Satire di Tito Petronio Arbitro/1

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Capitolo primo - Eloquenza e pedanteria

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Capitolo primo - Eloquenza e pedanteria
Nomi che leggonsi nelle satire 2

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SATIRE


DI TITO PETRONIO ARBITRO


cavaliere romano


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CAPITOLO I

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eloquenza e pedanteria.



Egli è sì gran tempo, ch’io vo’ promettendo di raccontarvi le cose mie, che oggi, dacchè in buon punto ci troviam radunati per favellare non solamente di materie scientifiche, ma sì anco di gaie, e per condirle di piacevoli fandonie, mi son pure risolto di mantener la parola.

Fabrizio Veientone1 ci ha sinora con molta finezza parlato dei difetti della religione, e manifestato come i sacerdoti con mentito furore di profezia isvelino sfacciatamente di quei misterj, che essi medesimi per lo più non intendono. Ma forse che i declamatori non son pur essi d’altra specie di furore agitati, allor che gridano: io queste ferite per la libertà pubblica riportai, quest’occhio ho perduto per voi: datemi una scorta che a’ miei figli mi guidi, ora che le storpie ginocchia non mi reggon le membra?

Tollerabili tuttavia sarebbero queste maniere, se a coloro che studiano l’eloquenza spianassero il calle; ma quando costor si presentano al foro, altro non ne guadagnano, sia per l’ampollosità delle idee, sia per il voto rumor delle voci, che di credersi trasportati in un mondo nuovo. Io stimo perciò che i fanciulli divengano stoltissimi nelle scuole, perchè nessuna di quelle cose, che sono in uso tra noi, veggono essi o ascoltano, ma [p. 4 modifica]soltanto o corsari su pei lidi con le catene, o tiranni in atto di comandare ai figliuoli, che mozzino la testa ai padri loro, o oracoli pronunciati in occasion di contagio, e prescriventi il sacrificio di tre o più vergini, o finalmente discorsetti affastellati e svenevoli, e parole e fatti piccantelli e leggieri.2

Quelli che di codeste maniere si nutrono, tanto posson sapere, quanto coloro, che soggiornano fra i tegami, mandar buon odore. E i primi corrompitori della eloquenza (sia detto con pace vostra) voi foste, o Retori, i quali con siffatte gonfie e vote espressioni suscitando non so quai fantasmi, avete fatto sì, che la forza del discorso si è snervata e perduta.

La gioventù non esercitavasi ancora all’arte declamatoria, allorchè Sofocle, ovvero Euripide, trovarono i termini da bene adoperarsi parlando. Ancora nessun fosco pedante avea guasti i cervelli, allor che Pindaro, e i nove Lirici3 non ardivan cantare i versi d’Omero. Nè io veggo, per non parlar solamente de’ Poeti, che Platone e Demostene si applicassero giammai a questo genere di esercizio. L’orazione nobile, e, per così esprimermi, vereconda, non è nè impastricciata, nè ampollosa, ma si regge colla sua beltà naturale.

Non è gran tempo che tale ventosa e sesquipedale loquacità passò d’Asia in Atene, e a guisa di influenza epidemica infettò le menti giovenili diposte ai begli studj, e corruppe le regole della eloquenza, la qual fu costretta cedere, e ammutolirsi.

Chi è più giunto alla fama altissima di Tucidide e d’Iperide? Un sol verso di buon gusto più non comparve, anzi nessun scritto (essendo tutti nodriti del medesimo latte) potè giugnere alla vecchiezza. Nè meglio riuscì la pittura, dopo che osaron gli Egizj ridurre a compendio codest’arte sublime.

Queste ed altre cose stava io un dì declamando, quand’ecco Agamennone venire alla volta nostra, e [p. 5 modifica]curiosamente guardare a chi tanta attenzion si prestasse: e mal soffrendo di vedermi arringare sotto i portici più lungo tempo di quel ch’ei sudi nella sua scuola, figliuol mio, mi disse, poichè tu parli in termini fuor dell’uso comune, ed ami il buon senso (locchè è sì raro), io voglio istruirti dei segreti dell’arte. In tal sorta di esercizj non hassi a incolpare i professori, perchè e’ son costretti d’impazzire co’ pazzi; e se non dicessero a modo degli scolari, soletti ai rimarrebbero nelle scuole, come già disse Tullio.4 A guisa di que’ furbi parassiti, i quali accaparrandosi le cene de’ ricchi studiano prima ciò che suppongono dovere esser accetto alla comitiva; altrimenti, se già non avessero insidiosamente adescate le orecchie, nulla otterrebbero di quel che bramano; e a guisa di pescatore, che sdraierebbesi sullo scoglio senza speranza di preda, se non attaccasse all’amo quell’esca, di cui sa che i pesciolini van ghiotti: così è oggi un maestro di eloquenza.

Che vuoi? La colpa è de’ genitori, che non vogliono sottoporre i loro figli ad una disciplina severa. Perchè in primo luogo e’ sacrificano all’ambizione, come tutto il resto, così le loro speranze; e in secondo luogo, quando han fretta di conseguire i loro voti, gli spingono al foro con studj ancor mal digesti, e nell’atto che essi confessano niente esservi di più grande che l’eloquenza, l’attribuiscono poi a’ ragazzi ancora in fasce. Che se avesser pazienza che tutta scorsa fosse la scala delle fatiche, acciò i giovanetti studiosi per via di severe letture si correggessero, acciò l’animo accomodassero ai precetti della sapienza, acciò con inesorabile punta alcune voci raschiassero, acciò sentissero a lungo ciò che lor piacesse imitare: se nulla di quello che ai fanciulli par buono, trovassero essi magnifico: allora la grande orazione potrebbe in tutta la sua maestà presentarsi. Ma ora i ragazzi giuocano in iscuola, i giovani son derisi nel foro, e ciò che peggio è, nessun [p. 6 modifica]d’essi invecchiando vuol confessare di aver nulla imparato. Finalmente, acciò tu non dica che io disapprovi sin anco le cose scritte colla semplicità di Lucilio,5 ti dirò in versi come io la pensi.


Chi al nome aspira di orator sublime,
E pascer vuol d’idee gravi la mente,
Segua le antiche usanze, e parco viva
Sì che n’abbia a portar pallido il viso.
5Fugga la corte altera e cruda: sprezzi
Le cene de’ potenti, e de’ malvagi
L’orme schivando nè lo spirto affoghi
Entro i bicchieri, nè pagato sieda
In sulla scena lodator di mimi.
10Ma o sia che alberghi ove il bastion grandeggia
Di Palla6 armipotente, o dove i campi
Solca aratro Spartano,7 o nella terra8
Delle Sirene, i primi anni consacri
Ai concenti di Pindo, e di Meonia
15Onda riempia il suo petto capace.
Colmo poi di Socratica dottrina
Lasci libero il freno, e l’arme vibri
Del sublime Demostene: ma sia
Man romana che l’usi, onde il suon greco
20Sorga cangiato nel sapor natìo.
Al foro allor coi ben vergati scritti
Offrasi, e tuoni del parlar suo franco
L’applaudita tribuna; allora, e citi
Le guerre in verso barbaro cantante,
25E volga a suo piacer del fero Tullio
Le parole magnifiche. Di questi
Pregi ti adorna, e di eloquenza un fiume
Tu verserai dall’Apollineo petto.



Note

  1. [p. 288 modifica]Senatore, autor di due satire, l’una contro i sacerdoti del tempo suo, l’altra contro i senatori, che facean traffico di giustizia. Per quest’ultima Nerone lo esiliò. Tacito negli Annali lib. 14. Giovenale nella sat. 4 fa menzione della sperticata sua cortigianeria.
  2. [p. 288 modifica]Conditi di papavere e di sesamo, dice il testo: due ingredienti di un gusto piccante, ma senza sapore: forse io avrei meglio reso la lettera, e il senso originale traducendo discorsetti dolciati, e brodi lunghi.
  3. [p. 288 modifica]Nove lirici principali cantò la Grecia: Pindaro, Alceo, Stesicoro, Anacreonte, Ibico, Bacchilide, Simonide, Alcmano e Saffo.
  4. [p. 288 modifica]Nella orazione in favor di Celio.
  5. [p. 288 modifica]Poeta satirico paragonato da Orazio ad un torrente che insieme a quantità di fango trasporta qualche gemma.
  6. [p. 289 modifica]Atene.
  7. [p. 289 modifica]Taranto, colonia de’ Lacedemoni.
  8. [p. 289 modifica]Napoli.