Storia d'Italia/Libro XX/Capitolo IV
Questo testo è completo. |
Capitolo quarto
◄ | Libro XX - Capitolo III | Libro XX - Capitolo V | ► |
IV
In Italia si levò l’esercito di quel di Siena per condurlo nel Piemonte; avendo rimesso in Siena, per sodisfazione del papa, a godere la patria e i beni loro quegli del Monte de’ nove, ma non alterata la forma del governo, e messovi per sicurtá loro una guardia di trecento fanti spagnuoli, dependente dal duca di Malfi: il quale per aversi saputo poco conservare la sua autoritá, ritornorno presto le cose ne’ medesimi disordini; in modo che, quegli che erano stati rimessi, per timore, se ne partirono.
Dichiarò eziandio Cesare in questo tempo la forma del governo di Firenze, dissimulata quella parte dell’autoritá concessagli che limitava salva la libertá: perché, secondo la propria istruzione mandatagli dal papa, espresse che la cittá si governasse con quegli magistrati e con quel modo che era solita governarsi ne’ tempi che la reggevano i Medici, e che del governo fusse capo Alessandro nipote del pontefice e genero suo, e mancando lui succedessino di mano in mano i figliuoli e discendenti, e i piú prossimi della medesima famiglia. Restituí alla cittá tutti i privilegi concessigli altre volte da sé e da’ suoi predecessori, ma con condizione che ne ricadessino ogni volta che attentassino cosa alcuna contro alla grandezza della famiglia de’ Medici; inserendo in tutto il decreto parole che mostravano fondarsi non solo nella potestá concessagli dalle parti ma eziandio nell’autoritá e degnitá imperiale.
Nelle quali cose avendo sodisfatto al papa forse piú che alla facoltá concessagli nel compromesso, lo offese incontinente in cosa che gli fu molto grave. Perché, poi che da piú dottori, a’ quali l’aveva commesso, fu udita ed esaminata la controversia tra il pontefice e il duca di Ferrara, sopra la quale erano stati per tutt’e due le parti prodotti molti testimoni e scritture e fatto lungo processo, pronunziò per consiglio e relazione loro, Modena e Reggio con quelle terre appartenersi di ragione al duca di Ferrara; e che il pontefice, ricevuti da lui centomila ducati e ridotto il censo al modo antico, lo rinvestisse della giurisdizione di Ferrara. Sforzossi Cesare fare capace al papa che se, contro alla promessa fattagli in Bologna (di non pronunziare in caso trovasse la causa sua non essere giusta), aveva pronunziato, doversi lamentare non di sé ma del vescovo di Vasone nunzio suo; al quale non aveva mancato di fare intendere che non voleva lodare per non essere costretto a dargli il giudizio contro, ma che egli, persuadendosi il contrario, e che questo si dicesse per scaricarsi dalla promessa fattagli di lodare se le ragioni erano per lui, aveva fatto tanta instanza che si pronunziasse che era stato necessitato di farlo per conservazione dell’onore suo: la quale scusa sarebbe stata piú capace se il giudizio non fusse stato in quel medesimo effetto nel quale Cesare aveva tentato molte volte di ridurre la cosa per concordia. Ma offese ancora molto piú il pontefice il vedere che Cesare, nel pronunziare sopra le cose di Modena e Reggio, aveva seguitato la via di giudice rigoroso; ma in quelle di Ferrara, nelle quali il rigore era manifestamente per sé, aveva seguitato l’uffizio di amicabile compositore. Però il papa non volle ratificare il lodo dato, non pigliare il pagamento de’ denari ne’ quali era condennato il duca; e nella prossima festivitá di san Piero non accettò il censo offertogli, secondo il costume antico, publicamente. Ma non restò per questo Cesare di consegnare al duca di Ferrara Modena, tenuta insino a quel dí da lui in deposito, lasciando poi decidere tra loro le altercazioni: donde, per molti mesi, né fu scoperta guerra tra il papa e il duca né sicura pace, essendo tutto intento il pontefice o a opprimerlo con insidie o ad aspettare occasione di potere, con appoggio di maggiori príncipi, offenderlo scopertamente.