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Lettere (Campanella)/CXVI. Al medesimo

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CXVI. Al medesimo

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CXV. A monsignor Francesco Ingoli CXVII. A Ferdinando II de' Medici
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CXVI

Al medesimo

Indicati gl’inconvenienti della deliberazione che si è presa per fra Pietro de Bellis, si rallegra di ciò che gli riferiscono del suo discepolo fra Paolo Piromnialli, ma teme che non mancheranno persone piene d’invidia e rancori che non vorranno vedere le opere di lui per continuare a far torto al maestro.

Illustrissimo e reverendissimo signore
e padrone osservandissimo,

Io ringrazio Vostra Signoria illustrissima per il favor chi fa a me ed a quelli che per me ricorreno alla santa Chiesa.

Ma nella grazia fatta al signor Bellis che torni alla religion di san Dominico o a quale si voglia altra che li piacerá, resto assai ammirato, e della provista; perché il detto Pietro è di cinquantacinque anni e piú, e canuto piú di me che n’ho settanta. Talché nissuna religione prenderá questo peso, e la dominicana in questi paesi non lo vor[r]á, dicendo che vada al suo convento in Napoli: il che è impossibile e disconveniente, perché ivi sarebbe schivato come leproso e persequitato sempre, massime da quelli chi fûro causa che lui fugisse; ed in ogni parte farebbe la sua vita amaramente. Di piú ha figli che non li può condurre né nutrire nelli conventi; ma, stando qua, vive onestamente insegnando le lingue e le scienze a molti personaggi francesi, inglesi, germani etc. Di piú io vi scrissi che per mezo suo potemo tirar molta gente alla fede, perché tutti eretici imparano da lui e l’hanno credito; ed in Geneva potemo far un gran colpo, e stamo in procinto di finirlo, com’il signor Favilla sa in parte.

Dunque ritirando il Bellis dentro i conventi, non solo è cosa dissutile, ma ancora disturbo grande a lui ed al luoco dove stará; ed impedimento alla conversione, la quale per tanto [p. 387 modifica]aspettare questo breve è raffredata qua ed [in] Inghilterra, li cui ambasciatori sono suoi discepoli; ed a me sarebbe un troncarme la mano nel servizio di santa Chiesa. Lascio star che sará universale scandalo in queste parti una risposta tanto cruda ed insolita alla chiesa romana, onde si vede che fu procurata da quelli chi persequitano me e lui. Sa Vostra Signoria illustrissima che Pietro Blasco di Catanzaro si fece turco, ebbe moglie e figli, e poi venuto in Roma li fu data licenza, a tempo di Clemente VIII, di vivere da prete seculare; ed era dominicano fugito in Turchia per aver ucciso maestro Pietro Ponzio. Ed a tempo di Urbano VIII, Vittorio senese, monaco di san Benedetto, fatto eretico e compagno dell’arcivescovo di Spalatro, fugito in Inghilterra, poi tornato in Roma, non fu astritto d’intrar in monasterio, ma vevette da prete. E nelle istorie e canoni sempre si legge quasi questa mutazione fatta per grazia di santa Chiesa condescendente a’ suoi fragili membri; ed ora che mi persequita, fará dire: «nunquid resina non est in Galaad? etc.». In sentire questo poverello grazia tale, si spaventava, e lui e quelli chi aspettano per venir alla fede.

Mi rallegro de le opere buone che fa il Piromalli mio discepolo, e ringrazio Vostra Signoria de li favori che li fa. Ma sappia Vostra Signoria che in Roma ci son persone, poste in dignitá, di tal invidia e rancore che piú presto desiderarebbeno ch’il Piromalli si facesse turco ed io con gli altri miei discepoli eretico, piú presto che sentire il bene che noi facciamo alla santa Chiesa; ma Domenedio ben presto giudicará di loro e noi restaremo come oro purgato nel fuoco in grazia di Dio e di santa Chiesa. Vedete quanta persecuzione moveno al mio Reminiscentur chi tratta la salute del mondo, approbato da tanti teologi, ed al Centone tomistico, unico rimedio per confonder gli eretici, ed alla Monarchia del Messia, suprema medicina contra le scisme. Le quali soprastanno magiormente al nostro tempo, e non vònno vederle per far torto a chi loro mostra la luce. Ma «et iam securis posita est ad radicem». Dio ci proveda dal cielo, poi che nella terra si sprovede; e [p. 388 modifica]giá mi diffido di poter far bene, sendo in tante maniere scornato da chi doveria onorarmi. Le mie lettere non penetrano a Nostro Signore sapientissimo e zelantissimo; però dispero di bona provista, e prego Domenedio che resplenda con maggior luce sopra le cose mie agli occhi dei prelati di santa Chiesa. Amen.

Ed a Vostra Signoria illustrissima bacio le mani.

Parigi, 14 di marzo 1638.

Di V. S. illustrissima e reverendissima
servitore divotissimo ed umilissimo
Tomaso Campanella.


All’illustrissimo e reverendissimo monsignor Ingoli, secretano della santa congregazione de propaganda fide, padrone osservandissimo,

Roma, alla Cancelleria.