assoluti ed anche duri, con grandi stivali e speroni, col frustino in mano, e colla bestemmia sulle labbra, l’economo dei monaci colle maniere di un santo, mi parve individuo affatto originale e strano. E difatti il primo sito dove mi portò fu la chiesa, la quale sorge a fianco del casamento principale della tenuta. Nell’entrare in questa, che era bella e tenuta con somma pulizia, la mia guida non tardò ad avvedersi che il suo compagno era un eretico, ed il pio economo si gettò in ginocchio, gettando un profondo sospiro, e credo abbia pregato di cuore per la mia conversione.

Il podere dei Certosini che ha nome Ticchiena, è uno dei latifondi più cospicui della campagna di Roma. Sono impiegati nella sua coltivazione circa mille persone, le quali pagano la loro pigione in natura, e con prestazione di opera. Sei fratelli laici, che hanno stanza nella tenuta, provvedono e sorvegliano all’andamento di ogni cosa. Si raccolgono in quella grano, vino, olio, frutta in grande quantità; il reddito è impiegato secondo le regole dell’ordine; uno dei più grandi doveri si è la beneficenza. Il nome della Certosa di Trisulti è benedetto in tutti i dintorni, e mi fu partecipato che anni sono, durante una grave carestia la quale desolò la campagna romana, il monastero provvidde in gran parte al sostentamento degli abitanti. I Certosini hanno governata la campagna per moltissimo tempo, fu lode che udii ripetuta più volte, ed in più siti. E con questa, voglio porre fine a queste pagine, pagando, come si conviene a chi ebbe ospitalità, il mio tributo di gratitudine.