Una notte di maggio (Gogol-Forti)

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Nikolaj Vasil'evič Gogol' 1831 1903 Ascanio Forti Indice:Gogol - Novelle Ukraine, traduzione di Ascanio Forti, Sonzogno, Milano, 1903.djvu Novelle Una notte di maggio Intestazione 7 dicembre 2023 100% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Novelle Ukraìne


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UNA NOTTE DI MAGGIO



I.

Anna.


Un’eco di canzoni si spandeva per le vie di S*** come il fragore d’un torrente sonoro. Era l’ora che, stanchi del lavoro e delle cure del giorno, i giovani e le giovanette si adunano in piacevoli torme chiassose, e nell’incanto della purissima sera versano la gioja delle loro anime in suoni velati di mestizia.

Già, caduto il crepuscolo, era sopravvenuta la sera co’ suoi misteri a colorare il cielo di pallore malinconico e ad involgere tutte le cose nell’indeciso; ma i canti non cessavano ancora. Con una chitarra in mano un giovane cosacco, Levko, il figlio del sindaco del villaggio, s’era quasi furtivamente allontanato da un gruppetto di cantori. In testa portava un berretto di astrakan e camminava per la strada ballettando al suono del suo strumento. Adagio, adagio si ferma alla porta d’una casetta, adorna di ciliegi. Di chi è quella casa? Chi abita quella porta? Tace per un momento, riprende la chitarra e canta:

               Il sole è basso e a sera è già vicino;
               Vieni fuori da me mio cuoricino.

– Che si siano già chiusi nel sonno gli occhi azzurri della mia bella? – disse il cosacco finito di cantare. Indi avvicinandosi alla finestra: [p. 42 modifica]

– Alia, Alia1. Dormi o non vuoi venire da me? Temi che ci sorprenda qualcuno o non vuoi raffreddare il tuo visuccio bianco? Non aver paura: non c’è nessuno e fa caldo. Se anche qualche persona ci vedesse io ti nasconderei nella mia svita, ti avvolgerei colla mia cintura e nessuno ti riconoscerebbe. Se anche facesse freddo ti porrei accosto al mio cuore e ti scalderei coi miei baci; poi involgerei ben bene i tuoi piedini bianchi nella mia berretta, anima mia, pesciolino mio, vezzo del mio collo. Affacciati anche per un momento solo, o almeno mostrami la tua manina d’avorio attraverso la finestra... No... tu non dormi, superba ragazza! – proruppe a un tratto con forza, scornato e vergognoso della propria umiliazione; – ma perdio, non ti devi vantar più di prenderti giuoco di me!... Addio!

Detto questo si calcò la berretta fino agli orecchi e sdegnato si volse per allontanarsi, tormentando le corde della chitarra con le dita nervose.

In questo mentre la maniglia della porta s’agitò e questa s’aperse scricchiolando ne’ cardini.

Una ragazzina di diciassette primavere si fece sulla soglia, avviluppata dall’indeterminatezza crepuscolare, e guardò timorosamente da ogni lato. Nella penombra le stelle de’ suoi occhi raggiavano soavemente e luccicava la sua collana di corallo: ai rapaci occhi del giovine cosacco non sfuggì il rossore pudico che si accese sulle sue guancie.

– Ma come hai poca pazienza! Perchè vieni a quest’ora? Vedi quanta gente va e viene per la via... Io tremo tutta.

– Non tremare, mia sensibile. Stringiti a me più forte – disse il giovane mentre l’abbracciava e rigettava indietro la chitarra, appesagli al collo con una cigna.

Poi sedendolesi a lato, sullo scalino della casetta:

– Tu sai che non posso stare un minuto senza vederti...

– Sai che cosa penso? – interruppe la giovinetta, fissando i suoi mesti occhi su quelli del giovine. – Mi par sempre che ci sia chi mi sussurra all’orecchio che in avvenire non potremo più vederci tanto spesso. Mi trovo fra gentaccia: le giovinette mi [p. 43 modifica]guardano con invidia e i giovinotti... Anche la mamma da un pezzo in qua mi tien d’occhio con più severità. Ero più contenta quando stavo con estranei.

Il viso le si fece ancora più addolorato pronunciando queste parole amare.

– Non sono ancora due mesi che sei tornata al paese natale, e già ti ci annoi. Forse ti dò noja anch’io?

– Oh, no! tu non mi dai noja – diss’ella sorridendo. – Io ti amo, cosacco dalle ciglia nere, ti amo perchè hai gli occhi neri, che, se mi guardano, l’anima mi si colma di piacere; ti amo perchè hai i baffi neri e li accarezzi con tanto garbo; perchè quando cammini per istrada suoni e canti così bene, che è un gusto a sentirti.

– Alia mia! – esclamò il giovinotto, baciandola e stringendosela ancor più al petto.

– Aspetta! Basta Levko! dimmi piuttosto se ne hai parlato a tuo padre...

– Di che? del mio matrimonio con te? Sì, ne ho parlato – disse il cosacco come risvegliandosi dal sonno, pronunciando le ultime parole con malinconia.

– E lui?

– Che c’è da fargli? Quel vecchione tien duro come al solito e non vuole intender ragione e non fa altro che rimproverarmi perchè, secondo lui, io vado a girare di qua e di là, Dio sa dove, e m’imbranco con cattive compagnie. Non ti disperare, Alia mia! Ti dò la mia parola di cosacco, che gli farò fare quel che piace a me.

– Di’ quel che tu vuoi, Levko, e io farò a modo tuo. Lo so da me: qualche volta non ti vorrei obbedire, ma basta che tu mi dica una parola perchè io sia costretta a far tutto quel che ti aggrada... Guarda, guarda lassù – continuò posando la testina sulla spalla del cosacco, cogli occhi volti verso l’alto, dove, nel vasto cielo ukraino che andava imbrunendosi, si lineavano nette le ramificazioni de’ ciliegi. – Guarda lontano, tanto lontano: le stelle pare che ci guardino: una, due, tre, quattro, cinque... È vero che sono gli angeli di Dio che aprono le finestrine delle loro case piene di luce, e che stanno a guardarci? Oh! se avessimo le ali, come gli uccellini, che piacere a volare lassù, [p. 44 modifica]lontano, sempre più lontano! Che peccato che non ci sia nemmeno una quercia delle nostre che tocchi il cielo! Però ho sentito dire che in un certo luogo, la notte avanti Pasqua, Iddio scende in terra fra gli uomini e si cala da un albero che ha la cima alta fino al cielo...

– No, Alia mia cara, Dio ha una scala lunga dal cielo alla terra, e gli angioli glie la tengono ferma nella notte del sabato santo. Basta che Iddio metta un piede nel primo scalino perchè gli spiriti maligni capitombolino giù tutti insieme all’inferno. Così verso Pasqua nel mondo non ce ne resta più nemmeno uno.

– Come si muove adagino l’acqua! Pare un bambino che si culli! – continuava Anna accennando allo stagno, contornato dalle nere fronde degli aceri, sul quale i salici rinfrescavano i verdi rami lacrimanti.

Stanco e affievolito come un vecchio, quello stagno era vago di cullare fra i suoi freddi abbracciamenti il misterioso e lontano cielo, e di coprir di baci le stelle che, per la notte buja, brillavano d’una timida luce, come gioissero per la imminente venuta della magnifica regina della notte. Sul monte, presso il bosco, una vecchia casa di legno dormiva colle imposte serrate, coperto il tetto di muschi e di gramigna: i meli maturi rigogliavano davanti alle finestre: il bosco, adombrandola colla sua oscurità, le dava un’apparenza misteriosa e strana. Da essa si partiva, e si dilungava fino allo stagno un boschetto di noci.

– Mi rammento, come se l’avessi sognato – disse Anna – che molto tempo fa, quando io ero piccina piccina, mi raccontavano certe storie terribili di quella casa. Se tu ne sai qualcosa, Levko, raccontami...

– Lasciamo stare certi discorsi, che t’impaurirebbero e non ti farebbero dormire tranquilla stanotte. Sono le solite storie che raccontano le donnaccole e gli sciocchi.

– Raccontami, raccontami, mio caro giovane dalle ciglia nere – diceva ella, appressando le guancie al viso di lui e abbracciandolo – sennò è segno che tu vuoi bene a un’altra: sta’ certo che io dormirò tranquilla. Solamente se tu non mi vuoi dir nulla io non riescirò a chiuder occhio, e mi rivolterò di qua e di là con questo pensiero. Raccontami, Levko. [p. 45 modifica] – Hanno ragione di dire che le donne hanno il diavolo in corpo, che le fa esser curiose e desiderose di tutto, e specialmente di quello che non dovrebbero sapere. Dunque, senti:

«Molto tempo fa, cuoricino mio, stava in quella casina là un capitano dei cosacchi con una figlia più bianca della neve, bianca come il tuo visino. Questo capitano volle ripigliar moglie, perchè la prima gli era morta molto tempo addietro. E la figliuola a dirgli: «Papà, mi farai sempre le carezzine quando avrai un’altra moglie?» E lui a rispondergli: «Sì, mia piccina, ti abbraccerò sempre più e ti comprerò tante buccoline e tante collane.» Il capitano portò a casa la giovine sposa. Ed era bella la giovine sposa: bianca e rossa; ma guardò la figliettina con uno sguardo così freddo e torvo che questa cacciò un grido e non ebbe in tutta la giornata nemmeno una buona parolina di consolazione dalla matrigna. Poi la povera figliolina si chiuse in camera, si mise a piangere e doventò pensierosa, colla testa bassa. Quando alza gli occhi vede un gattaccio nero, che si avvicina a lei adagio adagio coi peli che parevano di fosforo e cogli artigli che tintinnavano sul pavimento. Piena di spavento monta sulla panca e la gatta ci monta anche lei: salta sul caminetto e la gatta vi salta anche lei, e prende lo slancio per buttarlesi al collo e strozzarla. La ragazzina caccia un bercio, se l’allontana dal collo e la butta di tonfo in terra; ma di nuovo la gattaccia cogli occhi in fiamme si avvicina... la ragazzina disperata stacca uno sciabolone dal muro e... giù... un colpo per terra: uno zampello con gli artigli di ferro balza per l’aria e ricade. Il gatto urla e va via. In tutto quel giorno la moglie non esce di camera: al terzo giorno si fa vedere col braccio fasciato. La giovinetta allora pensò subito che la matrigna era una strega, a cui essa aveva spezzato la mano. Il quarto giorno il capitano comandò alla figlia di andar per l’acqua e di ripulire la casa come una serva e di non farsi più vedere in camera della matrigna. Era gravoso per la giovinetta, ma dovè fare come voleva il babbo. Il quale al quinto giorno la mandò via come un cane, scalza e digiuna.

«La poverina dette in singhiozzi disperati e si coprì [p. 46 modifica]il visino bianco con le mani bianche: «Babbo, tu hai lasciato me, la tua figliolina, e la strega guasterà anche il tuo buon cuore. Io, povera me, non so più cosa farei in questo mondo.» Vedi laggiù – seguitò Levko accennando ad Anna la casa – lì... no... un po’ più in là della casa, dove la riva è più alta? Da quella riva si buttò giù nell’acqua la signorina e ora non c’è più in questo mondo.

– E la strega? – interruppe Anna affannosamente, fissando i suoi occhi lacrimosi in quelli del giovane.

– La strega? Le vecchie massaje dicono che d’allora in poi, nelle notti chiare, le annegate escono dallo stagno e vanno nel giardino del capitano, per scaldarsi alla luna, e quella che le conduce è la signorina. Questa una sera vide la matrigna presso lo stagno: le si fece addosso e urlando la travolse sott’acqua; ma la strega, furba, le giocò un altro tiro. Riuscì a trasformarsi in una delle annegate, e così scampò alla frusta a cui era stata condannata dalle compagne della povera signorina.

«Le donne raccontano poi altre storielle. Dicono che tutte le notti la giovinetta passa in rivista le annegate, e fino ad ora non le è riuscito di sapere quale sia fra quelle la strega. E se capita lì qualcuno lo sforza ad ajutarla nelle sue ricerche, minacciandolo, se si ricusa, di affogarlo. Ecco, Alia, i racconti dei vecchi!...

«Il nuovo padrone di quella casa ci vuole impiantare una distilleria e ha già chiamato un meccanico apposta... Ma io sento delle voci. Sono i nostri che han finito di cantare.

«Addio, Alia! Dormi tranquilla e non farti impaurire da queste storielle da donnicciuole.»

Dopo detto tutto questo, l’abbracciò, la baciò e andò via.

– Addio, Levko – disse Anna, senza sviare gli occhi malinconici dalla buja foresta.

L’immensa luna affocata sorgeva in questo mentre da’ monti: ancora nascosta per metà, inondava l’orizzonte d’una luce serena.

Lo stagno sprizzò scintille e sullo sfondo solenne della verdura si delinearono netti i contorni degli alberi. [p. 47 modifica] – Addio, Anna.

Queste parole accompagnate dal rumore d’un bacio risuonarono dietro la giovinetta.

– Sei ritornato? – rispose voltandosi, ma ritraendosi subito vedendo che uno sconosciuto le stava dinanzi.

– Addio, Anna! – disse un’altra voce, e di nuovo un bacio le si posò sulla guancia.

– Non aveva da far altro, il diavolo, che mandarmene un altro di questi seccatori! – diss’ella incollerita.

– Addio, Anna! Addio, cara Anna!

E nuovi baci e nuove parole piovvero su lei.

– Ma qui ce n’è proprio un esercito! – gridava Anna, liberandosi da un branco di giovani che facevano a gara a baciarla. – Come! non sono ancora contenti di baciarmi? Non si può essere padrone di mostrarci un po’ per via, che...

La porta si chiuse e solo si udì il dirugginio del chiavaccio che si serrava.

II.

Il sindaco.


Conoscete voi la notte ukraina? Che peccato che non la conosciate! Miratela: dal mezzo del cielo la luna guarda. Si slarga la sterminata vòlta celeste e pare ancora più incommensurabile: vive e respira anch’essa. Tutta la terra è in una luce d’argento, l’aria è di una freschezza soavissima; ma ha, or sì, or no onde soffocanti, piena com’è di cose morenti e aulente d’un oceano di fragrantissimi profumi.

Che divina notte ammaliatrice!

Le foreste, in larghi vortici d’ombre nere, riposano nella tenebra e pensano. Non un moto hanno i rivoli d’acqua, gelidi, tenebrosi e silenziosamente fluenti fra macchie dense di verde. Le fronde delle brunelle e dei ciliegi bagnano le radiche nell’acqua che scorre, e il frascame fruscìa come incollerito, se quel pazzerello del vento si prova a sorprenderlo coi baci.

In basso tutto il paese dorme: in alto tutto respira e vive d’una vita così magnifica e solenne, che dall’ [p. 48 modifica]animo nostro si levano a frotte visioni, imagini, pensieri d’argento, risonando armoniosamente. Che divina notte ammaliatrice! A qualche istante le foreste e le acque e i prati d’erba si rianimano e un trillo: un seguito di trilli sonori fa rimanere assorta la luna, a mezzo del suo cammino.

Sul rialto, il villaggio dorme sempre come incantato, colle sue casette imbiancate dalla luna e che ora sembrano più brillanti. I suoni han cessato e tutto ritorna silenzioso: la buona gente già dorme.

Qua e là qualche rara finestra è ancora gialla di luce, e qualche famiglia sulla soglia di casa termina la cena ritardata.

– Ma che! il copak2 non si balla mica così. No, no; non va bene. Cosa diceva dunque il compare?... Dunque... hop tralà! hop tralà! hop! hop! hop!

Così discorreva fra sè un contadino avvinazzato, ballonzolando per una via.

– Perdio!... ti dico che non si fa così a ballare il co... copak. Perchè dovrei dire una cosa per un’altra? Pe... perdio, il copak si balla in un’altra maniera... così: hop tralà! hop tralà! hop! hop! hop!

– Perde il cervello quell’uomo là? Tiriamo via, fosse un giovinotto; ma un canchero di vecchio come quello mettersi a ballare di notte, per far ridere anche i bambini! – disse una donna che passava con una bracciata di paglia. – Torna a casa, è tanto che tu dovresti dormire!

– Ci anderò – disse fermandosi il contadino – ci anderò. M... m’infischio di qualunque sindaco, io. Che cosa si crede lui, che il diavolo se lo porti! Perchè non fa altro l’inverno che a... a... annaffiare con acqua fredda la gente che sente freddo, si crede chissà che cosa!... Ma che sindaco. Anch’io... sono un sindaco e che il diavolo mi porti!... Che m’importa del diavolo!... Io sono un sindaco, perdio!... ecco!... Pe... perdio! Avete inteso?... Pe... perdio!

E avvicinandosi alla prima casa che vide, vi si fermò a una finestra e fece viaggiare le mani alla ricerca della maniglia, gridando: [p. 49 modifica] – Mo... moglie, apri! Moglie apri, pe... perdio! Apri, ti dico, moglie! Il cosacco vuol dormire!

– Dove vai, Kalenik... tu sbagli uscio – gli gridarono dal mezzo di strada alcune giovinette, uscenti dal ballo. – Ti dobbiamo insegnar la casa?

– Sì, insegnatemela, donnettine mie care.

– Donnettine mie care?! Avete sentito, compagne? – disse una di esse. – Come dev’essere garbato Kalenik: si merita proprio di essere accompagnato a casa da noi... ma no; prima devi ballare.

– Ba... ballare?... Che ragazze bisbetiche!  – esclamò Kalenik, strascicando le parole.

Poi, gestendo curiosamente, ridendo e rinculando, riprese:

– Ma poi io vi a... abbraccerò e vi ba... bacerò tutte, a una per vòlta, tutte... tutte!

E barcollando si mise a rincorrerle.

Le ragazze scapparono e si dispersero gridando; poi ripreso animo, corsero all’opposto lato della strada.

– Eccola costà la tua casa, gli gridarono allontanandosi e additandogli una palazzina un po’ più spaziosa delle altre, abitata dal sindaco del villaggio.

Kalenik proseguì i suoi sospesi borbottii contro il sindaco e si diresse verso la parte indicata.

O chi è questo sindaco provocatore di così poco lusinghiere parole verso la sua persona?

Oh! questo sindaco è una persona molto influente. Prima che Kalenik abbia finito di camminare avremo tempo di farvelo conoscere.

Quando il sindaco passa, tutti i buoni villici si scoprono il capo e le giovanette gli rivolgono i più aggraziati saluti. Dove c’è un uomo che non vorrebbe esser sindaco? Lui ha l’ingresso libero in ogni luogo: il più superbo e forte giovane resta quatto quatto, col cappello in mano, davanti al sindaco, finchè questi non abbia finito di fregare le grosse e ruvide dita per entro la scatola del tabacco.

Nella hromàda3, il sindaco fa quel che gli pare: quasi di suo arbitrio sceglie chi deve mandare a sterrare la strada o a scavare i fossati. Sempre è cupo e [p. 50 modifica]severo; mai spende, oltre il necessario, le sue parole. Molto, ma molto tempo fa, quando la grande tzarina Caterina – di buona memoria – andò in Crimea, egli fu scelto per guida, e per due giorni godè di questo benefizio; senza contare che ebbe pure il privilegio insigne di far da cocchiere alla carrozza imperiale. Da quel tempo in poi, il sindaco ha imparato che tenendo la testa bassa, come fa, acquista aria meditativa e di importanza; e si liscia i baffi e avventa occhiate da falco.

Da quel tempo, di qualunque cosa si parli, trova modo di far cadere il discorso sull’insigne onorificenza cui fu fatto segno nel tempo in cui accompagnò la tzarina, ecc., ecc., ecc.

Altra caratteristica del sindaco è di fingersi sordo, e di far ciò massimamente quando ha ascoltato fin troppo bene una cosa che non avrebbe voluto sentire.

Non ama punto il lusso e, dacchè sindaco, nessuno si ricorda di averlo veduto separato dalla sua vetusta svita di panno nero casalingo e dalla sua già fiammeggiante sciarpa di lana a colori, se non forse quando si mise addosso una casacca azzurra, per accompagnare la tzarina, ecc., ecc., ecc.

Ma della casacca azzurra nessuno si ricorda: dicesi che dorma, da innominabile tempo, in uno scrigno sotto chiave.

Il sindaco è vedovo, ma vive in casa con la cognata, la quale ha cura di governare lui e i polli di casa, di far da desinare e da cena, di lavare le panche e imbiancare le stanze e cucire le camicie.

Anzi i maligni nemici – e il sindaco, come abbiamo veduto, ne ha parecchi che spargono ogni sorta di calunnie – dicono che la cognata non sia veramente una cognata; ma... Zitti! che non ci senta! Pare che questa calunnia sia stata motivata dal malumore che mostra la parente quando il sindaco va a far visita a qualche campo seminato di seminatrici, o a qualche cosacco che ha in famiglia qualche giovinetta leggiadra, che egli mira ed ammira a dispetto del suo occhio cieco, se è certo di non essere spiato dalla cosidetta cognata.

Ciò che può interessare riguardo al sindaco si è già detto assai largamente, ma il brillo Kalenik non ha ancora finito di camminare; e continua e continuerà per un pezzo a rivolgere tutti gli scelti appellativi, tutte le più gioconde corbellerie, che non possono [p. 51 modifica]generarsi che nella mente sua all’indirizzo di un sindaco, come quello di cui abbiamo parlato.

III.

Il rivale inaspettato – Una congiura.


– No, giovinotti; non voglio: basta con le pazzie. Ogni bel giuoco dura poco. Abbastanza si ha nome di capiscarichi... andiamo a letto piuttosto!...

Così parlava Levko ai suoi compagni, che volevano indurlo a nuove chiassate.

– Amici: addio e buona notte! E s’allontanò a rapidi passi.

Pensava, avvicinandosi alla casa da’ ciliegi nani: «Dormirà la mia Anna?» Bruscamente il silenzio fu rotto da un vociferare sommesso; attraverso gli alberi vide biancheggiare una camicia: «Che affare è questo?» mormorò spingendosi avanti, ma nascondendosi dietro un tronco d’albero, per meglio vedere e udire e per non essere scorto.

La luna rischiarava un viso di ragazzina: questa ragazzina era Anna. «Ma quel giovine alto che mi volta le spalle, chi sarà?» E si affaticava per vederlo, ma invano, poichè tutta la sua persona era in ombra, tranne una piccola parte del torso. Ogni passo che Levko avesse fatto l’esponeva a farsi sorprendere; pure, evitando di far rumore, s’appoggiò a un albero, deciso di restarvi fermo. La ragazzina pronunciò nettamente il suo nome.

– Levko?... Levko è ancora un bambino che ha bisogno di poppare – diceva l’arrocchita voce dell’uomo sconosciuto. – Se lo sorprendo da te, gli dò una bella tiratina d’orecchi...

– Lo vorrei conoscere un po’, questo imbecille che si vanta di tirarmi le orecchie, pensò Levko e si sporse ancora più, ma non udì che un sommesso balbettio, del quale non capì una sillaba.

Poi, quando si tacque l’uomo dall’alta statura, Anna a voce alta disse:

– Non ti vergogni?... tu non dici la verità e cerchi d’ingannarmi. Non è vero che tu mi ami; non mi hai mai voluto bene! [p. 52 modifica]

Lo sconosciuto riprese:

– Lo so: m’imagino tutte le sciocchezze che t’avrà detto Levko, fino a frastornarti la testa.

Questa volta al fidanzato di Anna la voce dello sconosciuto non fu più sconosciuta: molte altre volte si ricordava d’averla udita.

– Ci penserò io, riprese, a rimetterlo a posto. Lui crede che io non le sappia le sue tresche. Farò sentire a questo figlio d’un cane il peso de’ miei pugni.

A queste parole Levko non rattenne l’impeto di collera che lo agitava. Si slanciò verso l’incognito per assestargli una manata sulla faccia; ma restò subito senza forza e senza voce. Un improvviso raggio di luna, riverberatosi sulla faccia dell’interlocutore di Anna, lo aveva rivelato per il sindaco del villaggio.

Levko... riconosciuto suo padre, scosse il capo e agitò le labbra. Anna scappò in casa e vi si serrò dentro.

– Addio, Anna! – esclamò un giovane, abbracciando il sindaco, ma rigettandosi subito indietro per l’orrore di avere incontrato i rari e setolosi suoi baffi.

– Addio, bella ragazza! – gridò un altro, che però fu rovesciato a terra da una spinta vigorosa del sindaco.

– Addio, Anna!... Addio, Anna!... – continuarono a dire parecchi giovani allacciandoglisi al collo.

– Crepate tutti, maledetti birbaccioni – gridò il sindaco smaniando e battendo i piedi. – Per quale Anna mi pigliate? Andate alla forca voi e i vostri genitori, figliacci del diavolo. V’attaccate a me come le mosche al miele, ma ve la darò io l’Anna!

– Il sindaco, il sindaco... È il sindaco!

E tutti i giovanotti scapparono da ogni parte.

– Che padre! – diceva Levko, ristabilito dallo stupore e seguendo l’ingiuriante padre che s’allontanava, bestemmiando. – Ecco che cosa sei capace di fare! Son queste le tue bravure! Ora capisco perchè faceva da sordo quando gli parlavo dei miei amori. Lascia fare a me, vecchio grinzoso, che t’insegnerò io a dar noja alle fidanzate degli altri!

Poi rivolto al gruppetto degli amici:

– Ehi! Ehi! Ragazzi: vi avevo consigliato ad andarvene a letto, ma ora, ripensandoci meglio, son disposto a passare con vojaltri anche tutta la notte.

– Ora sì: così va bene! – disse un robusto e ben [p. 53 modifica]fatto giovine, che passava per il primo burlone e il più ameno inventore di spiritosaggini, che fosse nel villaggio. Mi vien proprio a noja star qui senza divertirmi, e mi dispiace come se mi mancasse la pipa o non trovassi più il berretto. In una parola mi par di non esser più un cosacco.

– Ragazzi, vi piacerebbe fare arrabbiare il sindaco?

– Il sindaco?

– Sì, il sindaco. O che cosa gli frulla per il capo? Ci governa come bestie: ci tiene come servi e ronza anche intorno alle nostre ragazze!

– È vero, è vero! dice bene! – dissero tutti a una voce.

– E perchè? Ci prende per la più vile discendenza di Cam; noi, che – grazie al cielo – siamo liberi cosacchi di sangue cento volte migliore del suo. Proviamogli, compagni, che siamo tutti liberi cosacchi!

– Sì, glie lo proveremo! – dissero tutti – e regolando i conti col sindaco non dimenticheremo il segretario.

– Sì... anche lui deve entrare in ballo. Ho inventato una certa canzoncina e la insegnerò a tutti – diceva Levko tasteggiando la chitarra. – Travestitevi tutti come vi piace.

– Da’ retta a me, testa di cosacco, divertiti! – disse il robusto e giocondo giovine, battendo ritmicamente i piedi e accompagnandosi collo scoppio delle palme battute insieme. – Che festa! Che libertà! Se ti metti a far baldoria ti ricorderai degli anni passati! Il tuo cuore diverrà spensierato e la tua anima godrà un paradiso eterno. Date retta a me, ragazzi, divertitevi.

Tutti presero a correre e gridare per le vie.

Le vecchierelle bigotte, svegliandosi, si facevano il segno della croce e rivoltandosi sulle coltri dicevano:

– È finito il bene stare. Ora i giovinotti incominciano a far baldoria.

IV.

I giovani fanno il chiasso.


Rimane illuminata una sola finestra in fondo alla strada: quella nella casa del sindaco. Il quale da un pezzo aveva finito di cenare e da un pezzo sarebbe [p. 54 modifica]andato a dormire, se non avesse ospitato il meccanico che doveva costruire la distilleria su terreno di un pomiestcic4 fra i liberi cosacchi. Proprio al posto d’onore, presso la parete a cui s’appendono i santi, stava seduto l’ospite, piccolo uomo panciuto, adorno di due occhi che con gli eterni sorrisi volevano forse significare la vaghezza che egli provava fumando una corta pipa, fino a che non fosse avviluppato entro una nuvola turchiniccia di fumo, per produrre la quale sputava ogni momento e pigiava il tabacco entro la pipa.

Pareva una piccola caminiera che, annojatasi di starsene immobile sul tetto d’una fabbrica, se ne fosse allontanata e garbatamente si fosse posta a tavola col signor sindaco. Entro a quei vortici di fumo, i baffetti che si erigevano sotto il naso del fumatore-camino erano sì minuscoli e sì rari, da esser presi piuttosto per un topo che il meccanico avesse acchiappato e si tenesse fra i denti, a scapito del monopolio del gatto del granajo.

Il sindaco, come padrone di casa, era modestamente vestito in camicia e in mutande di tela. I suoi occhi vacillavano e incominciavano a chiudersi come il sole al tramonto; a un lato del tavolino una guardia del villaggio, che per rispetto al padrone indossava una svita di gala, fumava tranquillamente la sua pipa.

– Dunque, siete disposto a metter su la fabbrica di acquavite? – disse il sindaco ponendosi la mano sulla bocca spalancata da uno sbadiglio.

– Coll’ajuto di Dio quest’autunno incomincieremo a vendere. Scommetto che per la festa della Madonna il signor sindaco farà colle gambe certi zig-zag assomiglianti alle ciambelline tedesche!

Ciò dicendo sparirono gli occhietti del meccanico sotto la pelle che si contrasse in grinze, le quali s’allungarono in raggi fino alle orecchie: tutta la persona ebbe convulsioni di riso e la bocca gioconda s’allontanò per un istante dalla pipa inseparabile.

– Se Dio vorrà! – disse il sindaco atteggiando l’espressione a un po’ di sorriso.

– Oggi vanno diradando le distillerie d’acquavite, ma a’ miei beati tempi, quando ebbi l’onore di [p. 55 modifica]accompagnare la tzarina sulla via di Perejaslao, dopo la morte di Besborotko...

– Eh, compare! che età mi vieni tu ricordando? A que’ tempi da Cremenciùg fino a Romèn, a stento c’erano due distillerie, e invece al giorno d’oggi... Sai tu cos’hanno inventato quei maledetti Tedescacci? Di qui innanzi non si distillerà più come prima, cioè con le legna, ma con un certo vapore del diavolo... (Così dicendo si guardava le mani distese sul tavolo.) Io, perdio, non riescirò a capire come si possa fare col vapore...

– Che razza d’imbecilli sono i Tedeschi! – disse il sindaco – bisognerebbe prenderli a bastonate quei figli di cani. Se ne possono sentir di peggio? far bollire col fumo! Fra poco non saremo più padroni di metterci in bocca una cucchiajata di minestra, senza arrostirci il palato, come si arrostisce un majalino da latte...

– Ma dimmi, compare – interruppe la cognata che si teneva sulla panchina della stufa, seduta sulle gambe ripiegate – come farai a star tutto questo tempo qui senza tua moglie?

– Ho io bisogno di lei?... Se fosse qualcosa di buono, sarebbe un altro pajo di maniche, ma...

– Dunque tua moglie non è bella? – domandò il sindaco, fissando su lui il suo vedovo occhio.

– Bella? è più vecchia del demonio e il suo viso è più grinzoso d’una borsa vuota.

E tutta la persona del distillatore si sconvolse per un riso esuberante.

In questo mentre si sentì raspare alla porta, la quale subito s’aprì e lasciò vedere un contadino che franco, col cappello in testa, varcò la soglia e si fermò in mezzo alla stanza, senza parlare, a bocca spalancata, con gli occhi fissi al soffitto.

Era Kalenik che già conosciamo.

– Eccomi a casa – disse sedendosi su una panca presso la porta, senza nemmeno mostrare di accorgersi di chi c’era nella stanza. –    Quel figlio del diavolo ha fatto una strada lu... lunga che... si cammina, si ca... cammina e non si fi... finisce più... Qua... qualcuno di certo m’ha rotto le... le gambe... Mo... moglie dammi la pelliccia per... per mettermela sotto... No... da te non ci vengo a dormire, qua... quant’è vero Dio, sento un dolo... dolore alle gambe, che... Dammela, è là sotto ai [p. 56 modifica]santi... ba... bada di non versare il tabacco. Sennò sta ferma, la prendo da... da me, non la toccare... Non la to... toccare, ti dico! Pare, i... impossibile che tu sia ubriaca, oggi... È me... meglio che la prenda da me...

Si sforzò d’alzarsi, ma rimase come inchiodato alla panca.

– Questa è bella! – disse il sindaco. – Entra in casa d’altri e ordina come se fosse in casa sua. Cacciatelo fuori subito!

– Lascialo stare, compare, – rispose il meccanico, rattenendolo per il braccio. – È un uomo prezioso: più ce ne sarà di certa gente e meglio guadagnerà la nostra fabbrica.

Il meccanico non diceva queste parole per bontà d’animo, ma perchè credeva, superstizioso com’era, che cacciare un uomo richiamasse prossime o lontane sventure.

– Che co... che cosa m’avverrà quando sarò vecchio? – brontolava Kalenik distendendosi sul banco. – Tiriamo via se io fossi ubriaco, ma ubriaco, pe... perdio, non sono stato mai! Perchè dovrei dire una bugia? Io non... non sono ubriaco e lo sosterrei a... anche davanti al si... sindaco. O che m’importa del sindaco? Crepi pure, fi... figlio d’un cane, non me ne importa un fico: gli sputerei i... i... in faccia! Dio lo faccia rimanere so... sotto un carro, quel ciecaccio! Perchè non fa altro l’inverno che a... a... annaffiare con acqua fredda la... la gente che sente freddo...

– Ecco... ecco!... A lasciare entrare un porco in casa, mette subito le zampe sulla tavola! – disse il sindaco, alzandosi arrabbiato, ma fermandosi subito, perchè una pietra aveva fatto volare, in questo mentre, i vetri delle finestre ed era entrata in casa con gran fracasso. – Se sapessi – continuò raccattando il sasso – chi l’ha tirato, gl’insegnerei io a mirare! Che scherzi son questi! – gridava furibondo alla pietra. – Che tu rimanga nella strozza di chi t’ha tirato!

– Zitto... Zitto, che Dio ti perdoni! – interruppe il meccanico impallidendo. – Dio te ne guardi, in questo mondo e in quell’altro, di far certi auguri alle persone!...

– Hai il coraggio di difenderlo, quel galeotto, che possa scoppiare in questo momento! [p. 57 modifica] – Non ti vengano neanche in mente questi pensieri: tu non sai quel che avvenne alla mia defunta suocera che...

– Alla suocera?

– Sì. Una sera, un po’ più presto d’ora, ci si mise a cenare: io, la defunta suocera, il defunto suocero, il garzone, la garzona e una mezza dozzina di bambini. Tutti mangiavamo alla lesta i gnocchi con degli stecchi di legno, prima che si potessero freddare nel piatto dove li aveva messi la suocera. A un tratto sbuca fuori, non si sa da dove, un uomo e ce ne chiede qualcuno. Come si fa a negar da mangiare a un affamato? Fatto sta che questo sconosciuto ingollava i gnocchi come le vacche il fieno; basti dire che appena gli altri ne avevano mangiato uno e avevan lo stecco pronto per il secondo, il piatto era stato vuotato e mostrava il fondo liscio come l’impiantito de’ signori. La suocera lo riempiva di nuovo, pensando che cessata la fame lo sconosciuto sarebbe stato più moderato. Neanche per sogno! vuotò il secondo piatto più svelto del primo. «Che tu affoghi con questi gnocchi!» pensò la suocera. Infatti l’affamato non riescì a ingojare l’ultimo che gli rimase nella strozza e lo fece cascare in terra. Tutti ci si precipitò su lui, ma era già morto affogato.

– Gli stette bene, al ghiottone! – esclamò il sindaco.

– Bene o male che gli stesse, da quella sera la suocera non ebbe più pace. Vien la notte e il morto le apparisce a cavalcioni sul camino col gnocco in bocca. Finchè il giorno è chiaro, il morto non si fa vivo: ma appena vien la sera, eccotelo lì che si avvicina al tetto e scende, figlio d’un cane, giù per il camino...

– Col gnocco in bocca?

– Col gnocco in bocca.

– Cosa strana, compare. Anch’io ho sentito raccontare un fatto simile, quando ebbi l’alto onore...

Ma il sindaco non proseguì più e si fece ad ascoltare il brusìo e lo scalpitìo de’ danzatori in strada.

Una chitarra preludiò i primi accordi con leggiero tremito, poi crebbe di sonorità e ad essa si udì in cadenza una voce.

Il suono delle corde vibrò ancora più forte e nuove voci si unirono alla prima. [p. 58 modifica] La canzone scrosciò come un turbine:

               Amici, avrete inteso,
                    se avete tutti il cervelletto sano,
                    che a quel guercio del sindaco,
                    scemo, vecchiaccio e nano,
                    gli s’è sfasciata la brutta testaccia.

                    Dunque ognun vada a caccia
                    D’un bottajo capace
                    Che co’ suoi ferri caldi
                    Tosto glie la rinsaldi;
                    d’un bottajo che a colpi di scudiscio
                    gli faccia il pelo liscio.


               Canuto e senz’un occhio,
                    stupido e vecchio come un demoniaccio,
                    quello scemo ciecaccio
                    del sindaco corrotto e libertino,
                    come fosse un paino,
                    ha la smania di far sempre il pagliaccio:

                    ronza di notte intorno alle ragazze!


               Bisognerebbe, amici, fracassargli
                    ben ben le spalle con le nostre mazze,
                    e poi metterlo a letto
                    e preparargli
                    il cataletto.

– Bella canzone, compare – disse il meccanico rivolto verso il sindaco, impietrito da tanta audacia – bella canzone. Peccato che si parli del sindaco con così poco rispetto!

E posò le mani sul tavolo, con gli occhi pieni di tenerezza, preparandosi ad ascoltare ancora, poichè sotto la finestra, fra le risa, tuonavano dei «bis».

Non era per stupore che il sindaco pareva di pietra, come non per inesperienza; ma per troppa esperienza il vecchio gatto finge di non vedere il topo e intanto cerca un espediente per sbarrargli l’unica via di scampo.

Il sindaco monoculo fissava sempre la porta: a un tratto però fa un cenno alla guardia e gira prestamente la maniglia della porta.

Subito dopo uno schiamazzo si levò nella strada. Il distillatore che, fra le altre cose, era di una curiosità prodigiosa, carica alla svelta la pipa inseparabile e si precipita giù a rotta di collo. [p. 59 modifica] – Ora non mi scapperai più! – urlava il sindaco, trascinandosi un uomo avviluppato in una pelliccia.

Il meccanico s’era avvicinato per guardare il viso di quella bona lana, ma si ritrasse subito vedendo un barbone attaccato a un viso dipinto.

– No; tu non mi sfuggirai – continuava a gridare il sindaco allo sconosciuto che si lasciava condurre, senza sforzo, come se dovesse tornare a casa propria. – Karpo, apri la dispensa, disse poi rivolto alla guardia: Per ora lo chiuderemo nello stambugio, poi aduneremo il Consiglio e faremo tutta una legata dei colpevoli: infine regoleremo i conti con quei cervellacci senza giudizio.

La guardia schiavardò un catenaccio e aprì il nascondiglio; ma quando mosse per cacciarvi il prigioniero, questi con forza e agilità straordinaria si liberò dalle sue mani.

– Fermo! – disse il sindaco acciuffandolo per il colletto.

– Lasciami: son’io – disse una vocina sottile.

– È inutile, caro mio. Anche se tu parlassi, non come una donna, ma come demonio, non mi gabberesti, e lo scaraventò entro il bugigattolo con tale violenza, che il prigioniero mandò un gemito e cadde.

Intanto il sindaco, fattosi accompagnare dalla guardia, seguìto dal meccanico che fumava come un piroscafo a vapore, uscì per andare dal segretario. Tutti e tre camminavano pensierosi a testa bassa, quando, giunti allo svolto d’una viuzza, cacciarono un grido e portarono un braccio alla fronte, dov’erano rimasti colpiti. Un altro grido in faccia a loro fece eco. Il sindaco alzò l’occhio solitario e si vide dinanzi il segretario scortato da due guardie.

– Venivo appunto da te, signor segretario.

– E io dalla Sua Grazia, signor sindaco.

– Accadono ben strane cose, signor segretario.

– Sì, davvero: strane cose, signor sindaco.

– Cioè?

– I giovinotti hanno l’argento vivo addosso: scorrazzano di qua e di là e mettono ogni cosa sossopra. Onorano il nome della Sua Grazia con certe parole, che farebbero vergogna in bocca d’un moscovita ubriaco. Tutto questo, disse il segretario, vestito con larghi [p. 60 modifica]calzoni di tela stampata e col panciotto rosa, accompagnando le sue parole coll’allungare e col ritrarre in dentro il collo.

– M’ero appena addormentato, quando m’hanno destato cantando a squarciagola una canzonaccia... Volevo riprenderli a dovere; ma, mentre mi sono infilzato pantaloni e gilet, sono iti via come il vento. Il caporione però non ha fatto in tempo a scappare e l’ho messo a terminare di cantar la sua canzone in gattabuja. Ha il viso nero di fuliggine, peggio di quello del demonio incaricato di fabbricare i chiodi ai dannati.

– E com’è vestito, signor segretario?

– Ha addosso una pelliccia, questo figlio d’un cane, signor sindaco.

– È impossibile, signor segretario. Quello che tu dici l’ho imprigionato io or ora.

– No, signor sindaco. È lei, scusi, che sbaglia.

E tutti insieme si diressero verso la casa del sindaco.

– Fate lume, si vedrà.

Il lume fu portato, la porta fu spalancata e il sindaco rimase a bocca aperta, vedendosi dinanzi la cognata:

– Dimmi un poco – con tali parole questa si volse a lui – hai proprio perso la testa? Non ci vedevi più neanche dall’occhio che ti resta quando m’hai cacciato in questo bugigattolo con tanta forza, che devi ringraziare il cielo se non mi s’è rotto la testa? Non t’ho detto «Son io» quando tu, orsaccio maledetto, m’hai agguantato con le tue zampaccie di ferro, peggio che quando il diavolo ti porterà via...

Le ultime parole le disse dalla strada, dove andò per fare certe sue faccende.

– Sì, vedo che sei tu – disse il sindaco riavendosi dallo stupore.

– Che dici, segretario, non è una canaglia questo maledetto bestione?

– Una canaglia, signor sindaco.

– Non starebbe bene una bella lezione a tutti questi birbaccioni, per insegnar loro di occuparsi di ciò che li riguarda?

– Sicuro che starebbe bene.

– Quest’imbecilli si son messi in testa... Che diamine si mette a gridare la cognata?... Quest’ [p. 61 modifica]imbecilli si son messi in testa che io sia come loro, che io sia un semplice cosacco.

Tossì, fece l’occhio severo e dette indizi che stava per dire qualcosa d’importante:

– L’anno mille... accidenti alle date, anche se m’ammazzassero non saprei tenerle a mente... insomma tempo fa, fu dato l’ordine a Ledacj di scegliere fra tutti i cosacchi quello che mostrasse più intelligenza di tutti. Oh! (questo oh! il sindaco lo pronunciò col dito teso in alto) il più intelligente di tutti, per condure la tzarina. Allora io...

– Sta bene: oramai si sa tutti come Ella meritò l’alto onore, ecc., ecc., ecc. Piuttosto confessi che lei ha torto ed io ho ragione, e non è vero che Lei abbia arrestato quel malandrino dalla pelliccia.

– Bisognerà incatenare ben bene questo furfante colla pelliccia e castigarlo come si merita! Che si sappia cosa vuol dire autorità... Poi penseremo anche agli altri. Mi ricorderò sempre quando quei pezzi di galera mi fecero mangiare tutti i cocomeri dell’orto da un branco di majali, e quando non vollero battere il mio grano. Crepino tutti, ora mi preme solamente di sapere chi sia quel demonio dalla pelliccia! Non ci resta che andare a vedere.

E di nuovo tutti si misero in cammino.

– Dev’essere un canarino che sa il fatto suo – disse il meccanico gonfiando le guance di fumo e rigettandolo in spire ignee, come quelle che escono dalla bocca d’un cannone. – Quest’uomo o bisognerebbe impiegarlo alla distilleria o farlo dondolare a guisa di lampadario dalla cima d’una quercia.

E poichè tale uscita non sembrava tanto sciocca, il meccanico s’affrettò a ricompensar sè stesso con una bella risata.

Come furono a una casina mezzo rovinata, tutti si pigiarono alla porta: la curiosità aumentò ancora quando il segretario s’accorse che la chiave che aveva girata nella serratura non era quella di casa.

Si frugò e si rifrugò, bestemmiando per l’impazienza, e finalmente disse chinandosi e cavando la chiave dagli abissi della sua tasca dei pantaloni:

– Ecco la chiave!

A queste parole i cuori de’ nostri amici si misero a [p. 62 modifica]battere e parvero divenire un solo cuore, che battendo forte forte soverchiava col rumore anche lo stridio del catenaccio.

La porta s’aprì... e il sindaco divenne bianco come un cencio, il distillatore sudò freddo e sentì i capelli rizzarglisi verso il cielo, le guardie restarono a bocca aperta e il terrore scolorò il viso del segretario; davanti a tutti stava la cognata, non meno stupita dei suoi visitatori, verso i quali si provò a fare un passo.

– Ferma! – urlò selvaggiamente il sindaco – non vi fidate, ragazzi; è il demonio. Portate del fuoco: non importa che vada distrutta la casa del governo. Del fuoco! non ci devono rimanere neanche le ossa sulla terra.

La cognata vociava, inorridita dalla condanna inflittale.

– Che diamine fate, amici? – diceva il meccanico.

– Avete i capelli bianchi e non sapete che il demonio non ha paura del fuoco? Che sia un orco, piuttosto! Allora aggiusterei tutto io bruciandolo col fuoco della pipa.

E rovesciò la cenere calda su della paglia e incominciò a soffiarvi.

La disperazione dette alla povera cognata il coraggio di supplicare e convincerli del loro torto, con tutta la sua voce.

– Aspettate, amici! – disse il segretario. – Forse quella donna non è Satana, e faremmo un gran peccataccio bruciandola. A ogni modo, se volete convincervi, fatele fare il segno della croce: se acconsente non è il diavolo di certo. La proposta fu accettata.

– Ascoltami, Satana – continuò il segretario parlando per la fessura dell’uscio – se non ti muovi dal posto noi apriremo l’uscio.

L’uscio fu aperto.

– Fatti il segno della croce – disse il sindaco cercando cogli occhi una via di scampo, in caso di pericolo.

La cognata si segnò.

– Che diavolo! è proprio la cognata.

– Qual diavolo t’ha portato qui, comare?

E la cognata raccontò piangendo come i giovinotti l’avessero presa di peso di sulla strada, e calatala giù per la finestra della casetta avessero inchiodata l’imposta. [p. 63 modifica] Infatti il segretario guardò e vide che le bandelle della larga imposta erano staccate e questa era assicurata in alto con una spranga di legno.

– Sì, ciecaccio del diavolo! – gridò poi avvicinandosi al sindaco che si trasse indietro sempre guardandola coll’occhio polifemico. – Li conosco a fondo i tuoi pensieri; tu avresti approfittato volentieri d’un’occasione qualunque per sbarazzarti di me e far la rota a tuo agio a tutte le belle ragazze. Così nessuno ti avrebbe avvertito quanto è ridicolo un vecchio grinzoso come te quando vuol fare il vanesio colle ragazze. So tutto, sta sicuro: non m’inganna facilmente una testaccia come la tua. Per un po’ sto zitta, ma poi...

E mostrando il pugno al sindaco, s’allontanò prestamente e lo lasciò a ripetersi inebetito: «Eh, qui c’è davvero lo zampino del diavolo» e a grattarsi il capo.

– Eccolo... l’abbiamo preso... – urlarono in questo mentre le guardie.

– Che cosa? – domandò il sindaco.

– Il diavolo dalla pelliccia.

– Fatemelo vedere – disse il sindaco tirandosi il prigioniero per mano. – Siete matti? questo è l’ubriacone Kalenik.

– Accidenti! Ora che era proprio in nostre mani, non è più lui... – risposero le guardie. – Appena giunti a una viuzza, certi giovinastri si son messi a ballare e a tirarci il vestito e a farci le boccacce... Che il diavolo li porti via tutti... chissà come han fatto a cacciarci sotto mano questo corvo!...

– Silenzio! – disse il sindaco. – In nome della mia autorità e di tutti i consiglieri del villaggio, che io rappresento, ordino e voglio che v’impadroniate all’istante di cotesto mascalzone e di quanti ne troverete per le strade, e che li conduciate innanzi al mio giudizio.

– Scusi, signor sindaco – objettarono alcuni inchinandosi fino a terra – se vedesse che tipi son quelli! Ci ammazzi Iddio se, dacchè siamo nati e battezzati, abbiam visto di simili visi schifosi! Che non ci accada qualche disgrazia, perchè veda, signor sindaco, quelli lì sarebbero capaci di spaventare un cristiano, al punto che nessuno potrebbe farlo ritornare in sè...

– Vi farò io ritornare in voi, pezzi di bestie... Vi siete messi in testa di non darmi retta e di fare a [p. 64 modifica]modo vostro? di tener mano a quei pezzi d’asini?   Corpo di... Cosa vuol dire questo? Voi sostenete il brigantaggio, sacr...? Voi? Ora ora farò io il rapporto al prefetto e si vedrà un poco. Capite?... via... lesti... più presto... perdio... perchè... Che io vi... che voi mi...

Tutti fuggirono.

V.

L’annegata.


Senza nessuna inquietudine, senza nemmeno pensare agli sbirri lanciatigli alle calcagna, l’ideatore di questo diavoleto ritornava adagio adagio allo stagno e alla vecchia dimora.

Non è necessario dire che tale era Levko: aveva la pelliccia nera sbottonata e il capo scoperto gocciante di sudore.

Tutto era quieto: il bosco di aceri che mostrava al raggio lunare le sue masse frondose e nereggianti; l’acqua dello stagno che alitava la sua frescura, indussero il nostro stracco viandante a riposarsi fra le deliziose ombre refrigeranti.

Dal bosco venivano con la brezza i trilli e i gorgheggi dell’usignolo. Levko si sentiva vinto dal sonno, il sopore persuadeva le sue membra stanche ad assopirsi e il suo capo a chinarsi.

– Io... mi addormenterei anche qui, disse stropicciandosi gli occhi e guardando d’intorno la notte splendida, che mai non aveva veduto più bella.

Al calmo fulgore lunare s’era mescolata una luminosità deliziosa e fantastica, che abbarbagliava i dintorni con una pioggia d’atomi d’argento, e pareva odorasse di meli in fiore e di fragranze notturne.

Posò gli occhi sulle acque ferme dello stagno, ove si rispecchiava capovolta la casa signorile, non più tetra e solitaria, ma lieta e serena, con le finestre allegre e coi puri cristalli rilucenti d’oro. Ed ecco gli parve che una finestra si fosse aperta... trattenne il respiro.

Senza staccar gli occhi dai gorghi tremolanti dello stagno, nella cui profondità gli parve per un istante [p. 65 modifica]essere emigrato, vide un gomito bianco sporgersi al davanzale e appoggiarvisi una fantastica testina, dallo splendore quieto e chiaro degli occhi, attraverso le onde brune de’ capelli.

La testina sorride e china il capo, la manina bianca fa un cenno... l’acqua tremola e la finestra si richiude. Il giovine cosacco mosse gli occhi dall’acqua e li rivolse verso la casa: le imposte erano spalancate e i cristalli scintillavano alla luna:

– Ecco come bisogna dare retta ai discorsi della gente, pensò, la casa è nuova e fresca, che par fatta jeri. Qualcuno ci abita certamente.

S’avvicinò silenzioso verso la casa, ma non vi sentiva nessun rumore. Si rispondevano i sonori gorgheggi degli usignoli, e quando si facevano più languidi e morenti si udiva lo zirlare tremulo de’ grilli e lo schiamazzo degli uccelli palustri, scivolanti col largo becco lungo lo specchio d’acqua.

Una calma deliziosa e una gioja esuberante affluirono al cuore di Levko, il quale accompagnò sulla chitarra queste parole:

                              Bianco fulgor dell’alba
                                   e tu, pallida luna,
                                   rischiarate la stanza
                                   della fanciulla bruna.

S’aprì la finestra e comparve la piccola testolina, poc’anzi riflessa dalle acque dello stagno, ad ascoltare i dolci accordi: le sue ciglia nascondevano un po’ lo sguardo, ed era tutta pallida come il lino. Ma com’era meravigliosamente bella! Lei sorrise... Levko ebbe un moto nel cuore.

– Canta un altro poco, giovine cosacco! – diceva ella reclinando il capo e abbassando interamente le sue ciglia fiorenti.

– Cosa devo cantarti, signorina mia?

Alcune lagrime rigarono il bel volto pallido di lei.

– Giovane! – disse poi con voce commossa e agitata dal singhiozzo. – Giovane: trovami la matrigna e farò tutto quel che vorrai per il tuo bene e ti ricompenserò da signora. Io posseggo coralli, collane: ti darò in [p. 66 modifica]dono una cintura adorna di brillanti o, se vuoi, dell’oro; ma trovami quella terribile strega che non mi dette pace nel mondo bello e non fu contenta finchè non mi fece faticare come un facchino, non levò dal mio viso il rosso colle sue stregonerie, non mi fece livido il collo coi suoi artigli... Vedi questi piedi bianchi? Hanno camminato, camminato sempre per i prati e per la rena scottante, per la mota e per il ciottolato... hanno camminato sempre... Vedi questi occhi?... questi miei poveri occhi che non ci vedono più, perchè hanno pianto tanto... tanto. Trovamela, giovane, la mia matrigna!...

La sua voce, che si era alzata tutt’a un tratto supplichevole, si tacque per lasciar scorrere una pioggia di lacrime.

Il petto del giovinotto fu punto da un senso di pietà e di tristezza:

– Son pronto a far tutto per te – disse con trasporto ma come, dove posso trovarla?

– Guarda, guarda! – disse rapidamente la povera signorina. – Ella è là, e danza fra le mie compagne e si scalda alla luna; ma è maligna e astuta. Si cambiò in annegata e ora è qui... la sento che mi opprime... mi soffoca; ed è per lei che non posso nuotare più leggiera e libera come prima. Son pesante e vado a fondo come un sasso... Trovamela, giovinotto!

Levko guardò verso la riva, dove, in un turbinio di nebbie d’argento, fluttuavano le ragazze, leggiere come ombre, in bianchi veli; da lontano parevano mughetti ingemmanti un prato.

Le collane, i vezzi e i medaglioni d’oro brillavano sui loro colli, ma esse erano tutte pallide e avevano il corpo come materiato di nubi di fosforo, trasparente al raggio della luna.

Il branco sollazzevole si appressò a lui, tantochè egli poteva ben distintamente udirne le parole:

– Andiamo a giuocare al corvo – sussurrarono tutte, frusciando come il canneto che il vento sfiora nell’ora del crepuscolo.

– E chi fa da corvo?

Fecero il conto e toccò in sorte a una ragazza che uscì dalla folla.

Levko l’esaminò ben bene e vide che il viso e le [p. 67 modifica]vesti non diversificavano dalle altre: solamente ella esprimeva rammarico di dover rappresentare quella parte. Le altre compagne si sparpagliarono per sfuggire alle insidie del feroce nemico.

– No... non mi piace fare il corvo! – disse la ragazza sfinita dalla stanchezza; – mi fa pena portar via i piccini alle povere madri.

«Tu non sei la strega» giudicò Levko, mentre le ragazze si preparavano a eleggere una nuova compagna.

– Farò io da corvo! – disse una di esse avanzandosi.

Levko l’esaminò con ancora maggiore attenzione. Essa rapacemente e coraggiosamente si slanciò da ogni parte per ghermire la vittima. Il corpo di lei osservò Levko che non traspariva quanto quello delle altre; per entro vi si vedeva qualche parte oscura. Risuona un grido: il corvo è su di una della fila e l’ha ghermita.

A Levko par di vedere una gioja maligna sul viso del corvo, quando caccia fuori gli artigli.

– È la strega! – egli disse indicandola col dito e voltandosi verso la casa.

Sorrise la signorina, mentre le ragazze gridavano conducendo via quella che rappresentava il corvo.

– Come ricompensarti, giovine? So che non hai bisogno d’oro: tu vuoi l’amore di Anna e quel cattivo di tuo padre t’impedisce di sposarla. Ora però portagli questo foglio e vedrai che non potrà più impedirti nulla.

La manina bianca della signorina si stese, schiarì e raggiò meravigliosamente il suo viso, mentre Levko con un tremito indicibile e un battito di cuore afferrò il foglio e... si svegliò.

VI.

Il risveglio.


– Ma ho proprio dormito? – si domandò Levko alzandosi in piedi. – Mi pareva che tutto fosse vero! È strano, strano, ripetè volgendosi intorno. [p. 68 modifica] La luna raggiante sopra il suo capo segnava mezzanotte. Silenzio per tutto: il freddo spirava dallo stagno, con la triste vecchia casa dalle imposte chiuse, sulla quale i muschi e la gramigna, largamente germogliati, attestavano che gli abitatori l’avevano abbandonata da molto tempo.

Spalancò la mano che aveva chiusa nel sonno e cacciò un grido di stupore, vedendovi il foglio.

– Se io sapessi leggere! pensò volgendolo da tutti i lati.

In questo mentre si udì un rumore dietro lui.

– Agguantatelo senza paura! Che temete? siamo in dieci e lui non è un demonio, ma un uomo come noi. Così gridava il sindaco a’ suoi amici, quando Levko si sentì afferrato da più mani, delle quali taluna tremante di paura.

– Avanti, amico, levati dal viso quella maschera e finiscila di prendere in giro la gente! – proseguiva il sindaco, pigliandolo per il collo.

Ma rimase di sasso, piantandogli addosso l’occhio sbarrato.

– Come, Levko, sei tu! Figlio d’un cane. Guarda, razza d’un diavolo, chi è l’autore di questi scherzi! Tu ti diverti a metter su il brigantaggio per le strade e ad inventar canzonette... E io che pensavo si trattasse di qualche bestiaccia o demoniaccio travestito! Ah, Levko: se ti pizzican le spalle penserò io a fartele grattare... Legatelo!

– Aspetta, babbo: ho l’ordine di consegnarti un biglietto.

– Ma che biglietto e non biglietto... Legatelo, vi dico!

– Aspetti, signor sindaco – interruppe il segretario, spiegando il foglio – questa è calligrafia del prefetto!

– Del prefetto?

– Del prefetto? – ripeterono gli automati-guardie.

– Del prefetto? Ma chi ci capisce qualcosa in questa faccenda! – pensò fra sè Levko.

– Leggi, leggi, disse il sindaco. Cosa ci dirà mai il prefetto?

– Ascoltiamo la lettera del prefetto! – esclamò il meccanico tenendo la pipa fra i denti e battendo l’acciarino sulla pietra. [p. 69 modifica]

Il segretario tossì e lesse:

«Ordine al sindaco Eustachio Makogonenko. Essendoci giunto a conoscenza che tu, vecchio imbecille, invece di riscuotere le tasse arretrate e di vigilare per l’ordine del villaggio, perdi il cervello e fai ogni sorta di grullerie...»

– Perdio! – interruppe il sindaco – non capisco nulla...

Il segretario incominciò daccapo:

«Ordine al sindaco Eustachio Makogorenko. Essendoci giunto a conoscenza che tu, vecchio imb...»

– Aspetta... non importa! gridò il sindaco. – Benchè non abbia capito nulla, giudico che questo dev’essere un... modo per cominciare... di nessuna importanza... Leggi più giù!

– «In conseguenza ti comando di ammogliare immediatamente tuo figlio Levko colla cosacca Anna Petricenkova, del nostro villaggio, nonchè di accomodare i ponti della strada provinciale e di non dare, a mia insaputa, nessun cavallo a nessun impiegato del tribunale, sia pure per ragioni di servizio.»

«Se quando arrivo non trovo eseguito tale mio ordine, me ne renderai ragione.

Il prefetto tenente Cosimo Dercaci Drispanoski.»

– Sentite? Disse il sindaco a bocca aperta. – Di ogni cosa deve rispondere il sindaco. Se nasce qualcosa di chi è la colpa?... Del sindaco. Dunque voglio essere obbedito, e senza fiatare; o guai!... Tu poi, quantunque mi paja strano che il prefetto sappia ciò, sarai ammogliato... Ma prima dovrai assaporare la frusta. Anzi domani stesso la rinnoverò. Chi t’ha dato questa lettera?

Levko, tuttochè stupefatto per la buona piega che prendevano le cose, ebbe tanto buon senso da nascondere la vera origine del biglietto, inventandola così:

– Jeri sera andai in città: ho incontrato il prefetto, che sapendomi del villaggio è sceso di carrozza e m’ha dato questo biglietto, dicendomi a voce che fra qualche giorno sarebbe venuto a pranzo da noi.

– Ha detto questo?

– L’ha detto.

– Capite? Disse il sindaco con imponenza, rivolto ai compagni. – Il prefetto in persona verrà da noi, cioè [p. 70 modifica]da me a pranzo. Oh... – e il sindaco tese il dito e abbassò il capo come se effettivamente fosse dinanzi al prefetto. – Il prefetto, sentite? verrà a casa mia... Che ne dici, segretario?... e tu, compare? Non è un onore piccolo, in verità.

– Per quanto mi rammento – riprese lo scrivano – non c’è stato sindaco che abbia ricevuto a pranzo un prefetto.

– Fra sindaco e sindaco c’è differenza – disse il sindaco con aria soddisfatta, contraendo la bocca a una smorfia, a un penoso e rauco riso, che poteva assomigliarsi al brontolio del tuono in lontananza. – Che ne dici, segretario? bisognerebbe ordinare che, per un pranzo di tanta importanza, si depositasse almeno un pollo da ogni casa... e poi un poco di tela... e... qualcos’altro, eh?

– Sì, sì...

– E le nozze, quando? – domandò Levko.

– Le nozze? Te le darei io le nozze! Ma per riguardo all’ospite illustre, domani il prete vi darà la benedizione, e poi anderete al diavolo... Presto! che il prefetto veda che cosa vuol dire essere esatti... Ora però andiamo a dormire. L’avvenimento di questa notte mi ricorda il tempo in cui ebbi l’alto onore...

– Ora il sindaco comincerà a raccontare come accompagnò la tzarina! – disse Levko, mentre pazzo per la contentezza si affrettava verso la casa dai ciliegi nani.

– Che Iddio ti dia il paradiso, buona e bella signorina! Diceva fra sè. – Che tu possa sempre sorridere fra gli angioli santi di quell’altro mondo! Non racconterò a nessuno il miracolo di stanotte; ma a te, Alia, lo racconterò: tu sola mi crederai e pregherai per l’anima della povera annegata.

S’avvicinò alla casetta: per la finestra aperta il raggio lunare penetrava a investire Anna, immersa nel sonno col viso affocato, posto sopra una mano: le labbra pronunciavano il nome di Levko.

– Dormi, bellezza mia; se tu sognassi quanto c’è di più bello al mondo, il tuo sogno non varrebbe il nostro svegliarsi.

Fece per lei il segno della croce, richiuse la finestra e andò via senza far rumore. [p. 71 modifica] Poco dopo il villaggio tutto dormiva. Solamente la luna vigilava ancora pei deserti sconfinati del lussureggiante cielo ukraino.

La notte, la divina notte ammaliatrice, si estingueva. La terra era pur sempre addormita nel placido fulgore lunare; ma nessuno l’ammirava: tutto era morto nel sonno.

Solo, di tratto in tratto, uggiolava qualche cane e ancora per un pezzo l’ubriaco Kalenik girondolava in cerca della sua casa.



Note

  1. Diminutivo di Anna.
  2. Ballo nazionale ukraino.
  3. Adunanza popolare.
  4. Proprietario di terra.