Storia di Milano/Capitolo XXV

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Capitolo XXV

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Francesco II Sforza bloccato nel castello di Milano. Sollevazioni e stato miserabile de’ Milanesi. Campo della Lega a Marignano. Morte del Borbone, e saccheggio di Roma. Disfatta de’ Francesi. Pace di Cambrai

(1526) Continuava il duca Francesco Sforza a starsene bloccato nel castello di Milano, d’onde coll’artiglierie, non che colle uscite, inquietava gli assedianti. Nella città comandavano Antonio de Leyva e Alfonso d’Avalo marchese del Vasto, succeduti al Pescara, e anche l’abate di San Nazaro. La plebe amava il superstite unico rampollo de’ principi sforzeschi. La sua bontà, il valore che aveva dimostrato, la memoria delle guerre e dei mali sofferti sotto un’estranea dominazione, la serie delle sue sventure, la oppressione in cui tenevasi, tutto disponeva l’animo del popolo ad odiare i Cesariani. S’aggiunse la vessazione incessante colla quale il Leyva ed il marchese del Vasto imponevano taglie, oltre il peso dell’alloggio degl’indiscretissimi soldati. Per lo che, saccheggiate le terre, esausti i sudditi, emigrati i coloni, tutto portava all’impazienza, onde colla forza rispingere la forza. Così accadde; e forse correva il pericolo di una totale distruzione l’armata cesarea, se i nobili avessero secondati i movimenti popolari, invece di reprimerli. Il giorno 24 aprile del 1526 cominciò a rumoreggiare la plebe verso il Cordusio, per avere i fanti della guardia di corte commesse delle violenze nella casa di un popolare, il quale gli [p. 262 modifica]discacciò a sassate. I fanti vennero soccorsi da altri compagni, i vicini si unirono in armi; si fece un grido nel contorno: all’armi, all’armi, e si dilatò. Il giorno 25 il movimento divenne maggiore; la plebe sforzò le porte della corte, e poichè erano chiuse, le bruciò; rimasero molti morti, dal castello si fece una sortita, gli Spagnuoli erano confusi. Un solo uomo di autorità si pose a governare il movimento popolare, e fu messer Pietro da Pusterla, il quale fu forse il solo nobile che prese questo partito: così il Burigozzo. Accerta poi il Grumello che il popolare derubato al Cordusio era un artigiano sellaro; che venne dal popolo saccheggiata la corte; bruciate tutte le carte che vi si trovavano; forzate le carceri, e data la libertà ai prigionieri. Antonio de Leyva e il marchese del Vasto si appiattarono ne’ loro alloggiamenti in Porta Comasina, facendo barricare con carri le strade all’intorno, presidiandole e ponendovi artiglieria. Il popolo tutta la notte fu in armi, e alla più larga imboccatura delle strade barricate con grande animoso impeto si spinse; ma i cannoni l’obbligarono a piegare. Dal castello fecero un’uscita gli Sforzeschi verso Porta Vercellina, ma la sostennero i tremila Tedeschi che custodivano il passo. Le truppe cesaree ch’erano di fuori, parte chiamate, parte accorse all’annuncio del tumulto, irruppero nella città, e la strada chiamata dell’Armi (ossia degli Armorari) perchè vi si trovavano molte officine e fondachi d’armi, in allora doviziosissimi, posero a sacco912. S’interpose Francesco Visconte, uomo di somma autorità, e venne fatto in nome di Cesare un proclama, per cui dichiarossi che non si sarebbero mai più imposte taglie, che non si sarebbe castigato alcuno pel tumulto seguìto, nè posto quartiere in città per nessun soldato, fuori che la guardia del castello; che nessun Lanschinetto sarebbesi veduto girare per la città, se non per necessità, ed unicamente colla spada e nessun’altr’arme.

I capitoli per timore accordati dal Leyva e dal marchese del Vasto non potevano rendere affezionato il Popolo ai soldati, nè questi al popolo; e la memoria delle violenze usate, e della pertinace ostilità per cui si teneva bloccato il duca, teneva pronti ad avvampare di nuovo i principii di una guerra civile. Una sera, andando Antonio de Leyva per la contrada de’ Bigli, vide un giovane con un giubbone di velluto verde, e gli disse: Che fai qui? vieni con me. Il Leyva era scortato [p. 263 modifica]da sessanta fucilieri. Il giovane rispose che non voleva altrimenti venire, e si pose in fuga; i satelliti del Leyva lo uccisero. Un altro giovane, sentendo il rumore, uscissene di casa colla spada, e venne pure ucciso dai satelliti; altri concorrendo, si fece un grido: Italia, Italia! Il dì 16 di giugno il tumulto fu assai grande, e tutta la notte fu la città sulle armi, e si sparse sangue alla Scala e in Porta Vercellina, e si fecero barricate attraverso le vie della città con travi, fascine, botti, ec.; e la domenica, 17 giugno, essendo gli Spagnuoli collocati sul campanile del Duomo, donde facevano i segnali, la plebe si avventò contro la guardia di corte, ed il capitano di essa, fingendosi favorevole ai Milanesi, diede loro il Santo, col quale contrasegno li assicurò che quei del campanile l’avrebbero consegnato senza opporsi. La plebe credette, e spedì un certo Macasora, il quale salì, credendosi sicuro col nome del Santo; ma in riscontro ebbe un’archibugiata, che lo distese morto: il che veduto dal popolo, tanto sdegno prese pel tradimento, che, posto gran fuoco sotto di quella torre, arrostì coloro che la presidiavano, indi s’impadronì del capitano, e lo ammazzò tra il campanile e la guardia di corte. Vi rimasero morti centotto soldati. Gli Spagnuoli diedero fuoco a diversi quartieri della città, alla Scala, alle Cinque Vie, al Bocchetto. La plebe allora si smarrì, tanto più che non aveva alcuno alla testa che la reggesse; e molti cittadini, entrati nelle stalle del marchese del Vasto, montarono su que’ cavalli e fuggirono lungi da Milano. Pareva Troia. Ardeva molta parte della città, ciascuno era occupato a salvare la sua roba, gli Spagnuoli ed i Lanschinetti rubavano e disarmavano: tutto era rovina913. Il Bugati così descrive la situazione della nostra città circa questo tempo: Stava allora la città di Milano tutta sotto sopra, essendo ogni giorno i Milanesi alle mani cogli Spagnuoli et co’ Tedeschi, per le insopportabili gravezze et mali portamenti, in maniera che per tre notti (per intervallo di qualche giorno) si combattè continuo, aiutando i suoi fin le donne dalle finestre... Raffreddati i petti de’ Milanesi, et deposte le armi per aver promesso il Leyva e il Vasto di non imporre al popolo più gravezza, pian piano detti capitani astutamente fecero venire alla città il restante delle copie loro, sparse per varii luoghi dello Stato, et rompendo ogni fede, accrebbero le taglie maggiori ai mercanti et a tutti quelli che parve loro, eseguendo i soldati proprii le commissioni: il che fu cagione che rinnovarono i tumulti, e si venne all’arme. Ma assaltata la città davanti et da dietro, cioè da quelli dell’assedio et dalla nuova milizia entrata, che prese le porte, stettero sotto i Milanesi, parte banditi, altri proscritti, altri imprigionati, altri tormentati, et altri assassinati: di sorte che non fu ingiuria, oltraggio, danno et crudeltà che i Milanesi non soffrissero dagli Spagnuoli et da Tedeschi914. [p. 264 modifica]

Fino dal giorno 17 maggio 1526 erasi fatta la lega in Cugnac fra il Papa, il Re di Francia ed i Veneziani, per liberare l'Italia da tante ostilità, ed ottenere il ducato di Milano a Francesco Sforza, e ridurre in libertà i figli del Re, ostaggi di Carlo V. Abbiamo da Sepulveda (1) che Francesco I appena liberato dalla prigionia e giunto nel suo regno, trovò un breve del Papa, in cui, dopo essersi rallegrato della acquistata libertà, lo incoraggisce a riparare i proprj danni sofferti, e del suo regno, avvertendolo a non badare a qualunque promessa che stata gli fosse estorta col timore o colla forza nel tempo della sua prigionia: qua in re (dice, secondo il citato storico spagnuolo, il pontificio breve) ne forte impeditus religione timidius ageret, se illum jurejurando, si quod forte Carolo ad suam fidem adstringendam dedisset, Auctoritate Apostolica liberare; proinde quasi re integra nullo jurejurando, nulla fide data fortiter de suis rebus statueret, ec.; e che quel Re contentissimo per un tal breve, aderì alla lega, ed approvò quanto aveva fatto in Roma l'ambasciatore suo, Alberto Pio; e caldo per la voglia che si scacciassero onninamente dall’Italia tutti gli Spagnuoli e Cesarei, accondiscese a questo ancora: Ne Gallo quidem regi ullum esset in Italos imperium, sed annuis tributis esset contentus aureorum millium quinquaginta, quae ipsi a duce mediolanensi, septuaginta vero quae a rege neapolitano, Italorum suffragio deligendo, penderentur917. Il giorno 24 di giugno, dedicato a san Giovanni Battista, giorno solenne per Firenze, patria e sovranità del papa, era destinato dalla santa lega a portar la guerra nel Milanese, per soccorrere [p. 265 modifica]il duca Francesco, rinchiuso nel castello di Milano già da sette mesi. Il duca d’Urbino, Francesco Maria, comandava le truppe de’ Veneziani, e Giovanni Medici le pontificie. Clemente VII però non volle comparire aggressore, e scrisse a Carlo V un breve, rammemorandogli le attenzioni che gli aveva usate, le ingiurie che da esso aveva sofferte, il mancare ai trattati, l’ambizione di conquistare l’Italia, e turbare la pace de’ cristiani, torti ch’egli attribuisce all’imperatore, dicendo che, dopo d’avere senza alcun profitto tentata ogni via per calmarlo, costretto, suo malgrado, a prendere le armi, attestava Dio che lo esortava a pensare a dar pace, ed ascoltare sentimenti più umani, e provvedere alla propria fama. Questo breve venne spedito al nunzio presso di Cesare, ch’era l’elegante prosatore e poeta Baldassare Castiglione. Tre giorni dopo il papa si pentì d’aver fatte delle accuse insussistenti, et alteram epistolam mittit aequiorem et moderatiorem perpaucis verbis in eamdem sententiam, sed calumniis ex parte sublatis918, acciocchè, se era in tempo, sopprimesse il primo breve e presentasse quest’ultimo; ma il Castiglione avea già eseguito il primo comando. L’imperatore pubblicò la lettera del papa e la risposta, la quale conteneva che non era stato superato dai benefizi del papa; anzi nulla aver fatto il papa che non contenesse l’utilità del papa istesso. Avere santamente osservato Cesare i trattati. Aver sempre operato per la tranquillità e la pace fra’ cristiani; non mai aver fatto la guerra se non provocato. Si maravigliava come il sommo pontefice facesse menzione di turbamento della pubblica pace, nel mentre ch’ei stesso, in mezzo alla quiete universale, aveva sollecitate le città e i principi cristiani alla guerra, e il re di Francia a violare i trattati e gli stessi giuramenti; la qual sorta di consigli non pareva si dovesse aspettare da quello che rappresenta il vicario di Cristo, autor della pace. Finalmente rispondeva che, se il papa brama la pace, ciò dipende da lui; lasci le armi che ha imbrandite a danno proprio e dei suoi, e l’imperatore si dichiara pronto ad ogni equa condizione di pace. Se poi, invece di voler la pace, persiste a promovere il disordine, l’imperatore se ne appella al futuro sacro ecumenico Concilio, e prega il sommo pontefice, in un tempo che lo rende necessario alla religione per le dissensioni teologiche, e alla repubblica cristiana per la sua tranquillità, a volerlo convocare; e ne lo prega in nome di Dio immortale. Che se ricusava d’ascoltarlo, Cesare, autorizzato dal rifiuto e dalle leggi, si sarebbe servito del suo potere per porre rimedio a tanti pubblici mali. Tale è il transunto del cesareo manifesto che allora venne pubblicato, e che si riferisce dal Sepulveda919.

Durante questo carteggio tra il papa e Carlo V, i Veneziani, comandati dal duca d’Urbino, presero Lodi per sorpresa, e con segreta intelligenza di Lodovico Vistarini, stipendiato cesareo, che tradì il suo padrone. I Pontificii a tale annunzio passarono il Po a Piacenza e [p. 266 modifica]si unirono co’ Veneti; e tutti di concerto posero il campo a Marignano. Frattanto i cittadini milanesi, spogliati delle armi e costretti ad alloggiare nelle loro case i soldati, che ne depredavano a man salva ogni cosa, furono ridotti a tali estremi, che non rimaneva altro rimedio, fuorchè cercare di fuggirsi occultamente da Milano, perchè il farlo palesamente era proibito. Onde, per assicurarsi di questo, molti dei soldati, massimamente spagnuoli, perchè nei fanti tedeschi era più modestia e mansuetudine, tenevano legati per le case molti de’ loro padroni, le donne e i piccoli fanciulli, avendo anche esposto alla libidine loro la maggior parte di ciascun sesso ed età. Però tutte le botteghe di Milano stavano serrate; ciascuno aveva occultate in luoghi sotterranei o altrimenti recondite le robe delle botteghe, le ricchezze delle case, gli ornamenti delle chiese... d’onde era sopra modo miserabile la faccia di quella città, miserabile l’aspetto degli uomini, ridotti in somma mestizia e spavento; cosa da muovere ad estrema commiserazione, ed esempio incredibile della mutazione della fortuna a quegli che l’avevano veduta poco innanzi pienissima di abitatori, e per la ricchezza dei cittadini e per il numero infinito delle botteghe ed esercizi, per l’abbondanza e dilicatezza di tutte le cose appartenenti al vitto umano, per le superbe pompe e sontuosissimi ornamenti così delle donne come degli uomini, e per la natura degli abitatori, inclinati alle feste ed ai piaceri, non solo piena di gaudio e di letizia, ma floridissima e felicissima sopra tutte le altre città d’Italia920. In Milano non vi era che penuria e desolazione; e la fuga stessa non era sufficiente presidio, poichè gli Spagnuoli diroccavano le case dei cittadini che altrove ricoveravansi. Riuscì tuttavia di conforto ai Milanesi l’impensata spedizione da Madrid del duca [p. 267 modifica]di Borbone con centomila ducati per le paghe dell’esercito, sembrando loro che tale sussidio potesse mitigare in parte tante gravezze ed acerbità. Egli avea la promessa dall’imperatore di essere investito del ducato di Milano, qualora ne scacciasse lo Sforza921. Il Borbone, che sotto Francesco I dieci anni innanzi era stato governatore di Milano, venne accolto come un padre dai Milanesi, che da lui solo speravano la cessazione de’ mali enormi cui erano sottoposti. Il Guicciardini reca per esteso le supplicazioni fattegli dai principali cittadini milanesi922, ai quali il duca rispose commiserando la loro infelicità; ma aggiunse che il solo mezzo di tenere in freno i soldati era quello di pagarli; che non bastando il danaro che avea seco recato per soddisfare gli stipendi arretrati, gli abbisognavano ancora diecimila ducati, paga d’un mese, mediante la qual somma avrebbe fatta uscire dalla città tutta la soldatesca. Con molto stento si radunò questa somma dai Milanesi, e il duca, nel riceverla, promise di far uscire dalla città i soldati, aggiungendo che se mancava, Dio lo facesse perire la prima volta che si presentasse al nemico. [p. 268 modifica]Si considerò dal volgo come una punizione celeste la morte che Borbone incontrò poi nello scalare le mura di Roma nel 1527, perchè non fu leale alla fatta promessa. Guicciardini conviene che il duca di Borbone diede le disposizioni perchè fosse tolto l’alloggiamento militare dalla città; ma ciò non ebbe effetto, o non tenendo conto Borbone della sua promessa, o non potendo, come si crede, resistere alla volontà e alla insolenza dei soldati, fomentati anche da alcuni de’ capitani, che volentieri o per ambizione o per odio, difficoltavano i suoi consigli923.

Intanto il duca Francesco II trovavasi a mal partito, mancando omai di viveri nel suo castello. Quindi fece uscire ducento uomini di notte, i quali attraversarono, dove meno era custodito, il passo, e quasi tutti giunsero all’armata de’ collegati, rappresentando loro la estremità alla quale era ridotta la guarnigione, [p. 269 modifica]alleggeritasi anche a tal fine con questa diminuzione. S’avanzarono verso Milano i collegati, e posero il quartiere al Paradiso, di contro a Porta Romana. Dopo tre giorni Giovanni Medici si presentò alla porta, e co’ cannoni cominciò a tentare di atterrarla e farsi adito. I Cesarei invece spalancarono la porta. Questo fatto sorprese gli aggressori, i quali, temendo insidia, non osarono di entrare; all’opposto uscirono i Cesarei e fecero piegare il Medici co’ suoi; per lo che l’indomani tornarono i collegati a scostarsi ed a ristabilire il campo a Marignano, aspettando il soccorso degli Svizzeri che stava per mandare la Francia. Sicchè l’infelice Francesco Sforza, mancando totalmente di viveri, de’ quali appena era rimasta la provvisione di un sol giorno, si trovò costretto ai 24 luglio di rendere il castello di Milano per capitolazione, salva la vita, la libertà e la roba sua e di buon numero di nobili che quivi avevano voluto correre la fortuna del loro principe. Nella capitolazione erasi convenuto che la città di Como si lasciasse allo Sforza con trentamila annui ducati, infino a che Cesare avesse conosciute e giudicate le accuse fatte alla fedeltà del duca; ma ceduto ch’ebbe il castello, se gli mancò dai Cesarei alla promessa. Il [p. 270 modifica]duca Francesco passò nel campo degli alleati, indi a Lodi, nella quale città, cedutagli dai Collegati, ratificò per istrumento pubblico la Lega Italica stabilita nel congresso di Cugnac. Breve fu la dimora dello Sforza in Lodi, mentre giunti finalmente a Marignano quattordicimila Svizzeri assoldati dalla Francia in soccorso degli alleati, non fu loro difficile, dopo diversi attacchi e vigorose ripulse, di costringere Cremona alla resa. Questa seguì ai 25 settembre del 1526, coll’uscir libero il presidio, a patto che per un anno non guerreggiasse nella Lombardia. Cremona fu pure dai Collegati consegnata al duca Francesco Sforza. Alla nuova dell’arrivo del rinforzo svizzero a Marignano, con che l’esercito della Lega s’accrebbe a più di trentamila fanti, oltre la cavalleria parimenti superiore di numero alla Cesarea, le forze imperiali, limitate a cinquemille Spagnuoli, quattromila Tedeschi e circa seimila cavalieri, si accamparono fuori di Milano, onde star meglio in guardia contro un nemico tre volte più poderoso e una città male affetta.

Oltre gli Svizzeri venuti in rinforzo dell’armata collegata, non indugiò il re di Francia in quel torno a spedire in aiuto di essa, giusta i patti, quattromila Guasconi, quattrocento corazzieri, e quattrocento cavalleggieri sotto il comando del marchese [p. 271 modifica]Michele Antonio di Saluzzo. L’imperatore Carlo V, per impedire la guerra, col mezzo di Ugo Moncada, avea fatto al papa Clemente la proposizione di dargli lo stato di Milano in deposito, frattanto che si esaminasse la causa dello Sforza; che se egli fosse conosciuto innocente, subito gli si consegnasse il ducato; se poi fosse giudicato fellone, allora Cesare ne avrebbe investito, non già Ferdinando suo fratello, ma il duca Carlo di Borbone: tanto era egli alieno dal volerselo appropriare. Ma Clemente VII, confidando nella Lega, nemmeno questo partito volle ascoltare924. Il Moncada si portò verso il regno di Napoli, si unì ai Colonnesi, fece una scorreria in Roma; il papa tremava in castel Sant’Angelo senza soldati e senza viveri; nè sperando altronde pronto soccorso, cercò allora [p. 272 modifica]l’amicizia di Cesare, e richiamò le sue truppe.

Intanto che il pontefice, seguendo il suo costume, si piegava a nuovo partito a seconda degli avvenimenti, l’esercito della Lega, reso potente pei successivi rinforzi pervenutigli, si lusingava di espugnar Milano colla fame, cingendola da più lati per chiudere ogni adito alle vittovaglie, quando seppe che Giorgio Frandsperg nel Tirolo radunava un armamento in soccorso degli Imperiali; il quale infatti nel mese di novembre discese dal Tirolo in Italia con tredici in quattordicimila fanti tedeschi, radunati colle promesse di gran preda; e per il Mantovano giunse a Borgoforte sulla riva del Po. Cambiaronsi allora le speranze dei Collegati, e passarono dalla guerra offensiva alla difensiva, in modo che il duca d’Urbino, lasciati in Vaprio i Francesi e gli Svizzeri sotto il comando del [p. 273 modifica]marchese di Saluzzo, accorse col restante dell’esercito a far argine ai Tedeschi; ma il pronto accorrere dei Collegati non valse a trattenerli, mentre essi piombarono sul Piacentino, non curandosi di Milano, già ridotto all’estrema indigenza, risoluti di passare al saccheggio di Firenze e di Roma. Quest’esempio eccitò ben presto un’egual brama nei soldati cesarei accampati nel Milanese: e l’estrema scarsezza dei viveri fra di noi fece nascere un generale fermento ne’ soldati, che attribuivano al papa i disagi e i mali che sofferivano, e costrinsero i comandanti a marciare con essi a quella vòlta925. Il Borbone, confidato il Milanese al Leyva, si pose alla loro testa. I soldati l’adoravano. Egli soleva dir loro: Figliuoli miei, sono un povero cavaliere, non ho un soldo, nè voi ne avete: faremo fortuna insieme. Una così impensata e potente irruzione di queste forze riunite costernò maggiormente l’animo di Clemente VII, sì che acconsentì ad una tregua di otto mesi coll’imperatore, stipulata coll’opera del vicerè Lannoy, luogotenente cesareo per l’Italia. Spedì allora il Lannoy incontro agli Imperiali coll’ordine di non inoltrarsi, atteso l’armistizio concluso, sotto pena d’infamia. Ma l’armata, [p. 274 modifica]pronta a marciare senza capitani, minacciò di uccidere chi parlasse di ordini contrari. Sepulveda porta opinione che il Borbone accettasse il comando di questa armata per disperazione di miglior partito, attesa l’assoluta deficienza degli stipendi; al che concorda eziandio il Grumello926.

(1527) Partì adunque da Milano il Borbone verso la metà di gennaio del 1527, e andò ad unirsi verso Piacenza coi Tedeschi di Giorgio Frandsperg, seco conducendo cinquecento uomini d’arme, molti cavalli leggieri, quattro o cinquemila Spagnuoli, e circa duemila fanti italiani; i quali, uniti co’ tredici o quattordicimila fanti del Frandsperg, formarono un potentissimo esercito; e d’accordo si proposero, come fecero, d’inoltrarsi a Firenze ed a Roma, depredando e saccheggiando per via tutte le città e luoghi del loro passaggio. Il Frandsperg si ammalò in cammino, e fu trasportato [p. 275 modifica]a Ferrara per farsi curare. Chi il disse colà morto di apoplessia nel mese di marzo 1527927, fu indotto in errore, mentre trovansi lettere di questo capitano dei Tedeschi, in data di Milano, delli 25 luglio dell’anno seguente928. Il Borbone, costante nel suo proponimento, messosi alla testa di tutta quell’armata, attraversò rapidamente gli Appennini, e s’incamminò verso Firenze. La qual città trovando egli, fuor d’ogni suo avviso, ben munita e pronta alla difesa, avendo l’armata della Lega vicina, neppur tentò di accostarvisi929. Giunto sotto Roma, il duca spedì un araldo chiedendo al papa che mandassegli alcuno per concertare seco le condizioni della pace. Ma nemmeno si permise che l’araldo entrasse in città: tanto credevansi il papa e i Romani sicuri, perchè i Cesarei, senza artiglieria e mancanti di tutto, non potevano fare assedio nè persistere, essendo vicino e pronto al soccorso l’esercito confederato. Questa estremità di miseria de’ Cesarei fu appunto [p. 276 modifica]motivo della presa di Roma, poichè la tentarono con sommo impeto, da disperati.

Sembra che Carlo V nulla sapesse della spedizione intrapresa dal suo esercito d’Italia contro Roma, nè che fosse in sua potere di liberare il papa. L’esercito era composto di gregari stranieri, che non erano sudditi dell’imperatore, che non erano pagati da lui, e che non conoscevano se non i loro generali, e il Borbone sopra tutti. Le armate allora erano collettizie, e radunate per un tempo e per un oggetto determinato. Il vicerè Lannoy, a nome dell’imperatore, tentò invano di distogliere il duca di Borbone dall’impresa, ed altamente riclamava l’osservanza della tregua da lui fatta con Clemente VII in nome cesareo. A Carlo V nè dovea nè poteva piacere la mossa del Borbone e dell’esercito suo verso di Roma, se non per altro, perchè nessun utile egli ritraeva dalla oppressione del papa, e sommo odio acquistavasi presso tutta la cristianità.

Appena il duca di Borbone fu [p. 277 modifica]alle mura di Roma, che fu ai 5 di maggio, fece apprestar le scale, ed egli alla testa, spinse l’intiero esercito ad entrar per forza dalle mura più basse nella città; ma ferito in un fianco da un’archibugiata, rimase estinto nella fresca età di trentott’anni. Il principe Filiberto di Oranges gli subentrò nel comando, e diresse il sacco di Roma, che durò più settimane. Il duca di Borbone, prima di dare la scalata a Roma (come racconta il Grumello)930, disse a’ suoi capitanei che era sicuro che tutti seriano richi et se caveriano la fame, ma li ebbe domandato una grazia che non volessero saccheggiare dicta città se non per un giorno, che li faceva promissione di darli tutte le sue paghe avanzavano con Cexare, che erano circa dece overo dodece; et così fu stabilito per li capitanei et militi cexarei... Il povero Borbono, quale haveva animo di salvar la città da le crudelitate, et forse contro la voluntà del Magno Idio, che voleva che Roma in tutto fosse distructa, per li horrendi peccati regnavano in essa città... rimase sul colpo. Giunta [p. 278 modifica]a Carlo V la nuova del sacco di Roma, ordinò pubbliche preghiere in tutta la Spagna per la liberazione del sommo pontefice, assediato in castel Sant’Angelo dalla sua armata. Forse queste dimostrazioni non furono una ipocrisia, come taluno ha creduto; ipocrisia che non avrebbe fatto altro effetto, se non quello di macchiare la gloria di Carlo V, degradandolo alla furberia d’un meschino e debole principe. Probabilmente nè Carlo V comandò quest’impresa, nè se ne compiacque; poichè l’insulto all’inerme sacerdozio non poteva ascriversi [p. 279 modifica]ai fasti della gloria, e Carlo imperatore troppo la conosceva e l’amava. Che che ne sia il papa, per liberarsi, fu costretto a sottoscrivere nel mese di giugno una capitolazione imperiosa e gravosissima col principe d’Orange e co’ principali offiziali, oltre al pagare fra tre mesi all’armata quattrocentomila ducati.

Mentre il duca di Borbone aveva condotte a Roma le principali forze di Cesare, e che stavasene il Leyva a Milano con pochi armati, i Veneziani s’innoltrarono, lo Sforza uscissene dal Cremonese, e si pensò di cogliere il momento per discacciare l’imperiale potenza dall’Italia. Anche il re cristianissimo a tempo assai opportuno, cioè verso la fine di luglio, mandò in Italia Odetto di Fois signore di Lautrec, con mille uomini di [p. 280 modifica]armi e ventiseimila fanti. Passò questi le Alpi con apparenza di liberare il papa; ma si trattenne in Lombardia, prese Alessandria e Vigevano, e s’impadronì della Lomellina. Genova pure ritornò a’ Francesi, che ne affidarono il comando al maresciallo Teodoro Trivulzio. Tutte le altre fortezze erano rimesse nelle mani di Francesco Sforza, perchè i Veneziani e gli altri collegati non avrebbero tollerato che rimanessero in potere de’ Francesi. Lautrec pose l’assedio a Pavia. Il conte Lodovico Barbiano di Belgioioso la difendeva con diecisette bandiere d’Italiani, ma non complete, e tutti non formavano più di mille combattenti. Lautrec batteva la parte più forte, cioè il castello, affine di prendere tutto in un sol colpo. I cittadini pavesi odiavano i Francesi, e combattevano come soldati. Respinsero tre assalti con gloria, e nove insegne tolsero ai nemici. Il conte Lodovico ne rese informato il comandante supremo don Antonio Leyva, che governava Milano, e quello gli mandò a dire, che avendo fine a quell’ora riportato tanto onore e gloria contra i nemici, gli pareva ben fatto, e così lo consigliava, anzi gli comandava, per aver lui pochissima gente in aiuto della difensione di essa città, che vedesse col miglior modo che avesse saputo ritrovare, di lasciare la città in preda ai nemici, uscendone lui con la sua gente a salvamento; suadendoli ancor questo per il meglio con questa ragione, che, saccheggiando i nemici la città di Pavia, si sarebbero poi [p. 281 modifica]la maggior parte di loro dispersi con li bottini fatti in essa città, andando alle loro patrie ricchi, laonde non si sarebbero poi fatto stima di ritornar più al soldo de’ Francesi, di modo che esso Lotrecco, ritrovandosi poi per detta causa con niuno ovver pochissimo esercito, sarebbe stato sforzato a lasciar l’impresa di gire a Napoli, come aveva supposto, la qual era di più importanza e di maggior danno che la perdita d’essa città. Avendo dunque avuto detto conte Barbiano detto avviso, anzi comandamento espresso, subito ricercò di avere e così ottenne da’ Francesi salvo condotto931. S’impadronirono pertanto i Francesi di Pavia il giorno 5 di ottobre del 1527; e a pretesto di espiar essi la precedente disfatta e la presa del loro re, la città fu crudelmente posta a sacco, e poco mancò che non rimanesse affatto distrutta. Il Lautrec il 18 ottobre abbandonò Pavia rovinata, e lasciando Milano bloccata e mancante di viveri, s’avviò a Piacenza, dove aggiunti alla Lega i duchi di Ferrara e di Mantova, proseguì la sua marcia alla vôlta di Napoli. Giovandosi il Leyva della partenza di Lautrec, uscì da Milano, respinse alcuni corpi nemici e s’impossessò di Novara, scacciandone il presidio sforzesco coll’aiuto di Filippo Torniello.

L’unico vantaggio che risultò da questi alternanti successi furono le trattative di pace intraprese tra l’imperatore Carlo V e Francesco I re di Francia. Ma sì bella [p. 282 modifica]dileguò quasi appena mostratasi; tantochè nel giorno 25 di gennaio del 1528 gli ambasciatori della Francia intimarono in nome della Lega nuova guerra all’imperatore, e si riaprì più terribile che mai questo marziale teatro, specialmente ad esterminio della misera Lombardia. L’imperatore, vedendo il re di Francia mancare francamente alle promesse e ai giuramenti, prese il ministro francese da solo a solo in Granata, e dissegli: Dica al suo re, ch’egli manca alla parola che mi ha data a Madrid, e pubblicamente e da solo; ch’egli non opera rettamente, nè da un uomo bennato; e se lo nega, mi esibisco di provare in persona a lui la verità, e terminare la controversia col duello. Questa commissione diè luogo alla missione di due famose lettere tra i due sovrani, che ci furono conservate dallo storico Sepulveda932. Sentivano più che mai i Milanesi il flagello della fame, essendo impedita la comunicazione con Lodi e con altre città e terre dello Stato, quando Gian Giacomo de’ Medici, guadagnato da Antonio da Leyva, che gli consentì di fare la conquista di Lecco,

[p. 286 modifica]abbandonò il partito francese, e si collegò cogli Imperiali: solite incostanze degli avventurieri di que’ tempi. In benemerenza di che radunata in quelle parti gran copia di grano, lo spedì in soccorso della sua patria. Questo sussidio diede luogo ad Antonio de Leyva nel mese di maggio di conquistare Abbiategrasso, e di riacquistare Pavia presidiata, è vero, da’ Veneziani per Francesco Sforza, de’ quali il comandante era Giovanni da Campo Fregoso, ma quasi vuota d’abitatori. Era podestà e governatore di Pavia, scrive il Verri, Francesco Sfondrato, il quale poi per la sua virtù fu senatore, indi cardinale. Colà s’inoltrarono gl’Imperiali sotto il comando del conte Lodovico da Belgiojoso con alcune bandiere tedesche, ed il giorno 25 se ne impadronirono senza contrasto. Pavia, quantunque già esausta, non andò immune da un nuovo saccheggio. A tali rinforzi vi si aggiunse nel seguente mese di giugno l’altro più valido di Arrigo duca di Brunsvich, spedito da Carlo V in Italia con quattordici mila Tedeschi, affine di recarsi a Napoli onde impedire le rapide conquiste che colà facevano i Francesi guidati dal Lautrec; a far argine alle quali eravi pur giunto da Roma il principe d’Oranges coll’avanzo del suo esercito ridotto per la pestilenza a soli dodici mila combattenti. Il duca di Brunsvich pervenuto coll’esercito cesareo ai confini della Lombardia, espugnò Peschiera; e saccheggiati i territorj di Brescia e di Bergamo, ed entrato nel Milanese, venne eccitato dal Leyva a portarsi co’ suoi all’acquisto di Lodi, a cui il giorno venti di giugno diedero l’assalto; ma tanta fu l’attività e il valore di Gian Paolo fratello naturale del duca Francesco ivi opportunamente lasciato al presidio di quella città, che vennero gli aggressori rispinti, e costretti a [p. 287 modifica]i suoi si dileguarono tosto, assaliti da una specie di peste, detta male mazzucco, che in meno di otto giorni fece di essi una orrenda strage, cosicchè il residuo di quell’armata continuò sollecitamente la via del suo destino. Ma intanto la visita del Brunswich aiutò a consumare i sussidii di vettovaglie che avea dapprima ricevuti Antonio de Leyva, il quale non avendo più mezzi onde pascere le sue truppe, nè sapendo più come smungere le borse degl’infelici Milanesi, trovò l’espediente di proibire, sotto la pena della vita e della confiscazione de’ beni, che niuno potesse tener farina nè far pane in casa; quindi impose una rigorosa ed esorbitante gabella in tutto lo Stato sul pane venale. Queste vessazioni sono così narrate dal Guicciardini934: In Milano, per l’acerbità di Antonio da Leva, era estremità e soggezione miserabile, perchè per provvedere ai pagamenti dei soldati aveva tirato in sè tutte le vettovaglie della città, delle quali, fatti fondachi pubblici e vendendole in nome suo, cavava i danari per i pagamenti loro, essendo costretti tutti gli uomini, per non morire di fame, di pagare a’ prezzi che paresse a lui; il che non avendo la gente povera modo di poter fare, molti perivano quasi per le strade, nè bastando anche questi danari ai soldati tedeschi, ch’erano alloggiati per le case, costringevano i padroni ogni giorno a nuove taglie, tenendo incatenati quegli che non pagavano; e perchè per fuggire queste acerbità e [p. 288 modifica]pesi intollerabili, molti erano fuggiti e fuggivano continuamente dalla città, non ostante l’asprezza dei comandamenti e la diligenza delle guardie, si procedeva contro gli assenti alle confiscazioni de’ beni, ch’erano in tanto numero che, per fuggire il tedio dello scrivere si mettevano a stampa, ed era stretta in modo la vettovaglia, che infiniti poveri morivano di fame, e i nobili mali vestiti e poverissimi, e i luoghi già più frequentati, pieni di ortiche e di pruni.

Mentre le cose nel Milanese erano giunte a questo estremo, e i Francesi facevano progressi nel regno di Napoli, il Lautrec morì colà di malattia il 7 agosto del 1528. Gli successe monsignor Vaudemont, che presto egli pure morì, e rimase a comandare l’armata francese nel regno il marchese di Saluzzo, dove per i Cesarei comandava il principe d’Orange. Ma dopo tante speranze di conquistare quel regno, le forze galliche, diradate prima dalla pestilenza, furono annichilate vicino ad Aversa il 28 agosto; tutta l’armata si rese a discrezione, ed i soldati vennero [p. 289 modifica]lasciati in libertà con un giubbone ed un bastone bianco in mano935. Frattanto un altro corpo di Francesi, comandati dal conte di San Pol, entra in Lombardia, prende Sant’Angelo, Marignano, Vigevano, ricupera Pavia, e si presenta a Milano. Ma il pericolo di perder Genova fece sì che i Francesi colà celeremente si trasferissero. Genova, col l’aiuto dell’immortale Andrea Doria, scosse ogni giogo straniero, e soppresse lo spirito di fazione in guisa che non vi rimase più dopo quell’epoca vestigio alcuno de’ Guelfi e Ghibellini, nè degli Adorni e dei Fregosi. Si riconciliarono le famiglie, si formò un sistema politico, cioè un determinato corpo presso di cui risiedesse la sovranità, si stabilì il numero delle cariche e l’autorità di ciascuna, e il metodo delle elezioni. Tuttociò fu per opera di Andrea Doria, che ricusò ogni carica. (1529) Da quel punto Genova diventò libera e repubblica, e i Francesi la perdettero per sempre. Il conte di San Pol, di ritorno dalla infausta spedizione di Genova, ridusse il Leyva alle sole città di Milano e Como; il rimanente non era più dell’imperatore. Leyva coglie il momento in cui il conte di San Pol coi Francesi era a Landriano, avendo staccato una parte de’ suoi; lo batte, lo prende prigioniero coll’artiglieria e tutte le bagaglie; i Francesi furono totalmente disfatti936. Il Leyva era tormentato dalla podagra, ed era portato sopra una sedia da quattro uomini. [p. 290 modifica]

Ancora una buona parte del Milanese rimaneva a Francesco II, acquistata da’ Francesi e da’ collegati, onde facea duopo tuttavia di una seria guerra per ispossessarnelo. Carlo V colse il punto che i Francesi erano stati disfatti nel regno di Napoli e nel Milanese, per far pace e lega col papa, e si dispose a comparire nell’Italia da pacificatore e da gran monarca, generoso e moderato. Egli concesse Margherita d’Austria, sua figlia naturale, nata da Margherita Van-Gest, fiamminga, in moglie ad Alessandro Medici, figlio naturale di Lorenzo II, e cugino di Clemente VII, il qual papa era pure figlio naturale di Giuliano de’ Medici. Per tal modo il papa assicurò la sovranità di Firenze alla sua famiglia. Fra gli altri patti vi fu quello per cui il papa obbligò il Milanese a comprare il sale di Cervia. Rispetto allo Sforza si stabilì che l’imperatore avrebbe giudidicato della di lui condotta, e se fosse trovato innocente, si sarebbe restituito a lui il ducato; se fellone, se ne sarebbe investita persona benevisa al papa. Con tai riguardi cercò d’indennizzarlo de’ mali cagionatigli dal duca Borbone. Il trattato venne solennemente pubblicato in Barcellona il 29 giugno del 1529. Poi il 5 di agosto dell’anno medesimo fu segnata a Cambrai la pace fra l’imperatore e il re di Francia, per cui questi riebbe i figli suoi ch’erano in ostaggio in Ipagna, e cedette ogni ragione sul ducato di Milano.

Disposte così le cose a diffondere la sospirata pace per tutte le contrade d’Italia, fu trascelta la città di Bologna, dove Carlo V avesse a [p. 291 modifica]ricevere di mano del pontefice la corona imperiale. Verso la metà d’agosto navigò egli da Barcellona a Genova con mille cavalli e novemila fanti, condotti seco per mare su ventotto galee, sessanta barche e molti altri navigli. Il papa spedì colà tre cardinali legati, Alessandro Farnese, che poi fu suo successore nel papato, Francesco Quignone, spagnuolo, e Ippolito Medici. Cesare, pochi giorni dopo, passò a Piacenza. Antonio de Leyva vi fu ben accolto dal suo sovrano, nè gli fu difficile di ottenere l’assenso di riprender Pavia; cosa che gli premeva assaissimo per suo privato interesse. Ritornato in seguito il Leyva al governo del Milanese, guidò le sue genti alla conquista di Pavia, che presto riebbe e senza sangue, atteso che Annibale Picenardo, comandante di quella città, disperando di poterla difendere dall’aggressione de’ Cesariani, la cedette loro senza grande resistenza937.

Prima di conchiudere questo capitolo giova di riferire il seguente fatto, narrato dal Grumello938, e che potrebbe servire di argomento per una tragedia. Un mercante, nativo di Casale Monferrato, chiamato Scapardone, da povero diventò padrone di più di centomila scudi. Allora lo scudo era mezza doppia, e anche da ciò si vede qual messe si raccoglieva allora nel commercio. Morì questo ricco mercante, lasciando un’unica sua figlia erede. Questa era una giovine molto bella e ancora più gentile, graziosa e amabile. Fu maritata in Milano al signor Ermes Visconti, nobilissimo e ricchissimo, che la lasciò giovine e vedova senza successione. Sposò poi un Savoiardo, monsieur di Celan, uomo degno e benestante; ed essa, dopo qualche tempo, fuggì dal marito e portò seco gioie e denari. Si recò a Pavia e abitò in casa d’Ascanio Lonate, suo parente, ed era in Pavia corteggiata da ogni ceto di persone. Passò indi a Milano. Il signor di Massino, che era venuto dalla Spagna col duca di Borbone, amava madama di Celan; il conte di Gaiazzo era pure nel novero dei suoi adoratori, e quest’ultimo era preferito; per lo che sdegnato, il Massino la abbandonò, nè si conteneva di sparlare di lei. Ella, di ciò informata, determinò di vendicarsi colla di lui morte, e animò il Gaiazzo a meritarsi sempre più l’amor suo coll’eseguirla. L’amante non si oppose, temporeggiò, lasciava sperare, ma non volle eseguire il delitto. La Celan, doppiamente sdegnata, cercò di mettere la bellezza a prezzo di un omicidio, e don Pedro de Cardona, figlio del conte di Collisan, giovine valente, accettò il crudel partito e uccise Massino. Il duca di Borbone volle che non rimanesse impunito l’atroce fatto. Madama di Celan fu imprigionata nel castello, regolamente processata e conosciuta rea; una sera il capitano di giustizia andò in Castello con un sacerdote e due monache, le annunziò la morte; essa chiese se con denari si potesse salvarla, e le fu risposto che tutto l’oro del mondo non lo poteva. Le fu troncata la testa sul rivellino del castello, indi nella chiesa di San Francesco stette esposta, e pareva che fosse viva. Svegliò molta compassione.